E DOPO LA VISITA IN VATICANO L’INCONTRO CON ALEMANNO

Leggo e trascrivo:
E DOPO LA VISITA IN VATICANO L'INCONTRO CON ALEMANNO
• Domenico Bruni

Il sindaco di Roma Gianni Alemanno ieri mattina ha informato di aver invitato per il 4 giugno i rappresentanti delle maggiori organizzazioni ebraiche statunitensi e del mondo «a partecipare alla festa che stiamo organizzando per il 65° l’anniversario della liberazione di Roma anche grazie alla collaborazione con l'ambasciata americana».
Alemanno in mattinata ha incontrato in Campidoglio una delegazione di 51 persone delle maggiori organizzazioni ebraiche del mondo, guidata dal presidente Alan Solow e dal vicepresidente, Malcolm Hoenleine, alla presenza del presi¬dente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici. Dopo aver giudicato l'incontro «positivo» Alemanno ha preannunciato alcuni dei suoi prossimi viaggi: «Andrò a Chicago ad aprile in occasione dell'incontro dei sindaci del mondo sui problemi ambientali e a Gerusalemme prima dell'estate». Mercoledì la delegazione della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane era stata ricevuta dal presidente dei Consiglio Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi. Il premier in quell’ occasione ha ricordato i «for¬ti legami con gli Stati Uniti e Israele» nonché «l'impegno dell’Italia per la pace in medio Oriente e contro ogni forma di antisemitismo e di intolleranza». Il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, aveva ricevuto la delegazione nel pomeriggio a Montecitorio. Sempre ieri, la delegazione é stata ricevuta dal Pontefice (vedi articolo a fianco), ma già nei giorni scorsi il cardinale Walter Kasper, responsabile va¬ticano dei rapporti con l’ebraismo, aveva avuto un colloquio con rappresentanti del World Jewish Congress. (WJC).

Ed ora:

Nel ricordo del LXV E.S. (Era Sfascista)
QUEL “MIO” 4 GIUGNO 1944
di Filippo Giannini

DEDICO QUESTO ARTICOLO AL (L’AGGETTIVO APPROPRIATO LO INDIHINO I LETTORI) SINDACO DI ROMA CHE SI APPRESTA A FESTEGGIARE L’ANNIVRSARIO DELLA “LIBERAZIONE DI ROMA”

Che molti italiani nella guerra 1940-1945 non abbiano fatto un gran che per vincere è una cosa (purtroppo) accertata, e che molti abbiano acquisito l’”american style of life” è altrettanto vero. Dal mio punto di vista, se sfoglio una margherita sulle cose importate dai vincitori e da me accettate, via via i petali vengono tutti scartati, salvo due: i films di Stanlio e Ollio e i jeans”. E allora, dico: valeva la pena darsi tanto da fare per perdere la guerra per guadagnarsi un paio di “jeans”?
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4 giugno 1944, giorno (diciamo) della “liberazione” di Roma. “Liberata” da un popolo che per vocazione nasce come “liberatore di genti oppresse”. D’altra parte il mondo è colmo di “gnocchi”.
Ero poco più che bambino, ma quegli avvenimenti sono rimasti nella mia memoria ben chiari e, parafrasando padre Dante, “per ridir del ‘mal’ che vi trovai, dirò dell’altre cose che v’ho scorte”.
Quanto ci sarebbe da scrivere su quel periodo: bombardamenti e mitragliamenti terroristici, penne e giocattoli esplosivi (d’altra parte questo tipo di “liberazione” si porta con il terrore, come stiamo vedendo anche in questi giorni); attentati scientemente preparati per riavere in cambio le rappresaglie e la fame, sì, la fame più nera.
Proverò a scrivere di quelle cose meno note, perché ricordi assolutamente personali.
In quell’epoca vivevo a Via Po, all’ultimo piano di un palazzo di stile umbertino. Le mie finestre davano da un lato su quella strada, dall’altra su Via Simeto. Con la nascita della R.S.I. (esattamente come qualsiasi Paese in guerra) vennero emessi bandi di coscrizione militare per alcune classi: moltissimi risposero, pochi no.
Spesso, affacciandomi su Via Po, vedevo una parte dell’interno di un appartamento del palazzo prospiciente, esattamente al secondo piano, dove si “nascondeva” un giovane che non si era presentato alla chiamata alle armi. Molti lo conoscevano e sapevano della sua renitenza alla leva: ma era inoffensivo e non ebbe mai fastidi.
Posso testimoniare che, pur vivendo in un periodo di fame (provate a pensare come si può vivere con una razione di 80 grammi di pane giornaliera), la popolazione civile non provava odio né per i militari tedeschi né per i “fascisti”, anche se la maggioranza attendeva i “liberatori”. L’idea di sconfiggere la fame era il miraggio assillante; il “pane bianco” giustificava persino la sconfitta della Patria.
In questo clima, che per assenza di spazio ho appena accennato, la vita scorreva (tra un bombardamento e l’altro, tra un mitragliamento e l’altro) ordinata; e la parola “moralità” aveva ancora un senso e un valore.
“Finalmente” ecco la mattina del 4 giugno: la “liberazione”. Ovviamente “quel giorno” niente scuola: una doppia festa. Dalla strada giungevano grida di giubilo e anche il rumore metallico dei carri armati che, in numero infinito, puntavano a nord dirigendosi sulla Flaminia, l’Aurelia e la Salaria. Ad un certo momento sentii colpi di armi automatiche. Mi affacciai su Via Simeto: guardando sulla destra potevo vedere uno squarcio di Piazza Verdi dove allora c’era la “Casa dell’automobile”. I colpi venivano proprio da quella parte. Poi venni a sapere che in quell’edificio si erano asserragliati alcuni “fascisti” che, al contrario della massa, non volevano essere “liberati”.
Scesi in strada e mi imbattei con il giovane “imboscato” del palazzo prospiciente: si era cinto la testa con un drappo rosso e imbracciava un fuciletto simile a quelli che avevamo in dotazione come “Balilla”. Notai nei suoi occhi un notevole imbarazzo: certamente ero l’ultima persona che avrebbe gradito incontrare. Anch’io lo guardai, stupito (ancora non potevo sapere l’andamento di “certe cose”). Poi si allontanò, tuffandosi “vincitore fra i vincitori”, e magari andando a vantare i suoi meriti di partigiano.
Sin dal primo giorno ebbi modo di assistere al sorgere del fenomeno delle “segnorine”: ragazze e signore che donavano, per fame, le loro virtù ai “liberatori”.
Il passaggio fra la nostra civiltà e l’”american way of life” fu improvviso, squassante. Ripeto, anche se poco più che bambino, ebbi immediatamente l’impressione che “quel” 4 giugno rappresentasse uno spartiacque: da una parte la vita come l’avevo vissuta, dall’altra quella che mi si prospettava in futuro. Da quel giorno e nei seguenti assistetti a spettacoli che mai avrei immaginato. Soldati, soprattutto americani, perennemente ubriachi che insudiciavano e si insudiciavano col proprio vomito. Per la loro continua ricerca di “segnorine” le strade, non solo quelle nascoste, erano tappezzate di profilattici, un “prodotto”, sino ad allora assolutamente riservato. Alcuni ragazzi che erano stati orgogliosi “Balilla”, trasformati in “sciuscià”.
La fame, con la “liberazione” non scemò di molto, perché i prezzi di ogni prodotto si erano moltiplicati grazie all’inflazione causata da un altro regalo dei “liberatori”: l’immissione, incontrollata sul mercato delle “amlire”, la moneta d’occupazione che rappresentò la rovina definitiva della nostra economia.
E le “segnorine” battevano il marciapiede sempre più numerose, alimentando una “ventata” di progresso.
Un fatto, più di ogni altro, è rimasto impresso nella mia mente e da solo, può dare la misura della miseria morale importata dai “liberatori”. Un giorno ero a Piazzale Brasile (Porta Pinciana), zona particolarmente frequentata dai militari americani di colore e bianchi. Vidi arrivare una famigliola composta da padre, madre e un bambino di due o tre anni. La donna con il bambino in braccio si sedette su un muretto, mentre l’uomo si allontanò per tornare, poco dopo, in compagnia di un soldato di colore. Confabularono per pochi attimi, poi l’uomo prese il bambino e lasciò che la moglie si allontanasse con il militare nell’interno di Villa Borghese. Assistetti anche al ritorno della coppia e a un nuovo episodio: l’uomo consegnò il bambino alla donna, si allontanò per cercare un nuovo cliente: una nuova breve contrattazione e così di seguito.
Voglio fare un piccolo “dispettuccio” sia al Presidente Napilitano, al festeggiante sindaco di Roma, la suo boss Gianfranco Fini e a tutti i felici liberati, voglio citare quel che disse il filosofo antifascista Benedetto Croce pochi giorni dopo la liberazione di Roma. Croce si dimise dalla sua carica governativa (era ministro del Governo Bonomi) quando comprese chiaramente quale strada disastrosa stava prendendo il nostro Paese. Nella lettera di dimissioni egli testualmente ha scritto:
“I patti firmati all’atto della capitolazione non consentiranno agli italiani di essere liberi, né di lavorare liberamente, né addirittura di chiamarsi liberi; con me ho il vivo ricordo del tempo di pace, durante gli anni del deprecato Fascismo, con un popolo che pur tra le spire di un regime a me inviso, di certo non poteva sentirsi schiavo e il cui lavoro incontrava ovunque rispetto e considerazione”.
Il mondo nel quale oggi viviamo è quello che ci fu imposto “quel” 4 giugno. D’altra parte, la storia si ripete perché ad ogni invasione di barbari segue un periodo di decadenza. Per dare una misura del valore dei barbari d’oltre oceano, non voglio citare il ritorno della mafia, né il flagello della droga o dell’alcolismo, o altre meraviglie importate dai liberatori, ma invitare i lettori ad assistere ad una esibizione del Wrestiling, quella specie di lotta, made in Usa, dove traspare tutta la stupidità, la brutalità, la decomposizione morale di un popolo che “è passato dall’antichità ai tempi moderni, senza mai fermarsi, neanche un giorno, a quello della civiltà”.
E tanti italyoti festeggiano la morte della nostra civiltà, la ciiltà Romana, per accettare l’american way of living.
Tutti possono festeggiare, ma non “Io”.

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