di Gianpasquale Santomassimo, il manifesto, 22 marzo 2009
Fra i tre fascismi che sono al governo (il fascismo storico dei missini, il fascismo «naturale» e qualunquista degli elettori di Berlusconi, il fascismo razzista e xenofobo della Lega) soltanto il primo ha avviato da tempo – e inevitabilmente – una evoluzione e un ripensamento, che lo conducono oggi a celebrare, con lo scioglimento nel Pdl, il compiersi di una proposta politica che si lascia «alle spalle il Novecento con le sue ideologie totalitarie».
Più ancora che l'evoluzione del partito in sé, che è apparso sospeso e lacerato a mezza via tra innovazioni accettate e richiami identitari riaffioranti, ha colpito negli ultimi anni l'accelerazione del percorso personale di Gianfranco Fini, che ha teso a presentarsi come interprete di una nuova destra «moderna» e repubblicana, sempre più distante dal punto di partenza e sempre più vicina al modello di una destra europea incarnata dall'esperienza gaullista più che dalla tradizione democristiana.
Su cosa sia oggi la cultura del partito che si scioglie si sono interrogati i giornali, in tono tra il divertito e il serioso. Va detto però che molti osservatori si sono abbandonati a un assemblaggio inevitabilmente pittoresco tra dichiarazioni ufficiali, bancarelle di libri in esposizione nei congressi, «rivalutazioni» ardite di un organo negli ultimi tempi molto immaginifico quale il Secolo d'Italia. Viene fuori così un quadro dove Julius Evola si mescola a Vasco Rossi e nell'ombra sogghigna Wil Coyote. Prendiamo però la cosa sul serio, come è giusto fare, e atteniamoci al documento ufficiale, che come tutti i documenti va analizzato attentamente, di là del suo valore intrinseco.
Il nuovo Pantheon è molto affollato, anzi sovraffollato, e si presterebbe senza dubbio a facili ironie. Rispetto ai documenti della svolta di Fiuggi (gennaio 1995) vediamo cadere il richiamo a Gramsci (e agli echi nazional-popolari che lo legittimavano), compaiono però Giovanni Amendola e Piero Gobetti, mentre non solo un residuo di buon gusto impedisce l'introduzione di Giacomo Matteotti, ma soprattutto la sua estraneità al clima della cultura antigiolittiana e antipositivista che pare il filo conduttore di molti inserimenti. Nel primo Novecento troviamo infatti Croce e Gentile, Pirandello, Mosca, Pareto, Gobetti, la «grande stagione culturale del nazionalmodernismo del Futurismo di Marinetti e Boccioni», l'opera di Marconi, «lo slancio di Filippo Corridoni», le «propulsioni culturali e lo slancio civile di D'Annunzio, Papini, Soffici, Prezzolini, Amendola, Malaparte». Vittime e carnefici del decennio futuro vengono fissati come in sospensione alla data del 1914, come se la storia d'Italia si fosse fermata lì.
C'è una certa coerenza, non assoluta ma relativa, rispetto al canone fissato da Fini al congresso di Fiuggi quattordici anni fa: l'idea di una destra che precede il fascismo e va oltre il fascismo. Lasciamo perdere l'obiezione, facile, sul carattere non assimilabile alla destra di molti dei personaggi elencati. La cosa più sorprendente, però, è che con tale disposizione ideale, e da un versante insospettato, si torna a «mettere tra parentesi» il fascismo, cioè l'unica esperienza unificante delle destre in Italia prima di Berlusconi, il suo lascito duraturo e incancellabile nella storia d'Italia, e, inevitabilmente, nella storia, nella cultura, nella psicologia della destra italiana. Ma qui non è la «repugnanza» crociana verso il fascismo che ispira questa parentesi; sono imbarazzo e falsa coscienza che impediscono di parlare del regime.
Il filo conduttore è quello di una «via italiana alla modernità» che parte da molto, troppo, lontano: Dante, Petrarca, Machiavelli, Leonardo e Vico, e che attraverso Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni, Gioberti, Cattaneo giunge al primo Novecento. Questa linea scavalca il fascismo ma riaffiora nell'Italia repubblicana attraverso le «personalità che, in un contesto di differenti egemonie culturali, hanno lavorato per mantenere viva l'idealità italiana, da Guareschi, a Longanesi, a Del Noce, a Montanelli, a Flaiano, a Calamandrei, a Pannunzio, a Cotta». Lo spirito della modernità italiana si esprime anche nel cinema di Fellini e Sergio Leone e «nella musica di Battisti, Mogol e Pavarotti, dall'applicazione industriale di Beneduce fino a Enzo Ferrari ed Enrico Mattei. È questo il Novecento che merita di essere traghettato nel nuovo secolo, a fondamento culturale del nuovo partito che stiamo costruendo».
Lo sbocco di tutto questo è il Pdl che rappresenta il «partito degli italiani», «capace di unire e rappresentare tutte le culture politiche espressione dello spirito nazionale, racchiuso nell'identità cattolica, nel Rinascimento, nel grande Umanesimo, nel Risorgimento e nei movimenti modernizzatori e riformisti del Novecento».
Evitiamo facili battute su questo ultimo elenco di nomi e di richiami. Quello che non si può tacere è però il ritorno di una tipica arroganza fascista, e che la stessa idea di un «partito degli italiani» – che è anche lo slogan del Congresso – ben compendia: far coincidere nazionalità e appartenenza politica, con l'ovvia e sottaciuta espulsione di tutti gli italiani di opinioni avverse dal campo stesso della patria comune. Sono parole in assoluta libertà, demagogia propagandistica (ancora più corrente negli ideologi di Forza Italia che in quelli di An) che però non può che preoccupare in un partito plebiscitario e carismatico, fondato sulla guerra civile permanente e sulla divisione degli italiani in «buoni» e reprobi quale è quello fondato da Berlusconi e in cui oggi i postfascisti confluiscono.
Il documento mescola richiami all'individualismo e alla centralità della persona contro il fallito «progetto massificante e relativista, prima di marca marxista, poi giacobino-economicista», ma anche richiami al fallimento del mercatismo e del globalismo, «ideologie sbagliate e non il grande punto d'arrivo dello sviluppo umano». Rilancia l'economia sociale di mercato come alternativa al liberismo deregolato. Contro la fine delle patrie, rivendica l'identità italiana come «connotato culturale, passionale e prepolitico» del Popolo della Libertà, intesa come riconoscibilità di una forma mentis tipica di una comunità. Non manca l'inevitabile condanna dello «spirito del Sessantotto», stagione che ha degradato i saperi e ha confuso i valori della cultura. «Allora la cultura del merito fu espunta dalla scuola e dall'università per lasciare spazio a una collettivizzazione dei titoli, assolutamente effimera e dannosa». Obiettivo ambizioso è «capovolgere la meccanica dell'egemonia culturale che, per decenni, ha tenuto le idee, i programmi e la cultura della destra in una condizione di subalternità rispetto al 'pensiero unico' liberal e tecnocratico». La Grande Riforma presidenzialista è additata sullo sfondo come tappa cruciale del percorso.
Che dire, in conclusione? La fondazione della cultura di una «destra repubblicana», autoritaria ma costituzionale, laica e secolarizzata pur nell'ossequio ai valori religiosi, era già molto difficile in un partito diviso tra nostalgia e razionalità. Sarà compito ancora più arduo in un partito carismatico e demagogico, dove le chances per Fini di contare e orientare saranno inevitabilmente ridotte ai minimi termini.
(25 marzo 2009)