di Giovanni Perazzoli
Ogniqualvolta il centro sinistra si trova con l’acqua alla gola, si ricorda della necessità di una riforma degli “ammortizzatori sociali”. Naturalmente non ha mai fatto nulla di incisivo quando poteva, lasciando cadere nel dimenticatoio progetti e programmi o gestendo malissimo quelli che aveva in cantiere. E dire che la questione – se si capisce bene di che cosa si tratta – ha una rilevanza enorme. Sull’anomalia dell’Italia rispetto agli standard europei si sarebbe dovuta coinvolgere con forza l’opinione pubblica. Infatti, mentre nella quasi totalità dei paesi europei viene garantito un reddito minimo per chi non ha lavoro o per chi lavora ma non guadagna abbastanza, in Italia non viene fatto nulla di tutto questo. Calata nel concreto, la differenza, tra noi e l’Europa è enorme. Eppure, non se ne fa parola: mai una telecamera è stata portata a documentare la realtà europea. Ma la mancanza di un sussidio universalistico è analoga, per gravità, alla mancanza negli Stati Uniti di un sistema sanitario esteso a tutti. È un tema da campagna elettorale. È una delle bandiere che impugnerebbe l’Obama italiano. E invece sulla questione è fittissimo il silenzio, sia da destra che da sinistra. Si minimizza, e si parla vagamente di riforma degli “ammortizzatori sociali”. L’Italia resta così – in compagnia della Grecia e dell’Ungheria – al di fuori dei parametri europei. Dal 1992 l’Europa ci chiede di rimediare. Ma fino ad oggi, l’abbiamo ignorata.
Improvvisamente, Franceschini. Misurata sugli strumenti che esistono attualmente in Europa per far fronte alla crisi la sua proposta è, naturalmente, niente. Anzi, è la denuncia di un ritardo. Tanto più fuori dal mondo è la risposta di Berlusconi: abbiamo vincoli europei di bilancio e non possiamo spendere un punto e mezzo del Pil, 25 miliardi di euro. Ma Franceschini non aspirava a tanto. La sua è una misura d’urgenza, per la quale basterebbero 4 miliardi di euro. Quindi, poco. Perché se invece si volessero fare le cose sul serio, come in Europa, allora sì che si dovrebbe spendere: l’Europa spende intorno al 2-3% del Pil, noi, belli belli, spendiamo lo 0,4! Che pretendiamo? Che cosa ci aspettiamo, se non Gomorra?
Ma non ho visto una folla di esperti, sociologi o economisti ricordare questi dati che ben conoscono. Perché, per dirla in breve, non abbiamo mai attuato uno dei pilastri strutturali del welfare state. Tutto qui, semplicemente questo. L’urgenza di oggi è solo drammaticamente, catastroficamente, più urgente di quella di ieri. È evidente infatti che questa cifra – lo 0,4% – ci dice da sola che non c’è mai stata alcuna politica italiana per la protezione del reddito. Eppure l’Italia è un paese ricco, e paesi meno ricchi del nostro, come l’Irlanda o l’Austria, non lasciano un solo disoccupato con le tasche vuote o senza un tetto sopra la testa.
Non è un problema di soldi. Il sofisma classico scambia invece la causa con l’effetto. Sappiamo che la Banca Mondiale ha calcolato che il costo della corruzione in Italia si aggira intorno ai 50 miliardi di euro. Sappiamo anche che l’evasione fiscale sfiora i 250 miliardi di euro. Sappiamo insomma dove prenderli, i soldi. Si tratterebbe di tornare alla normalità degli stati democratici. Viste le cifre, con la proposta di Franceschini gli evasori e i corrotti non dovrebbero neanche stringere troppo la cinghia. Solo se si volessero fare le cose sul serio, allora evasori e corrotti dovrebbero sacrificarsi un po’, ma sempre in modo “sostenibile”.
Che cosa è serio? Che cosa fanno gli altri che noi neanche immaginiamo? Nei paesi europei in media a partire dai 16 anni (dai 25 in Francia) si ha diritto a un reddito minimo. Lo chiamano in vari modi: in Francia Revenu minimum d'insertion (RMI) che diventerà, con la riforma in atto, Revenu de solidarité active (RSA); in Gran Bretagna Jobseeker's Allowance (JSA), in Germania Arbeitslosengeld I e II. Non solo. Il disoccupato percepisce anche un aiuto per l’affitto. Per il riscaldamento. Per la ristrutturazione della casa. Per i figli. Per l’uso del telefono (perché il disoccupato non si può isolare, altrimenti non trova lavoro) e tante altre cose. In Gran Bretagna sono arrivati a includere anche due sterline per la lavanderia. Importanti sono anche le integrazioni per chi ha un reddito da lavoro che si giudica inferiore ai parametri minimi. Già questa sola misura colpirebbe al cuore il lavoro nero (il fatto che non esista di fatto lavoro nero in Europa non si deve ad aspetti astrali, religiosi, antropologici). Più o meno in ogni paese europeo è così, con alcune differenze non essenziali. Rimando gli increduli a questo video sul Belgio e l’Olanda.
Quanto percepisce un disoccupato in Europa? La domanda sorge spontanea, ma è mal posta. Le politiche di protezione sociale sono un sistema di interventi e di trasferimenti che non si può riassumere in una cifra valida per tutti. Ci sono delle cifre di base: 613,3 euro in Belgio; 425,4 euro in Francia; 645,4 in Irlanda; 1044,4 in Lussemburgo; 345 in Germania; 743 in Danimarca, se si ha meno di 25 anni, 1153, se si ha più di 25 anni; 669 euro in Gran Bretagna; 549 in Olanda; 519 in Austria ecc. Ma non danno il senso delle cose, perché a queste cifre di base si devono aggiungere altri versamenti per l’alloggio, per i figli ecc., per non contare tutta la serie delle esenzioni e delle riduzioni (scuole, trasporti ecc.).
Per capire di cosa parliamo è allora più utile sapere che una delle questioni del dibattito politico di questi paesi è quello di marcare la differenza tra il reddito che danno alcuni lavori poco qualificati e il sussidio. In un programma televisivo tedesco della WDR 1 è stato calcolato che una commessa con due figli che percepisce 1538 euro netti al mese con il suo lavoro, ne avrebbe 1454 con il sistema di trasferimenti previsto dall’Arbeitslosengeld II. Se non lavorasse, perderebbe solo 84 euro. E si noti che, con buona pace di Bersani, secondo il quale in Italia ci sono «stipendi greci e prezzi tedeschi», la vita in Germania costa meno che in Italia.
Ora qui non è il luogo per discutere dei problemi legati alla «trappola dell’assistenza» o per distinguere i paradossi dalla normalità o per elencare tutte le procedure adottate per contenere i problemi che questo sistema potrebbe produrre e, in parte, produce. Quello che ci interessa è la differenza tra la situazione della disoccupazione italiana e quella europea e il fatto che da noi non se ne sappia nulla.
Contro queste forme di protezione si fa presto in Italia a scatenare il pregiudizio: con simili protezioni nessuno lavorerebbe più. Lo si è già fatto in via preventiva. Però è curioso che proprio da noi, dove si è ostacolata ogni forma di certezza del reddito in nome del principio che il lavoro «nobilita l’uomo», si faccia poi così presto a ridurre il lavoro a una questione di soldi. Dove è finito il valore sociale del lavoro? È svaporato nella solita nuvola dell’ipocrisia italiana, ovvero nell’ipocrisia di un Paese in cui tutti si contendono la coperta dell’assistenza (a partire dalle banche e dalle imprese, per arrivare ai giornali), ma per essere poi pronti a denunciare l’ «assistenzialismo» dove, peraltro, sarebbe più appropriato. E invece è vero, ed empiricamente dimostrato, che le persone preferiscono avere un ruolo nella società piuttosto che essere percepite come dei parassiti. Se ne stupiscono, naturalmente, i parassiti.
Perciò, con buona pace delle enormi zecche e sanguisughe italiche, in Francia quest’anno sono stati dedicati grandi festeggiamenti ai venti anni del Revenu minimum d'insertion (RMI). E non solo. Il Revenu de solidarité active che lo sostituirà è ancora più protettivo, riducendo al tempo stesso, con qualche accorgimento, il rischio della «trappola assistenziale».
In realtà, nessuno mette in discussione questi interventi perché garantire il reddito conviene all’intera società. A parte i calcoli sul risparmio in spese sanitarie e in ordine pubblico, e dato per fermo il principio di solidarietà, c’è una convenienza strutturale che piace sia alla (vera) socialdemocrazia che al (vero) liberalismo. La protezione sociale rende infatti le società più sicure e, al tempo stesso, più dinamiche. Mentre la garanzia del reddito non riduce in modo significativo la volontà di lavorare e di avere un ruolo nella società (chi vive di sussidio avrebbe in ogni caso bisogno di assistenza), è invece significativo l’impulso all’intrapresa che esso produce, proprio perché il rischio è minore. Come ha scritto Hans Werner Sinn: “protetti dal Welfare State, si può osare di più”.
Ma in Italia viviamo in un mondo chiuso e arcaico, a guardia del quale sono poste le Televisioni. Imbarazzante è ricordare quali sono i criteri per accedere ai 40 (quaranta) euro della social card di Berlusconi. Bisogna avere un reddito annuo inferiore ai 6000 euro e avere figli che non abbiano superato i tre anni. A partire dagli 80 anni il reddito può superare gli 8000 euro l’anno. Vi rendete conto?
Per misurare la distanza siderale delle politiche di assistenza europee dalla barbarie berlusconiana porto un caso della mia vita in Germania. Tra le varie forme di trasferimenti, esiste in Germania il Kindergeld: indipendentemente dal reddito della famiglia, indipendentemente dal fatto che si tratti di una famiglia ricca o povera, indipendentemente anche, si noti, dalla nazionalità della famiglia, lo Stato versa per ogni bambino a carico 150 euro al mese. Il trasferimento dura fino alla maggiore età, o fino ai 26 anni, se il figlio studia. Quando mi sono deciso, dopo un anno di vita in Germania, a sbrigare la pratica del Kindergeld, la mia sorpresa è stata constatare che l’amministrazione tedesca del tutto autonomamente si è premurata di versare gli “arretrati” relativi all’anno precedente, cosa che non avevo chiesto, e a cui neanche pensavo di aver diritto.
Siamo su un altro pianeta. Certo, in Germania si pagano le tasse. E per quelli che non lo fanno sono dolori. Addirittura i servizi segreti tedeschi (lo ricordate?) hanno prezzolato un funzionario di una banca svizzera per avere la lista degli evasori. Poi, non so se per ingenuità o per spirito di ironia, ci hanno trasmesso i nomi degli italiani che figuravano sulla lista nera. Non rendendosi conto dei rischi d’infarto che questa iniziativa avrebbe provocato da noi.
Qualcuno in Italia si è lamentato del fatto che la proposta di Franceschini è discriminatoria verso i lavoratori autonomi. Ha ragione. In Europa chiunque non abbia un reddito sufficiente viene aiutato. Anche i lavoratori autonomi. Anche gli artisti, i musicisti, gli attori. In Francia gli artisti che dimostrano di lavorare una parte dell’anno, vengono stipendiati per l’altra. È importante capire, insomma, che la percezione che si ha di queste misure non è l’assistenza ai poveri. Conosco diversi ricercatori e docenti universitari tedeschi, giovani o non più giovani, che tra un contratto e l’altro con le università (contratti veri, ben pagati) usufruiscono del sussidio. Il problema è, però, che i lavoratori autonomi pagano le tasse, mentre da noi si intitolano le vie a Craxi.
Ma non basta. In tutta Europa è in crescita, sostenuto da grandi nomi dell’economia, intellettuali, politici, il movimento del Basic Income, che si propone di superare gli attuali sussidi di disoccupazione con un reddito di base universale, uguale per tutti. Ma questo tema merita un discorso a parte. Basti pensare, comunque, che in pochissimi giorni la Tageszeitung ha raccolto 50.000 adesioni.
La verità è che per la sinistra italiana (chiamiamola così per comodità) quella per la garanzia del reddito non ha mai avuto la dignità di una battaglia di giustizia e di libertà. Nel nostro ritardo c’è il peso dell’ideologia della Piena Occupazione, non importa se approssimata (si fa per dire) attraverso massicci interventi in perdita dello Stato. Mi vengono in mente i manifesti della propaganda sovietica, con quelle fiere e giovani donne che brandiscono un pesante martello. Insomma, una visione del lavoro arcaica, a cui corrisponde un’idea di società ingessata dentro ruoli corporativi che poco hanno da invidiare a quelli della destra. La realtà delle moderne società è, invece, quella di cambiare molto in fretta: si bruciano posti di lavoro in un settore per ricrearsene in un altro. Ma è sempre difficile per le ideologie capire che si esiste come individui, e non come categorie sociali.
Così l’idea di garantire il reddito e un po’ meno il posto di lavoro (peraltro, al di là delle chiacchiere, in Italia si licenzia come negli altri paesi) suona come un affronto, come una bestemmia. Poi il tappo è saltato, e ci siamo ritrovati con il dilagare del lavoro precario, ma senza reti di sicurezza. Ed è cresciuto il consenso clientelare, l’abuso, il lavoro nero. Dopodichè, anche la rendita politica che offrivano le vecchie categorie metafisico-sociali è finita. Oggi non esiste più un solo segretario di partito in Parlamento che venga dalla sinistra, e la proposta dell’assegno ai disoccupati, pallida misura contro la disperazione, la fa Franceschini.
Ma il ritardo italiano lo si potrebbe spiegare anche con ragioni meno ideali, o ideologiche. Le varie forme di garanzia del reddito minimo europee sono un diritto soggettivo esigibile. Questo significa che qualsiasi cittadino ne ha diritto senza alcuna mediazione, né politica, né sindacale. Gli basta presentarsi ad un ufficio. In Italia, al contrario, esiste la Cassa integrazione che è discrezionale (oltre che limitata nel tempo). La puoi avere, oppure no. Dipende. La contrattazione dà un ruolo specifico ai sindacati, ai politici. Poi c’è il voto clientelare. E il bisogno resta sempre uno degli elettori più esigenti del nostro Parlamento.
L’introduzione di un intervento di welfare autenticamente riformista e liberale avrebbe, insomma, delle conseguenze devastanti per un sistema politico come il nostro, che non è né riformista né liberale, ma autoritario, arcaico, e basato sul consenso mediatico-clientelare-affaristico.
L’iniziativa di Franceschini sarebbe stata più forte, tanto più perché è una proposta d’urgenza, se avesse battuto l’accento sul nostro ritardo rispetto all’Europa e sulle ragioni di fondo che hanno determinato questo ritardo. Non ci si può limitare a rimandare oscuramente a un futura “riforma degli ammortizzatori sociali” ed esimersi dal dare una connotazione politica forte all’orizzonte del problema. Una forza politica europea, tanto più se di sinistra, dovrebbe squarciare il velo. E dire che cosa si nasconde dietro la differenza tra una spesa per protezione dalla disoccupazione del 2,5% della media europea e una non spesa italiana dello 0,4%. Invece, anche adesso, il silenzio resta fitto.