Utopie e riflessioni…
Perché occorre approfondire le competenze educative del docente?
Nel contesto educativo occorre relazionarsi assiduamente con colleghi, con superiori, con ragazzi e con i loro genitori. Si è esposti al giudizio di tutti a 360 gradi con conseguenze spesso devastanti, sia a livello esistenziale che psicologico. Personalmente “forse” sono riuscita immune da sei pesanti anni di precariato perché mi sono sempre e costantemente posta il problema dell’educazione e della necessità di apprendimento, di crescita sociale, culturale e psicologica di ogni ragazzo.
Gli atteggiamenti educativi emozionali e di controllo comportamentale incidono sulle modalità di impostare la relazione educativa con gli allievi, dal momento che non sono delle dimensioni isolate, ma interconnesse ed interdipendenti con l’impostazione complessiva della personalità globale dell’insegnante. Le convinzioni socio-politiche, la visione del mondo e dell’uomo, gli atteggiamenti verso le persone in divenire, il modo di porsi rispetto al compito educativo e in rapporto a se stessi sono istanze comportamentali e modali che sono comprese nel sistema interdipendente della personalità. Mentre non esistono divergenze tra gli studiosi dell’interazione educativa sul fatto che gli atteggiamenti educativi sono strutture interdipendenti, non esiste invece unanimità nell’individuazione dei criteri su cui fondare tali atteggiamenti. Kessel, uno studioso marxista, afferma che solo gli insegnanti con un chiaro e fondato atteggiamento favorevole alla società socialista stabiliscono significative relazioni sociali. Secondo la Psicologia Individuale di matrice adleriana, il rapporto educativo deve essere fondato sull’interesse sociale.
Secondo la psicologia di orientamento cristiano, gli atteggiamenti educativi sono validi se fondati sulla carità e responsabilità, per altre correnti di pensiero sono validi se fondati sul senso democratico. Da questi esempi risulta che gli atteggiamenti educativi positivi sono considerati come possibili solo se radicati in specifici sistemi motivazionali di tipologia prosociale. La formazione o la modifica degli atteggiamenti educativi degli insegnanti non devono essere considerate attraverso dinamiche processuali orientate su principi pedagogici, ma devono comprendere l’intero paradigma sistematico di convinzioni ed atteggiamenti dettati dalla personalità. La modalità tramite cui l’insegnante definisce il suo rapporto relazionale con gli allievi, influisce sulle vicendevoli relazioni e modalità di approccio e di rapporto all’interno della classe. Nel momento in cui l’insegnante stabilisce un contatto in cui gli allievi si sentono accettati e stimati come persone e quando esercitano una funzione di guida in modalità sociale e integrativa, allora gli allievi non solo si sentono valorizzati, ma motivati a sentirsi come attori interagenti nel gruppo classe. A questo punto ci si chiede se è possibile educare alla pace e creare un clima scolastico in grado di dare sicurezza agli alunni e agli insegnanti e di sviluppare al massimo le risorse di ciascuno. Per coloro che hanno risposto negativamente, il rapporto educativo è una questione di potere, di controllo, di trasmissione efficace di contenuti da depositare nella memoria degli allievi. Per coloro che non sono stanchi di provare, di cercare rapporti di reciproco adattamento creativo e nonviolento, dentro una realtà strutturale che permane ancora ostile a queste mete, valgono gli obiettivi che sempre i migliori educatori hanno saputo conseguire, quali il mutuo insegnamento, la cooperazione, la fiducia e l'accettazione reciproca, il confronto aperto e alternative nonviolente nei conflitti nella comunicazione circolare e non unilaterale, con lo scambio continuo fra educazione e vita personale e sociale.
Disagio sovraindividuale
Più volte nel corso della professione di insegnante mi sono trovata in situazioni disperate, in circostanze assurde che sembrano irrisolvibili anche da parte di tanta pedagogia scolastica, didattica e pedagogica.
Ve ne riporterò degli esempi:
La classe dimostra scarso interesse e patente abulia relazionale e cognitiva verso ogni proposta didattica innovativa e propositiva che scade inesorabilmente nel rifiuto e nell’avversione totali verso l’impegno di studio e di metodo. L’idea di impegnarsi con assiduità su un copioso numero di verifiche variegate nel contenuto e nelle modalità di svolgimento viene respinta per la scarsa volontà, per l’immotivato zelo nell’agire a favore di forme di gioco monotone, stupide e dettate dal bieco consumismo dei mezzi di comunicazione di massa che denota in modo evidente un basso tasso di valorialità personale pressochè incentrato sull’estetica, per le ragazze, e sul principio di forza, per i ragazzi. La proposta di percorsi didattici di contenuto educativo valoriale veniva respinta in nome di emblemi e simulacri di personaggi ben più importanti da perseguire e da innalzare a idoli del momento, di uno spaccato di classe povero di idee, banale negli interessi dove un certo tipo di consumismo fondato su meccanismi mercificatori biechi fa presa per la futilità, la vacuità e l’inanità dei messaggi la cui fruizione non implica per niente un cospicuo investimento di energia intellettiva. Tale disinteresse per pratiche metodologiche, didattiche, di contenuto, di riflessione ed il rifiuto verso un impegno intellettivo, collegiale basato sul confronto, il dialogo e l’interscambio costruttivo di opinioni ingenerano sempre individualismo, opportunismo e disinteresse verso l’altro, in tutte le accezioni di alterità, implicanti differenze, divergenze e diversità, per cui il ragazzo non attribuisce, secondo un’ottica di ottimismo esistenziale, senso e significato al mondo, alla realtà nella relazione con l’”altro” e con tutti gli “altri”.
In queste situazioni i genitori non sanno intervenire, ma si arrogano il diritto di sapere, di potere, di essere in grado di risolvere la situazioni con interventi incoerenti, impertinenti e soprattutto incompetenti, creando ulteriore confusione e difficoltà.
L’avvenimento di crisi, di rottura, di separazione e volontà di presa di distanza dalla personale professione (disagio dell’educatore) si è manifestato con la completa e assoluta incapacità di gestire una classe estremamente vivace, ineducata e alquanto disagiata.
Non è stato solo un momento o un evento di sconforto e perdita di fiducia nelle personali competenze e capacità, ma una catena di avvenimenti che hanno messo in discussione le parti del ruolo di docente.
Non credevo più nel valore e nell’importanza della trasmissione del sapere alle giovani generazioni, in quanto la mia esperienza è stata messa in discussione da atteggiamenti sconfessanti, distruttivi, lesivi, egocentrici e catalizzatori verso determinati atteggiamenti favorevoli nei confronti di elementi leader interni al gruppo classe.
La catena di eventi si è evoluta in senso negativo e nella mia decisione di scegliere un’altra scuola.
Le questioni chiave che si presentavano consistevano nella scarsa accettazione della sottoscritta e scaturivano dal confronto con l’insegnante precedente e la completa assenza del supporto dei colleghi, del consiglio di classe stesso e del dirigente scolastico.
Il presente dell’azione si riproponeva e si ripresentificava sempre più alienante e terrificante ogni mattina, ingenerando in me sfiducia, smarrimento, perdita di coscienza del ruolo e abbandono della fiducia nelle personali capacità, il tutto trasposto in un “presente critico” che mi sfidava quotidianamente.
Da questa esperienza traumatizzante rispetto alla fiducia della costruzione di una mia professionalità, ho appreso la necessità di pensare l’azione formativa nella sua posteriorità, ossia riqualificare il valore futuro dell’agire educativo, come sostiene Donald Schön nel saggio “Per una nuova epistemologia della pratica professionale”.
Disagio individuale
Francesco è un preadolescente carismatico all’interno del gruppo classe.
Il disagio del ragazzo presenta fattori di esistenzialità come la difficile ricerca di un’identità che trova nell’identificazione con i supereroi della lotta libera con conseguente immedesimazione ed emulazione della pratica violenta che si ritorce anche sui compagni stessi. La forza fisica diviene la compensazione ad un insuccesso scolastico sconfortante da cui deriva un’insoddisfacente immagine di sé. L’interiorità del ragazzo si proietta costantemente su figure vittoriose di supereroi e si confronta con una realtà veritiera e spesso conflittuale, opprimente e frustrante, come quella della scuola e dei pari. In una realtà di pattualità e negoziazione il supereroe presenta un senso di mancata realizzazione e una sensazione di inadeguatezza perché la forza e la violenza non hanno campo dove prevalgono il dialogo, il confronto, la ragione della condivisione. Sussistono probabili origini nella sfera famigliare e affettiva, in quanto il padre del ragazzo ha dichiarato di aver vissuto un’infanzia molto difficile, travagliata e contaminata di espedienti per sopravvivere. Entrambe le situazioni (padre e figlio) manifestano un difficile percorso di conquista di autonomia e di paura di crescere, rifugiandosi in un infantilismo aggressivo e superomistico e immedesimandosi nel boss o nel supereroe di turno propugnati dalla televisione. Si avverte un eccesso di delega o procrastinazione delle scelte importanti, come il cambiare i propri atteggiamenti al fine di conseguire un auspicabile successo scolastico, che sancirebbe il passaggio, la transizione più o meno metaforica ad una condizione di maturità tanto agognata, in seguito ad un’adolescenza vissuta in modalità davvero problematiche, che hanno comportato disagi a genitori, insegnanti e al ragazzo stesso che intimamente matura un sensazione di inferiorità dettata dai continui e ripetuti insuccessi scolastici. Francesco esercita poteri di comunicazione, di controllo, di influenza non positivi e poco costruttivi, incentrati a volte all’azione violenta che dissemina incomprensioni, angherie e soprusi all’interno delle dinamiche interrelazionali.
Il ragazzo presenta comunque a tratti stimoli all’apprendimento e alle procedure didattiche con volontà ed impegno a livello cognitivo dimostrando acume intellettivo.
Francesco quest’anno intraprenderà un percorso di laboratorio autobiografico focalizzato sulla narrazione di sé e della propria storia di vita e di formazione, al fine di tentare un recupero del suo vissuto di disagio ingenerato ed accresciuto da un provvedimento di bocciatura che ha costituito un incidente critico, traumatico e insanabile nella vita scolastica e comportamentale di Francesco.
Ma quando un insegnante in erba è motivato da tutte le buone intenzioni del caso, magari con uno stuolo di genitori che gli imperversa contro, sobillando le ire funeste del Dirigente Scolastico e anche di qualche collega del Consiglio di classe, allora, a questo punto qual è la soluzione a tutto questo teatrino di parti e controparti che non vedono niente di idealistico se non la possibilità che il figlio divenga un esimio ingegnere?…
Sembra che con i decreti delegati degli anni ’80 l’associazionismo dei genitori sia entrato in modo brusco, impellente, sovversivo, ma troppo spesso incompetente nel “sistema scuola”,creando confusione e inusitate pretese nell’operato didattico e quindi professionale del docente. Penso che ad ogni insegnante, anche precario debba essere accreditato il giusto peso ed una certa fiducia. Di conseguenza dove sta scritto che ci devono giudicare i genitori? Ci hanno già formato e valutato la Scuola in primis, le università, tutto il settore post laurea, e infine un Ministero e un Provveditorato, insomma una lunghissima trafila di enti specializzati e di accreditato prestigio. Trovo che proprio il “sistema scuola” o comunque la concezione più consueta e tradizionale del fare scuola e dell’educare si basi su principi restrittivi, coercitivi, per “tenere a bada” i ragazzi. Di conseguenza il Professore e l’Insegnante precario soprattutto vengono giudicati troppo spesso non in base ai loro titoli di studio, ai meriti accademici, alle pubblicazioni scientifiche, al prestigio culturale e sociale che ottengono anche dall’impegno culturale, ma ci si limita banalmente a recriminare sull’operato di un Docente in relazione a quanto tempo riesce a far stare in silenzio assoluto i ragazzi in classe, ammutolendoli e spaventandoli, in un autentico contesto dittatoriale. Non vi pare una situazione squallida e deprimente, considerando il fatto che tutte le parti in causa, dai colleghi, ai bidelli, dalla presidenza, ai ragazzi stessi si omologano subdolamente a questo modello repressivo e alquanto stupido e banale?
La Scuola può e deve offrire molto di più…
La Scuola di Tutti e per Tutti.
La relazione socio-affettiva come stimolo ad una pedagogia alternativa alla cultura dominante.
La tematica del rapporto e della relazione influenza in modo specifico l’approccio pedagogico ed educativo perché conduce ad interventi didattici e disciplinari, ma soprattutto relazionali e comportamentali che conducano alla maturazione di concezioni e di modi di essere, di fare e di pensare alternativi a determinati stili tradizionali imposti dalla cultura dominante. Infatti l’educazione alla Pace si basa su modelli e modalità relazionali basati sulla fiducia e non sul potere, sul dialogo, sul confronto e l’interscambio di opinioni, aprendo un percorso innovativo a livello di rapporti, di metodi e di contenuti, valorizzando un’impostazione complessiva di codeste tematiche all’interno dei curricoli e dei processi formativi. La psicologia dell’età evolutiva presenta inevitabilmente riflessioni riguardanti i rapporti affettivi e relazionali che ci caratterizzano dalla prima infanzia, basati su dinamiche relazionali e comportamentali come la capacità di comunicare, la conoscenza di sé e degli altri, la capacità di cooperare, la fiducia in sé e negli altri e la propensione alla risoluzione delle dinamiche conflittuali.
L’importanza delle componenti sociali, affettive ed emotive nei processi di crescita.
Secondo un’analisi pedagogica occorre tenere presente l’importanza delle componenti socio-affettive nei processi evolutivi di crescita e di apprendimento. La natura esperienziale dell’apprendimento è implicita in ogni intervento educativo che si avvale della sfera emotiva, affettiva ed interiore senza cui l’apprendimento e la conoscenza si atrofizzano diventando esclusivamente funzioni cognitive. La capacità apprenditiva viene stimolata e potenziata attraverso attività ludiche, pratiche, occasioni di incontro relazionale, l’esercizio delle varie facoltà espressive che non devono essere considerate come ambiti voluttuari e di svago evasivo compensativo, ma costituiscono la componente nodale dei processi di evoluzione cognitiva in diversi stadi dell’esistenza. Le attività finalizzate all’educazione alla pace vogliono promuovere gli obiettivi sociali, relazionali ed affettivi in coincidenza con l’azione formativa anche di carattere culturale. Gli aspetti socio-affettivi comportano precise interferenze nei processi d’apprendimento e di cognizione, infatti un ragazzo scarsamente inserito nel contesto umano e relazionale del gruppo classe sarà coinvolto e si impegnerà con minore attenzione e partecipazione rispetto agli altri.
La metodologia didattica della Pace
L’educazione alla Pace prevede obiettivi in successione logica, ossia prima della capacità di comunicare è necessario incrementare la fiducia reciproca e la conoscenza interpersonale. E’ molto importante il clima in cui si realizzano gli interventi operativi di educazione alla Pace, dunque proporre a livello metodologico e didattico la scrittura collettiva, i brainstorming, i circoli di condivisione, il dialogo controllato, incentivando la conoscenza di sé e degli altri, la capacità di risolvere i conflitti, acquistando il senso di un’opportunità offerta a coloro che vogliono fare dell’educazione un’attività promozionale e non di esclusivo contenimento e che credono che anche l’insegnante e l’educatore, in generale, abbia molto da imparare con gli allievi e con quanti interagiscono nel setting educativo. Risulta molto importante il clima emotivo e relazionale entro cui si realizzano interventi operativi miranti alla didattica della Pace. In un clima di scarsa fiducia e di poca collaborazione reciproca non avrebbe senso proporre un gioco che miri a realizzare un contesto di cooperazione. Tali proposte, se integrate all’interno della comune attività didattica, acquistano una forza tutta particolare. Si tratta di costruire le sequenze, gli itinerari didattici utilizzando tali tecniche, come, per esempio, preparare una lezione collettiva, stendere un regolamento di classe, intervenire collettivamente nella programmazione scolastica, affrontare problemi d’attualità, impostare una ricerca interdisciplinare. Impostare un programma di educazione alla Pace comporta l’analisi delle condizioni che permettono un’impostazione non lesiva dell’aggressività e la verifica di esperienze e situazioni di potenziamento delle capacità di cooperazione e col
Quali sono i fattori che più influenzano la vita di classe
Il concetto di disagio e i suoi indicatori
Il disagio adolescenziale rappresenta ed interpreta un passaggio di transizione esistenziale verso un processo di autonomia ed un percorso di progressiva emancipazione dalle figure cardine della prima infanzia, non privo di arresti, di stasi, di drammatici regressi e rifiuti di crescita tramite trasgressioni, sconfessioni di norme e criteri precostituiti e confutazioni di punti di vista più o meno imposti ed impositivi. La percezione di inadeguatezza adolescenziale comporta la volontà di superamento dei modelli della fanciullezza, dei suoi affetti, delle sue norme, dei suoi tabù e divieti, ma anche degli agi, cercando, in opposizione, i continua apicali del rischio, della sfida contro qualsiasi tipo di ostacolo. Comunque rimane aperta la questione dell’indagine del disagio sia attraverso le dinamiche dell’attore, sia nelle modalità del sistema, sia nei fattori e negli indicatori dell’ambiente. Anche alla luce del tirocinio che sto conducendo di carattere “riabilitativo” rispetto a un disagio straordinario di cui si conoscono solo in parte le cause, sembra opportuno trattare di tematiche affini. Risulta interessante osservare come l'azione di incentivo alla stima di sé, anche tramite la modalità del conseguimento di risultati positivi a scuola, influenzi anche le dinamiche del gruppo classe (Palmonari) e come subentrino forme di compensazione all’insuccesso scolastico quali lo sport, l’altro sesso, la popolarità, l’aspetto esteriore, ossia incentivi e stimoli di riscatto per la perdita di stima nei confronti dell’ambito didattico, disciplinare e quindi della sfera cognitiva del pensiero, che riflette una forma nota di disagio ordinario. Molti ragazzi compensano le carenze più prettamente didattiche con altri tipi di intelligenza in una volontaria forma di riscatto tramite altre abilità, (ossia “Le intelligenze multiple” di cui tratta Gardner) pur consapevoli dell’esplicitazione palese di un disagio, anche se costruttivo, creativo ed emancipatorio, spesso vivendo un’inadeguatezza ed una labilità comportamentale che, se non risolta o integrata, può sfociare in manifestazioni tipiche di devianza. Quest’ultimo concetto in sociologia non è ancora apertamente trattato, perché può essere fuorviante.
La devianza rappresenta l’esito più drammatico del disagio e risulta sottesa a modelli integrazionisti, conflittualisti, e di interazionismo simbolico.
Il disagio e più marcatamente la devianza costituiscono l’esito non scontato dei processi di adattamento e socializzazione. Quando si formulano ipotesi di percorsi e progetti di integrazione si esamina la questione “disagio”, soprattutto nella relazione tra insegnante e allievo, dalla cui realtà si ricava un concetto empirico di disagio. In una definizione analitica si possono sottolineare alcuni concetti relativi al fenomeno disagio, quali, ad esempio, l’ambiente e le modalità di interazione tra più soggetti, le cui caratteristiche determinano il grado di “malessere, insofferenza e sofferenza nell’ambito esosistemico ed intrapsichico”, secondo un’accezione biopsicosociale, causati dall’appartenenza etnica, da quella religiosa, dalla localizzazione geografica, dall’età, dall’occupazione, dalla collocazione socioeconomica e dai vari retroterra culturali: questi sono gli indicatori base che determinano e definiscono il problema del disagio. Altri fattori determinati nel delinearsi situazioni di disagio consistono nel livello di salute, nel grado di istruzione, nella conoscenza della lingua d’acquisizione e nelle relazioni interpersonali, mentre le cause più diffuse di malessere identitario, vale a dire di inadeguatezza esistenziale e disagio sono costituiti da traumi, da iniziazioni, deprivazioni o privazioni e da perdite. Le conseguenze del disagio consistono in mancanza di affetti, in sofferenza, nel conflitto e nell’insoddisfazione.
Il modello di disagio che si può presentare come spia del malessere diffuso nella società è quello specifico scolastico, che si presenta con sintomatologie eclatanti e conclamate o può presentarsi in sordina privo di sintomi evidenti. Il malessere, l’inadeguatezza, la sofferenza manifestate dalle varie forme di disagio possono essere percepite e condivise sia dall’educatore che dai soggetti portatori di difficoltà esistenziali, spesso a livello cognitivo, comportamentale e psichico, per cui si può ascrivere il fenomeno sia nell’ambito patologico sia nell’alveo della tanto agognata normalità e ricercata maturità.
La riuscita e la dispersione scolastica
Alla luce del tirocinio che sto svolgendo con Francesco, sembra alquanto opportuno considerare i concetti di riuscita e dispersione scolastica, poiché il ragazzo in questione spesso manifesta palesemente perplessità circa il proprio ruolo di studente e dichiara apertamente di volere intraprendere un’attività lavorativa, di qualsiasi tipo, purchè lo tenga lontano dal mondo scolastico. L’educational attainment, ossia il conseguimento di un titolo educativo presenta un carattere “macro”, in quanto rappresenta una misura che descrive tutti coloro che hanno svolto un percorso didattico ed hanno conseguito un titolo, vale a dire il conseguimento educativo. Oltre questo parametro d’indagine sociologica subentra il concetto di successo formativo, ossia l’educational achivement che fornisce dati indicatori quali la difficoltà di monitoraggio della presenza di stranieri e i problemi nel considerare il livello d’età scolastico retrocesso a livelli inferiori, misurato in termini di voto e media scolastica.
L’osservazione dei dati relativi al conseguimento educativo ed al successo formativo permette di quantificare il livello di dispersione scolastica accentuata da vari fattori quali la bocciatura, gli esami di recupero (debiti), le passerelle e quindi l’accentuazione di un percorso formativo irregolare. La dispersione scolastica è un fattore proporzionale allo scarso rendimento scolastico. Il rendimento rappresenta il risultato della capacità di valutare lo studente, il ragazzo, in base alla quantità di risorse impegnate e in rapporto all’obiettivo preposto. Dunque il rendimento che influenza la dispersione scolastica in modo inversamente proporzionale, risulta influenzato da diversi fattori quali le risorse individuali (quoziente intellettivo), risorse caratteriali e la quantità di interessi e rapporti interrelazionali. Fattori importanti nel rendimento sono le risorse contestuali, come le risorse culturali, economiche, sociali ( per esempio la conoscenza e la frequentazione di persone adulte tramite gruppi organizzati in associazioni sportive o culturali e in attività ricreative e creative). Altre risorse menzionabili sono quelle didattiche, di genere ( in quanto l’appartenenza sessuale può pesare a livello di prestazioni e quindi di rendimento), l’età (non discriminante per la buona riuscita scolastica), lo status economico di provenienza e lo status socioculturale (la famiglia d’origine).
Quindi la riuscita scolastica consiste nella fase finale di una serie di fattori che interagiscono tra loro in modo molto coeso, quali lo status d’origine, i significati attribuiti alla frequenza scolastica, l’ambiente e il clima scolastico, le scelte personali, le aspettative per il futuro, l’immagine del proprio avvenire.
Dinamiche relazionali del gruppo classe
Le differenti tipologie di dinamiche di gruppo sono assimilabili ai più comuni modelli di socializzazione: funzionalista, conflittualista e interazionista-comunicativo. “In una visione interazionista dei rapporti sociali, che si fa risalire all’approccio della fenomenologia sociale di A. Schutz e dell’interazionismo simbolico, l’integrazione è soprattutto coordinamento comunicativo in vista dell’intesa. La società non è una struttura di funzionamento né è determinata da leggi storiche sulla base di interessi umani prevalenti, bensì è vista come il prodotto delle interazioni tra i suoi membri” (Cfr M. Colombo). Spesso si riscontrano difficoltà nella comprensione dei rapporti interrelazionali ed intrapersonali assunti dai componenti di una classe scolastica. Per questo motivo è interessante approfondire gli studi e le osservazioni relativi alle dinamiche di gruppo, indagate dallo psicologo Palmonari.
La definizione del concetto di gruppo implica la coesistenza di diversi fattori interagenti, quali le dinamiche relazionali, l’interesse per obiettivi comuni, l’identità, l’interazione. Secondo Merton, il gruppo consiste in un insieme di persone che interagiscono in modo strutturato da modelli e che sentono di appartenere al gruppo stesso, dal momento che sono considerati dagli altri come membri del gruppo.
Sussistono tre dimensioni, tre livelli e tipologie di appartenenza al gruppo, di carattere cognitivo (sapere che si è del gruppo), di tipo emotivo ( senso di identificazione e passione), livello valutativo (un gruppo circoscrive una unità, ma la colloca in un contesto). Tali dimensioni gruppali che appaiono strutturate, coese e solide costituiscono, in realtà, presupposti delle frequentazioni adolescenziali, che invece si manifestano con caratteristiche labili ed aleatorie, perché nel giovane vi è la necessità di cambiare continuamente gruppo per trasformare un’identità in evoluzione. La personalità modale è il carattere maggiormente condiviso dai membri del gruppo, tramite una funzione strumentale, ossia orientata al compito con modalità espressive e volta alla pratica di sé. Le dinamiche gruppali si presentano secondo modalità coesive, di integrazione e distruttive, disintegrative. Possono subentrare anche modalità evolutive, orientate ad un fine, ad uno scopo nobile e creativo, potenzialmente ingeneratrici di dinamiche di individuazione ed autonomia, per far scaturire il super-io del gruppo, vale a dire il concetto di “noità”, l’entità di gruppo. L’espressione gruppale si identifica attraverso diverse funzioni quali la comunicazione verbale o non verbale tra i membri del gruppo e tra gli stessi e l’esterno, la funzione di potere, il controllo e l’influenza, caratteristiche incarnate soprattutto nella leadership che possiede ed esercita le maggiori potenzialità di influenza, guidando il gruppo verso un’azione, uno scopo, una finalità potenzialmente positivi o negativi. All’interno del gruppo si delineano posizioni come la maggioranza che esercita il potere di persuasione, mentre la minoranza può aumentare il livello di scontro anche con il potere di veto. All’interno di una dinamica tra maggioranza e minoranza, se la minoranza si ritira ingenera ostruzionismo, mettendo in ostacolo l’azione. Il gruppo di pari come il gruppo classe presenta una relazione interna al nucleo e continuativa, fondata sulla condivisione di esperienze, di interessi e valori. I gruppi presentano tratti comuni, quali la provenienza sociale, la condizione scolastica, l’aspetto estetico, il linguaggio, le modalità interattive, lo stile comportamentale e le rappresentazioni sociali. Il gruppo classe si distingue per eterogeneità dal gruppo dei pari che è invece omogeneo. “L’esperienza scolastica si può considerare la base reale sulla quale si vengono a strutturare non solo le competenze dei giovani, ma anche gli atteggiamenti verso il futuro, le scelte lavorative, l’integrazione sociale in senso lato” (Cfr M. Colombo).
Nei gruppi di adolescenti sussistono funzioni fondamentali analizzate in particolar modo dagli studiosi Lutte e Coleman, quali lo status simbolico autonomo riconosciuto dal gruppo intero, come per esempio il gioco sessuale. Le discriminazioni sociali esercitano una funzione basilare come lo sviluppo della competenza sociale che stimola la capacità di capire in che modo giostrarsi rispetto alle valutazioni degli altri. Nei gruppi di pari sussistono discriminazioni come il razzismo etnocentrico, in quanto l’eterogeneità spesso spinge e facilita i processi discriminatori, tramite meccanismi gerarchizzanti nel gioco della distanza sociale, in cui le diversità fisiche sono più tollerate delle differenze culturali e sociali.
Il ruolo dello studente
Gli atteggiamenti e le modalità relazionali dello studente all’interno del contesto scolastico dipendono dal ruolo dell’insegnante. Il rapporto di insegnamento deve essere intriso di un clima di benessere, in quanto il ragazzo dovrebbe ideare e immaginare una versione ideale dell’insegnante (come per esempio l’idealizzazione della maestra da parte del bambino). Spesso nella relazione con il docente si avvertono anche involontarie differenze di trattamento, al contrario nei confronti del ragazzo occorre porsi in un atteggiamento coerente all’interno di un ruolo equilibrato, esercitando la cosiddetta giustizia distributiva per cui l’insegnante esercita un ruolo universalistico e pubblico (Palmonari; Piaget) per ottenere riscontri positivi caratterizzati da equilibrio nei confronti del ruolo dello studente, che così potrà dimostrare le autentiche qualità, probabilmente in parte già percepite dall’insegnante. Secondo un’ottica funzionalista, Parsons sosteneva il concetto di studentità, vale a dire la studentry in cui l’allievo doveva raggiungere uno status comportamentale con modalità adulte, dimostrandosi responsabile, capace, non dipendente dalle azioni altrui, allo stesso tempo imparando a competere in modo costruttivo, anche mettendosi in gioco sul controllo degli istinti e degli affetti, istanze considerate “lealtà primarie”, per approdare a “lealtà nuove” di fiducia e solidarietà. In vista di tali atteggiamenti e comportamenti maturi, lo studente potrà relazionarsi anche con i livelli gerarchici dell’entità scolastica, secondo una differenziazione funzionale, ossia un utilizzo di ruoli e modalità relazionali a seconda delle funzioni e dei ruoli gerarchici rispetto a cui si orienta e si imposta la propria evoluzione cognitiva ed affettiva. Lo studente, soprattutto se maturo, adotta diverse modalità nell’assunzione del ruolo di tipo razionale o irrazionale, personale o impersonale, orientato a sé o alla collettività, universalistico, ossia dedicato all’andamento generale del contesto esosistemico, anche in relazione ai rapporti gerarchici, o particolaristico, ossia orientato verso la riuscita personale, al proprio studio, quello necessario, senza esternazione e divulgazione dei contenuti e dei valori acquisiti. Il rendimento scolastico rappresenta un gradiente di osservazione rispetto al livello di adeguatezza, di inserimento, di disagio dello studente nei confronti dei rapporti con la classe e con il docente. Il rendimento scolastico rappresenta una modalità emancipatoria grazie a cui è possibile conquistare una dimensione universalistica, mediatrice, collaborativa con la gerarchia scolastica, per raggiungere un posizionamento gerarchico.
Questo argomento si presenta come importante per la comprensione del comportamento dello studente e del suo ruolo, ma ritengo maggiormente necessario considerare il soggetto studente nell’ambito di un gruppo classe, in un’ottica sistemico-relazionale e interazionista rispetto a determinate dinamiche, in un contesto di pari che sviluppa interrelazioni spesso problematiche. Penso sia più efficace studiare il soggetto in un contesto plurimo a carattere sistemico relazionale, piuttosto che individuarlo secondo una visione funzionalista, come una monade, ossia come un singolo, avulso dall’ambiente esosistemico ed interazionista.
Il colloquio tra insegnante e genitore
Il colloquio con il genitore avviene con la modalità per cui l’insegnante comunica al genitore che il figlio/allievo è portatore di una problematica. Il genitore avanza scuse, giustificazioni e a volte accuse, spesso, a ragion veduta, respinte dall’insegnante. Questi fattori fomentano nel genitore l’ansia di liberarsi dalla preoccupazione di essere un cattivo educatore, in un senso di colpa inflazionato dalle proiezioni verso l’insegnante. Da questo teatro di botta e risposta emerge il gioco di proiezioni tra messaggi inviati e giunti a destinazione, effettivamente pronunciati e posti in campo e automessaggi, vale a dire una serie di autoaccuse o autoconvincimenti, riflessioni introspettive e giustificazioni. I momenti più critici del rapporto con il genitore sono la cattiva valutazione e la segnalazione. La famiglia denuncia una scarsa attenzione da parte della scuola e un’assenza di risposte alle esigenze dei figli per le difficoltà di comunicazione e osservando discrepanza tra le finalità educative.
Ritengo questa parte di modulo molto interessante, ma penso che attualmente i genitori siano effettivamente troppo presenti ed intrusivi non solo nella vita dei figli, ma soprattutto nel mondo della scuola, intromettendosi soprattutto nelle questioni didattiche e a volte nelle modalità educative degli insegnanti, dimostrando una mancanza di obiettività nella valutazione del sistema scolastico e nel ruolo del docente, che spesso viene screditato e svalutato dal genitore stesso. Occorrerebbe passare da una scuola delle vacue e labili pretese ad una scuola che valorizzi le attitudini, le capacità, le particolarità, le diversità, delle differenti parti interagenti. Occorrerebbe una visione globale d’insieme che valorizzi l’ampia gamma di diversità ed entità divergenti e interagenti, che metta in luce e rivaluti le poliedriche sfaccettature dei molteplici punti di vista senza i quali non potrebbe avere luogo la comunicazione e non si potrebbe avvalorare una costruzione di senso e di significato creativi.
Quali caratteristiche deve possedere un insegnante per svolgere la sua missione.
L’incontro affettivo con l’allievo e lo sviluppo socializzante
Gli sviluppi relativi alla cooperazione e alla gestione dei conflitti, alla comunicazione e alla fiducia reciproca costituiscono le componenti imprescindibili di un rapporto educativo basato sulla nonviolenza che transita attraverso l’interazione tra insegnanti e allievi. Le relazioni interpersonali del gruppo classe dipendono dallo stile relazionale dell’insegnante con gli allievi. L’atteggiamento dell’insegnante incide notevolmente sulla modalità di definire il personale rapporto educativo con ogni singolo allievo e con il gruppo classe. Il contatto relazionale dell’insegnante è quell’aspetto della dimensione interattiva attraverso cui l’insegnante rivela, in forma di metacomunicazione, la personale modalità del rapporto reciproco. Il comportamento di contatto può essere differenziato nella dimensione emozionale e di controllo. In un’ottica fenomenologica, la dimensione emozionale riguarda l’incontro affettivo tra il docente e gli allievi, per cui ogni singolo allievo vive la tipologia di valutazione, di percezione e valorizzazione che l’insegnante attua nei suoi riguardi. L’incontro affettivo rappresenta un elemento imprescindibile al fine di un comportamento socializzante dell’allievo.
L’atteggiamento di incoraggiamento e di valorizzazione nei confronti dell’allievo
Gli studi di Ruppert e Witty testimoniano che gli allievi negli insegnanti apprezzano soprattutto le caratteristiche processuali positive della dimensione emozionale, come la cordialità e la gentilezza. La dimensione emozionale si manifesta, appunto fenomenologicamente, attraverso qualità emozionali come l’incontro affettivo degli insegnanti nei confronti degli allievi. La capacità di rapportarsi agli allievi considerandoli come persone degne di valore e rispetto è la precipua qualità processuale che prevede un’accettazione incondizionata e indipendente dalle caratteristiche fisiche e psichiche, dalla provenienza sociale e dalla tipologia di comportamento manifestata. Non è sempre facile realizzare l’accettazione incondizionata nei confronti dell’allievo, soprattutto quando è necessario controllare i personali sentimenti di simpatia e antipatia anche quando gli allievi si comportano negativamente. Quando gli allievi si sentono accettati e rispettati soprattutto in qualità di persone indipendentemente dal comportamento, dal rendimento e dalle qualità individuali e personali, imparano a non sviluppare vissuti di insicurezza, di incapacità ed inferiorità, a sentirsi incoraggiati ad accettarsi come si percepiscono nella realtà. Se gli allievi percepiscono di non essere compresi in quanto l’insegnante non si occupa dei loro sentimenti, delle emozioni e degli stati d’animo, delle loro idee e situazioni esistenziali, avvertono di non essere considerati, si sentono svalutati, comportandosi aggressivamente ed interagendo in modalità di difesa.
L’insegnante attualizza una qualità processuale comprensiva nel momento in cui acquisisce l’importanza di capire e percepire il mondo dei giovani sperimentato e valutato proprio da loro senza giudizi morali e valutazioni e confronti con norme, standard e tabù. Gli allievi interagiscono l’esperienza di una valutazione positiva da parte del docente attraverso la qualità processuale dell’incoraggiamento. Attraverso la modalità pedagogica della valorizzazione e dell’incoraggiamento, l’allievo si percepisce capace e rafforzato nel raggiungimento delle personali aspettative, ma soprattutto si sperimenta in qualità di persona considerata e rivalutata nell’affrontare le diverse problematiche esistenziali.
L’accettazione della propria persona da parte dell’allievo
Un’altra qualità processuale della dimensione emozionale è l’atteggiamento di bontà.
Secondo Bullnow, un educatore maturo si esprime attraverso il sentimento di bontà che trascende la relatività dell’esistenza umana. Nell’interrelazione scolastica, il significato di bontà investe la dimensione d’aiuto degli allievi quando dimostrano di avere bisogno di vicinanza sia a livello pratico e cognitivo, sia affettivo. Attraverso l’atteggiamento di bontà dell’insegnante, anche gli allievi che dimostrano difficoltà nell’attribuire credito e spessore alla vicinanza e all’aiuto del docente, si sentono facilitati a sperimentare l’accettazione della propria persona. Questi tratti della dimensione emotiva rappresentano delle unità descrittive provvisorie e non considerate in qualità di costrutti empiricamente convalidati nella specifica interazione tra allievi e insegnante, poiché rappresentano delle categorie fenomenologiche quali astrazioni sul comportamento educativo. Le dimensioni interattive sia emozionali che comportamentali costituiscono dei paradigmi fenomenologici che sono apertamente osservabili e decifrabili tramite le interazioni tra le parti, ossia tra gli attori che si muovono ed interagiscono nella realtà quotidiana in relazioni di causa ed effetto che rispondono a categorie identitarie suscettibili dei paradigmi fenomenologici a livello relazionale costituiti da dimensioni pulsionali, affettive e cognitivo-comportamentali.
Gli atteggiamenti educativi emozionali e di controllo comportamentale incidono sulle modalità di impostare la relazione educativa con gli allievi, dal momento che non sono delle dimensioni isolate, ma interconnesse ed interdipendenti con l’impostazione complessiva della personalità globale dell’insegnante. Le convinzioni socio-politiche, la visione del mondo e dell’uomo, gli atteggiamenti verso le persone in divenire, il modo di porsi rispetto al compito educativo e in rapporto a se stessi sono istanze comportamentali e modali che sono comprese nel sistema interdipendente della personalità. Mentre non esistono divergenze tra gli studiosi dell’interazione educativa sul fatto che gli atteggiamenti educativi sono strutture interdipendenti, non esiste invece unanimità nell’individuazione dei criteri su cui fondare tali atteggiamenti. Kessel, uno studioso marxista, afferma che solo gli insegnanti con un chiaro e fondato atteggiamento favorevole alla società socialista stabiliscono significative relazioni sociali. Secondo la Psicologia Individuale di matrice adleriana, il rapporto educativo deve essere fondato sull’interesse sociale.
Secondo la psicologia di orientamento cristiano, gli atteggiamenti educativi sono validi se fondati sulla carità e responsabilità, per altre correnti di pensiero sono validi se fondati sul senso democratico. Da questi esempi risulta che gli atteggiamenti educativi positivi sono considerati come possibili solo se radicati in specifici sistemi motivazionali di tipologia prosociale. La formazione o la modifica degli atteggiamenti educativi degli insegnanti non devono essere considerate attraverso dinamiche processuali orientate su principi pedagogici, ma devono comprendere l’intero paradigma sistematico di convinzioni ed atteggiamenti dettati dalla personalità. La modalità tramite cui l’insegnante definisce il suo rapporto relazionale con gli allievi, influisce sulle vicendevoli relazioni e modalità di approccio e di rapporto all’interno della classe. Nel momento in cui l’insegnante stabilisce un contatto in cui gli allievi si sentono accettati e stimati come persone e quando esercitano una funzione di guida in modalità sociale e integrativa, allora gli allievi non solo si sentono valorizzati, ma motivati a sentirsi come attori interagenti nel gruppo classe. A questo punto ci si chiede se è possibile educare alla pace e creare un clima scolastico in grado di dare sicurezza agli alunni e agli insegnanti e di sviluppare al massimo le risorse di ciascuno. Per coloro che hanno risposto negativamente, il rapporto educativo è una questione di potere, di controllo, di trasmissione efficace di contenuti da depositare nella memoria degli allievi. Per coloro che non sono stanchi di provare, di cercare rapporti di reciproco adattamento creativo e nonviolento, dentro una realtà strutturale che permane ancora ostile a queste mete, valgono gli obiettivi che sempre i migliori educatori hanno saputo conseguire, quali il mutuo insegnamento, la cooperazione, la fiducia e l'accettazione reciproca, il confronto aperto e alternative nonviolente nei conflitti nella comunicazione circolare e non unilaterale, con lo scambio continuo fra educazione e vita personale e sociale.
La valorizzazione personale nel gioco e nel lavoro di gruppo
Fin dalla scuola materna facilitare il gioco simbolico significa indirettamente agevolare la collaborazione e cooperazione nei contesti di gruppo. Occorre non interrompere la capacità del bambino di agire e interagire con una realtà inventata che è il duplicato della realtà quotidiana in cui è immerso. La capacità inventiva e di finzione si sviluppa ed evolve nella drammatizzazione, nel gioco di ruolo, nel teatro che costituiscono mezzi imprescindibili per lo sviluppo della creatività. La scuola, nel corso delle varie età evolutive, può utilizzare in un progetto di educazione alla pace il teatro e la drammatizzazione, al fine di mettere in scena i conflitti che insorgono nel gruppo classe, come anche tra le fasce e i livelli sociali e tra le nazioni. La simbolizzazione della rappresentazione teatrale e della drammatizzazione è facilitata dal decentramento dalla realtà in modalità sia verbali che ludiche, e costituisce la condizione per l’invenzione di strategie diverse maggiormente mediate e complesse rispetto a modalità aggressive adottate nella risoluzione delle situazioni sociali critiche. Ma la ricerca di soluzioni e alternative diverse non risulta attuabile se l’adulto interviene sempre dogmaticamente nell’imporre le proprie idee risolutive e strategie chiarificatrici. I bambini presentano generalmente una maggiore carica di aggressività dimostrando una inferiore capacità orientata al comportamento collaborativo, laddove l’adulto interviene in modalità sistematica ed incisiva nel dirimere sempre le contese infantili, imponendo definitivamente la propria soluzione al conflitto. Se l’obiettivo che l’adulto si propone è quello che i bambini giungano ad acquisire la capacità di reinventare e rielaborare la realtà, occorre facilitare questa operazione, tramite i mezzi e gli strumenti della simbolizzazione ludica e verbale. La valorizzazione del gioco e del lavoro di gruppo, quale momento di confronto, obbliga il bambino a rispettare i pareri altrui e a tenere conto delle opinioni di tutti, negoziando con gli altri soluzioni alternative. Il gruppo stimola e sollecita il bambino a confrontarsi ed incontrarsi con le opinioni ed i pareri altrui, facilitando un decentramento dal sé e dalle proprie posizioni, aprendo il pensiero al dialogo, alla comunicazione nella condivisione e comprensione degli altri. Questo ruolo positivo e altamente propositivo esercitato dal contesto di gruppo non si esplica automaticamente, per il semplice fatto che i bambini stanno insieme, ma solo se sono state soddisfatte in precedenza le condizioni quali la sicurezza, il confronto, la decentrazione cognitiva dalle proprie opinioni e se il bambino ha già raggiunto una buona capacità di simbolizzazione, senza cui nel gruppo subentrerà solo scontro, competizione e non progresso verso la collaborazione.
Che metodi utilizzare in classe per gestire le dinamiche ed i processi di insegnamento-apprendimento.
Nella didattica, in primo piano, sussiste la questione della conoscenza che si trasmette in ambito scolastico, prendendo inevitabilmente in esame relazioni tra i contenuti di conoscenza proposti e i processi cognitivi dell’allievo implicati nell’apprendimento di specifici contenuti che possono provenire anche dalla propria interiorità, con la narrazione di sé nel racconto autobiografico.
Lo sviluppo delle competenze interrelazionali
Di recente la Psicologia Evolutiva ha dedicato notevole attenzione allo sviluppo delle competenze sociali infantili. Durante gli anni ’40 del 1900, Piaget indaga le strutture formali della mente, ossia gli stadi di sviluppo che determinano le modalità con cui il soggetto procede in ogni campo del conoscere, che sono indipendenti dal contenuto in cui operano. Piaget privilegia la descrizione strutturalistica della mente, lasciando da parte i processi cognitivi. Secondo il modello teorico piagetiano si considera l’attività cognitiva come indipendente dal campo di applicazione, ossia dal contenuto su cui operano le modalità. Durante gli anni’60 del 1900, la Scienza Cognitiva indaga la problematica del rapporto tra processi e contenuti. Partendo dallo studio della percezione, della memoria, del linguaggio, dell’apprendimento, la Psicologia Cognitiva riporta al centro della discussione lo studio delle attività mentali, dalle cui regole vengono determinati i comportamenti. Queste ipotesi portano ad individuare un’analogia tra i meccanismi mentali di elaborazione dei dati sensoriali e le strutture artificiali proprie della cibernetica. Herbart, filosofo e pedagogista, fu precursore della scienza psicologica elaborando un sistema filosofico in cui cercò di superare la contraddizione insita nel carattere fenomenico dell’esperienza come descritta da Kant, sostenendo l’esistenza di entità semplici ed immutabili le cui molteplici relazioni sono alla base della formazione degli oggetti così come vengono percepiti dall’uomo. Compito della filosofia è quello di elaborare i dati forniti dall’esperienza al fine di estrapolare tali entità e produrre dei concetti, che soli costituiscono la vera conoscenza. Su tale sistema Herbart basò la sua pedagogia, il cui scopo principale è quello di trasmettere all’allievo un bagaglio culturale quanto più ampio possibile che ne sviluppi pienamente tutti i molteplici interessi, in modo da creare in lui una solida moralità, che consiste per Herbart, nella capacità di giudicare e di comportarsi secondo i cinque principi della libertà interiore, della perfezione, della benevolenza, del diritto e dell’equità.
L’esperienza scolastica
Per l’adolescente l’ambito scolastico è certamente la più significativa delle esperienze. La scuola diventa il luogo nel quale il giovane entra in pieno contatto con il mondo adulto e la sua cultura, che misura le competenze. La scuola non deve comunque ridursi esclusivamente ad uno strumento di misura, ma deve soprattutto accompagnare l’adolescente nella crescita, che si riflette nel rispecchiamento rispetto agli adulti, anche come insegnanti e docenti. Risultano necessarie delle buone prassi di apprendimento e di comportamento indispensabili al fine di indirizzare dinamiche etiche e propositi cognitivi razionali, suscitando spinte emotive di apprendimento e di assimilazione, non solo volte alle attività didattiche, ma per un comportamento sociale coerente e corretto nell’interagire civile che, appunto, si rispecchia e si identifica con il ruolo docente. Il problema sussiste nel dilagare sempre più esteso del disagio, nelle pratiche sociali più usuali e comuni e nei rapporti interpersonali, tra pari, ossia tra coetanei, sia giovani che adulti. Oltre che gli adolescenti, il disagio coglie anche gli insegnanti più sensibili che avvertono la difficoltà nell’affrontare una complessità diramata, enfatizzata, millantata quale il mondo della scuola, che propugna valori che costituiscono l’esatta controparte rispetto al cosiddetto pensiero unico e vincente della società attuale. Per questi motivi risulta difficoltoso il dialogo intergenerazionale tra studenti ed insegnanti. Così appunto la didattica può costituire un’attiva risorsa contro il disagio giovanile, uno strumento d’ausilio nei confronti del sapere disciplinare e multidisciplinare e che quindi non risulti fine a se stesso.
La relazione con il gruppo classe
Un problema che si pone la didattica è se il gruppo di lavoro si forma spontaneamente o in consiglio di classe i vari docenti devono intervenire affinchè nella classe un gruppo di ragazzi riescano a trovare le mediazioni per dare vita a innovative relazioni. E’ necessario realisticamente con opportune procedure sostenere il lavoro affettivo, relazionale e simbolico per facilitare la formazione del gruppo di lavoro. Se si riuscisse a utilizzare la mente del gruppo e i suoi valori come una risorsa per il perseguimento di obiettivi didattici, ci sarebbe tanto vantaggio, ma se ciò non avviene il gruppo classe diviene sabotatore dei riti, dei miti e delle procedure del lavoro didattico. E’ opportuno che il gruppo classe abbia un sentimento di identità valorosa e che i confini del gruppo siano segnati con precisione in una rete di relazioni funzionali della classe vissuta come un’esperienza che regala un’insieme di valori al sé e al ruolo e al sentimento di appartenenza. Sono necessari meccanismi di emulazione, di imitazione, di identificazione che i docenti devono trovare le modalità di innescare, creando interrelazioni non conflittuali, ma produttive e creative, favorevoli e accoglienti anche rispetto agli obiettivi didattici, all’origine della nascita della mente e della storia affettiva del gruppo. I ragazzi hanno motivi specifici per dare vita a un’entità di gruppo che si costituisca come ammortizzatore tra il singolo studente e l’istituzione. Il gruppo classe deve riuscire a dar vita al processo di socializzazione in un ecosistema relazionale che garantisca il benessere a scuola provocando la tranquillità di appartenenza all’istituzione, perché la classe fa da coro alle esperienze e all’epopea della vita di studente, garantendo benessere a scuola e che il processo di socializzazione si costituisca come un sistema, un processo affettivo, un nutrimento affettivo. La costituzione di un gruppo coeso di ragazzi prevede anche dei rischi perché il ruolo del gruppo e quello di definire ruoli e mansioni, ma il gruppo è anche una risorsa, una mediazione culturale che consente di ritualizzare i rapporti tra maschile e femminile e amministrare la giustizia dei pari che condividono la medesima esperienza. Dunque il gruppo classe si trasforma in un'occasione di lavoro in cui si sostiene e si utilizza la fame adolescenziale di socializzazione orizzontale.
L’educazione alla pace all’interno delle dinamiche sociocomunitarie per prevenire i conflitti a livello internazionale.
Nella psicologia dello sviluppo si indagano l’origine e l’evoluzione di comportamenti quali l’aggressività, la competitività, la prevaricazione, la violenza e gli atteggiamenti opposti a questi ultimi, quali la solidarietà, la cooperazione e l’altruismo. La didattica recentemente si sta occupando anche di educazione alla pace, di gestione del conflitto e diseducazione alla guerra. Nella nostra cultura è profondamente radicato il convincimento secondo cui le guerre internazionali, i conflitti di predominio etnico ed economico, siano avvenimenti addirittura necessari ed inevitabili come, in parallelo, le contese e le diatribe tra gruppi e tra singoli. Gli studi sociologici e psicologici più recenti indagano i comportamenti significativi relativi al tema della conflittualità, dimostrando che sussiste continuità tra comportamenti macrosociali e microsociali. Questo dimostra che è impossibile educare alla pace e alla gestione dei conflitti esclusivamente predicando la pace o proponendo un ideale nonviolento e pacifista rispetto alle relazioni belliche internazionali, ma occorre intervenire nei comportamenti e nei rapporti sociocomunitari che anche il ragazzo vive e sperimenta nel suo quotidiano. Se non si considerano il conflitto interpersonale, la guerra tra civiltà, la belligeranza tra potenze nazionali, quali fenomeni connaturati con l’esperienza umana sussistono anche convinzioni circa il ruolo dell’utilità di un’azione a favore della pace, per impegnarsi in senso non violento. Ma l’educazione alla pace, innanzitutto, transita attraverso la formazione di una personalità, di un’organizzazione psichico-cognitiva in evoluzione nella quale hanno la preminenza gli atteggiamenti positivi, di negoziazione, di cooperazione, rispetto all’antagonismo e alla prevaricazione. Gli atteggiamenti di conflitto e prevaricazione interindividuale si costruiscono in primo luogo nel microcosmo o microsistema nell’ambito della quotidianità del bambino e solo in seguito vengono proiettati, trasferiti e riversati nell’ambito delle relazioni tra i popoli. L’atteggiamento pacifico non si può esercitare a livello di istituzioni pubbliche, di relazioni internazionali, a livello mondiale se non ci si abitua a praticare nelle relazioni private e nei rapporti interpersonali comportamenti pacifici che trasmettano ideali di cooperazione, di altruismo, di solidarietà, di collaborazione.
La concezione di aggressività
Sussiste una concezione dell’idea di aggressività come potenzialità di adattamento, di creatività, di emancipazione ed evoluzione e non come istintualità di morte, di annientamento e distruzione. L’aggressività adattiva svolge fondamentalmente alcune funzionalità strumentali di tipologia complementare. Da una parte l’aggressività svolge il compito di una forza attiva per il proprio sviluppo e l’affermazione di sé, dall’altra è uno strumento per tutelare la propria identità. Dunque l’aggressività si delinea come una potenzialità positiva, necessaria al fine di consentire una modalità di superamento della dipendenza infantile, al fine di favorire l’affermazione della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione del sé, per tutelare la propria stabilità fisica e psichica. L’aggressività è uno strumento di difesa per tutelare la propria identità, per stabilizzare l’assetto della propria personalità da incursioni ed attacchi esterni, da critiche e censure interrelazionali. L’atteggiamento aggressivo si delinea come potenzialità positiva e si configura come strumento necessario alla stabilizzazione del sé, indispensabile al fine di consentire il superamento dello stato di attaccamento e di dipendenza dalle figure dell’infanzia, con lo scopo di permettere l’affermazione della propria identità contro gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del sé. Riconoscere l’aggressività come istanza che presenta potenzialità positive non significa legittimare la distruttività e la violenza, perché aggressività e distruttività non si identificano. La distruttività costituisce una degenerazione dell’aggressività ingenerata dalle specifiche e caratteriali varianti biopsicosociali che determinano l’organizzazione psichica, cognitiva, affettiva, relazionale, apprenditiva e socializzante dell’individuo. Attualmente cercare di ridurre l’apporto distruttivo e degenerativo dell’aggressività, quindi distogliere l’uomo dall’autodistruzione della conflittualità, anche a livello mondiale che non prevede una fine, né un fine, né un ritorno alla pace, tutto questo non comporterebbe né l’annullamento, né la repressione dell’aggressività, intesa nel significato di espressione positiva per l’affermazione e la difesa di sé. Le più gravi forme di aggressività esplodono nella società, nella famiglia, nella scuola che soffocano l’esigenza dell’affermazione della persona umana. Solo la famiglia, la scuola e la società che consentono il maggior spazio di affermazione personale possono agire in modo pacifico. La psicologia sociale e la psicanalisi sono accomunate da un grande consenso circa la necessità di abolire stili educativi repressivi, in quanto forieri di violenze. La realizzazione di sé si incontra con la presenza e l’esigenza di interagire con l’alterità, di relazionare con gli altri da noi. In questo contesto relazionale si pone il problema di come permettere l’espansione identitaria di ogni soggetto, senza prevaricazione e sopruso. In termini psicologici occorre individuare i meccanismi che possono facilitare e agevolare condizioni di rispetto per la soggettività dell’altro e per il controllo della propria aggressività. L’uomo è l’animale sociale e come è in grado di essere aggressivo e distruttivo è anche capace di collaborazione, altruismo e cooperazione. Dunque è necessario individuare le situazioni che agevolano nel bambino l’emergere di stabili comportamenti collaborativi e cooperativi.