AMBITO DI RIGENERAZIONE E CONDIVISIONE COMUNITARIA. IL VALORE DEL TEMPO LIBERO COME NUOVO MOMENTO FESTIVO NELL’IMPEGNO E NELLA FRUIZIONE CULTURALE.
Un excursus storico e antropologico: la festa nella tradizione popolare.
La festa è un microcosmo variegato con un certo grado di complessità per le varianti culturali, antropologiche e tradizionali, in essa comprese. Risulta un momento della vita sociale di durata variabile, che interrompe la sequenza delle normali attività quotidiane, opponendovisi come periodo di particolare effervescenza. La festa si caratterizza, rispetto al resto del tempo, per l’interruzione del lavoro produttivo, manifestando l’opposizione al sistema costituito e vigente attraverso i momenti dell’eccesso, della trasgressione e infrazione di norme e divieti precostituiti, dell’inversione, dello spreco, della distruzione.
L’assolutismo monarchico, il clero, il razionalismo utilitarista e razionalista si sono battuti insieme contro le feste, considerate attività e forme di associazione intrinsecamente sovversive, eversive, rivoluzionarie, portatrici di cambiamento, perché non motivate da esplicito ed utilitaristico rendiconto, ma rappresentanti un contesto ludico e ricreativo, ambito di rigenerazione per il popolo in un tempo libero da obblighi a fini materiali. Ma già Rousseau aveva denunciato il carattere contradditorio di una concezione che pretende di ridurre la coesione, l’associazione e il legame sociale, collettivo alla pura razionalità utilitaristica, perché impedendo le feste al popolo, si elimina la voglia di vivere, l’istinto creativo e vitale e perciò la motivazione stessa del lavoro. Soprattutto si distruggono le basi e i fondamenti della società, dal momento che gli individui sono respinti nell’isolamento, nella solitudine, eliminando le occasioni che promuovono socievolezza in ambiti di amicalità e interscambio affettivo.
“L’istituto festivo è la riaffermazione e al contempo negazione dell’ordine sociale esistente, in un mondo che riproduce il tempo della vita quotidiana per affermarlo, negarlo e, infine, migliorarlo; è un hortus conclusus, uno spazio/tempo, luogo dell’anima, un ambiente magico dove si partecipa ad un lavoro di preparazione svolto collettivamente. Come sostiene il Bachtin , il momento celebrativo del rito ha rapporto con gli scopi superiori dell’esistenza umana ( la rinascita, il cambiamento, il rinnovamento, la rigenerazione). Il carnevale, festa popolare per antonomasia, consiste in un regno utopico dove il popolo penetra in un universo simbolico di libertà, uguaglianza e abbondanza, contrapposto ai rituali ufficiali della chiesa e dello stato feudale che non distraggono dall’ordinamento esistente, ma lo suffragano, consacrano e rafforzano nelle sue gerarchie, norme e tabù religiosi. Il carnevale, rito del rinnovamento racchiude in sé il principio comico, l’espressione ridanciana, lo scherzo, il riso del popolo (come nell’opera di Rabelais) nella totale liberazione dalla serietà gotica, per aprirsi a una nuova concezione libera e lucida tipicamente rinascimentale. Il carnevale come ogni festa popolare presenta diversi linguaggi espressivo-comunicativi schietti e genuini, appunto comico-carnevaleschi, compresi nel realismo grottesco, un sistema di immagini tipiche della cultura comica popolare, in cui l’elemento materiale e corporeo, positivo, universale, proprio dell’insieme del popolo si oppone al totale distacco dalle radici materiali del mondo, i cui simboli sono la fertilità, la rinascita, la crescita in abbondanza. Il “basso materiale e corporeo” è la terra, il grembo materno, la placenta primigenia, le nostre origini a cui tutti dobbiamo tornare e far riferimento per poi svincolarcene assumendo coscienza del sé, recuperando la memoria personale, la propria storia di vissuti, suffragando così la nostra indipendenza e adultità: questo è il compimento del festivo. Ogni esperienza è un parto che ci fa assumere responsabilità, trasformandoci da figli /allievi a tutori /generanti”.
Secondo Freud, in Totem e Tabù (1913), la “festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto”, essenzialmente una trasgressione legittimata delle regole, delle norme, dei tabù religiosi, mettendo in evidenza però, il carattere codificato, controllato e, in definitiva, repressivo dell’ apparente libertà festiva e quindi la funzionalità alla conservazione dell’equilibrio sociale di quegli “sfoghi” ed “eccessi” legittimati che Marcuse identificherà come “desublimazione repressiva”.
Tale aspetto repressivo risulta, probabilmente, più accentuato nel contesto attuale che in passato, in rapporto alla progressiva confusione tra festa e vacanza i cui sfoghi ed eccessi sono divenuti sempre più funzionali alla produttività, al consumismo esasperato e all’alienazione dell’uomo in identificazioni sostitutive, che apparentemente lo allontanano dai suoi reali problemi.
Roger Caillois considera la festa un intermezzo di confusione universale in cui l’ordine cosmico è soppresso (ricalcando le orme dell’Eliade del “Mito dell’eterno ritorno”). Con apparente paradosso ha cercato di individuare il corrispettivo moderno della festa nella guerra, come tempo dell’eccesso, della violenza, della distruzione, dello spreco, della sospensione e trasgressione di ogni norma corrente del vivere civile. In Caillois si avverte l’insegnamento degli antropologi francesi Durkheim e Mauss, secondo cui il fenomeno festivo è un’occasione per il gruppo di riscoprire le proprie origini, in un recupero periodico della propria storia, dove la comunità rifonda se stessa e trova la propria ragion d’essere.
Secondo Antonino Buttitta “ così come ogni anno, all’approssimarsi dell’inverno la natura muore, anche il tempo può morire. Tutto ciò però non accade al di fuori della volontà degli dei e degli uomini. Se essi lo vogliono la natura rinasce, il tempo consumato si rigenera e ricostruisce…”. Il festivo è considerato come una generazione periodica del tempo, mediante la ripetizione simbolica della cosmogonia, dell’atto della creazione. Con il ricordo dell’evento mitico (cosmogonia) e la ripetizione di esso, il rito rivive e recupera l’evento rifondatore, separandolo in “illo tempore”, in un passato fuori dal tempo. Infatti, secondo Cardini, l’uomo “prelogico” non teme il tempo ciclico della ripetizione, del ritorno a sé stessi, alla propria storia, in senso rigenerativo, ma il tempo lineare che prevede una fine, un annullamento nichilistico. Per Eliade, la ripetizione, l’ ”Eterno ritorno” è concepito come recupero di modelli, archetipi, azioni esemplari fondati da eroi o santi civilizzatori, in una valorizzazione metafisica dell’esistenza umana perché connessa a radici trascendenti. L’opposizione tra tempo festivo e tempo normale partecipa della dialettica sacro-profano, per cui la festa risulta periodo di elezione finalizzata alla celebrazione di riti sacri. Accentuando, appunto, la presenza rituale, con i corrispettivi modelli mitici (miti cosmogonici, miti dell’età dell’oro), Eliade interpreta l’istituto festivo come il momento apicale, il continua esistenziale in cui la comunità rivive il caos, stadio di indifferenziazione originaria e “ricrea” il cosmo, l’ordine, e anche studiandola e interpretandola, irrazionalisticamente, come spia di un preteso desiderio, attribuito al cosiddetto “uomo arcaico”, di negare il tempo profano per attingere il tempo sacro delle origini.
La vita arcaica è, dunque, immersa nella sacralità e (noi aggiungiamo) anche nella “ripetizione” ciclica del rituale, del mito cosmogonico, caratterizzante l’ontologia dell’uomo “prelogico”, (o meglio “arcaico”), con la funzione di segregare, isolare la temporalità dell’evento esemplare festivo, mitico e separarlo dalla realtà quotidiana, dal trascorrere lineare del tempo. Dunque per Eliade il sacro si esprime in forme tutte legittime presso i più svariati popoli, per cui risultano illogiche le lotte confessionali e i particolarismi. In una prospettiva filosofica fenomenologica, Eliade come Kerenyi astraggono l’istituto festivo dal contesto storico globale, inserendolo in una prospettiva a-storica, in cui il tempo sacro, contrapposto al tempo profano ordinario, è concepito quale occasione di suprema liberazione e catarsi dai limiti della condizione esistenziale per raggiungere l’assoluto. L’antropologia storicista, invece, considera la festa in stretto rapporto funzionale con l’aspetto profano dell’esistenza perché conclude e riapre il ciclo normale del tempo e del lavoro, concentrando il sacro nell’ambito del rituale, permettendo, nel restante tempo, di essere liberi per l’attività profana.
La cultura magico-religiosa e realistico concreta del mondo contadino lombardo: riti apotropaici e propiziatori
La vita della gente contadina, dei nostri progenitori, che si svolgeva nei cortili, classica tipologia edilizia rurale in Lombardia, era scandita da cicli stagionali. Nella storia di ogni tempo l'uomo ha sempre lottato contro le forze naturali, temibili per la loro violenza, fino a quando il progresso e le rivoluzioni in¬dustriali e tecnologiche, lo hanno po¬sto in una posizione di preminenza è di sopraffazione nei confronti dell'am¬biente. Il rapporto della civiltà rurale con la natura si rivelava incentrato su sentimenti di rispetto, amore, ma so¬prattutto timore.
La vita agricola, le ciclicità stagio¬nali, che regolavano l'esistenza conta¬dina, scandendo i periodi delle semi¬ne, delle trebbiature, delle vendemmie, dell'uccisione di certi animali a seconda del periodo dell'anno, in rit¬micità temporali, permettevano al po¬polo contadino di sentirsi parte inte¬grante di una comunità, determinata da uno specifico senso di appartenenza alla stessa, le cui ritualità, caratteriz¬zate da una cultura magico-religiosa e realistico-concreta, permettevano a tutti di riconoscersi in un'identità ben precisa. Infatti la visione del mondo da parte dei contadini era caratterizzata da una fortissima unità attraverso un'identità che garantiva una maggio¬re sicurezza collettiva. Nonostante il duro lavoro nei campi, le epidemie, le cattive annate, le condizioni atmosfe¬riche sfavorevoli e la povertà che ren¬devano difficile la loro già precaria esi¬stenza, questa gente credeva nella “Provvidenza” un valore tradizional¬mente custodito nel bagaglio culturale popolare. La speranza che scaturiva dai loro motti di augurio più usuali, come “Abbi fede”, “Spera nella Prov¬videnza” dimostra il loro modo di af¬frontare le avversità. Le parole e i gesti di propiziazione o di imprecazione hanno, a livello psicologico, un'effica¬cia magico-apotropaica, cioè la facoltà, secondo le credenze, di allontanare il negativo, di assicurare il benessere dei singoli e dell'intera comunità. Nel mondo contadino i riti praticati erano tramandati per secoli, di generazione in generazione, e riunivano le famiglie dove si celebravano riti domestici, di cortile, di paese, in cui tutti si riconoscevano e per questo si sentivano uniti. La conoscenza pratica, la celebrazione degli stessi rituali festivi, rendeva i contadini consapevoli di costituire una comunità solidale, condivisa, perché portatrice di un’identica cultura.
Il rito sottolineava e attribuiva si¬gnificato ai vari momenti, alle fasi quotidiane ed apicali dell'esisten¬za: il risveglio, la festa e il lavoro, la na¬scita e la morte, che scandivano il vive¬re comune. Ogni contadino, ogni corti¬le, ogni paese, celebrava riti magico-religiosi per scongiurare le avversità atmosferiche (riti apotropaici), per prevedere l'andamento dei raccolti al fine di propiziare un nuovo ciclo agri¬colo, preparandolo alla prosperità e cancellandone le negatività passate (riti propiziatori).
Da Natale a Carnevale si celebrava una grande festa per l'inizio di un nuo¬vo ciclo stagionale, per cui in famiglia e pubblicamente, si compivano cerimo¬nie rituali finalizzate a ripristinare un senso di fiducia della comunità per il futuro che si auspicava più prospero, rendendo la collettività solidale e com¬patta proprio nel periodo più difficile dell'anno, l'inverno, quando i campi brulli e il freddo intenso rendevano il raccolto una speranza di sopravviven¬za. Questa conoscenza di ritualità tra¬mandata di generazione in generazione contribuiva a costituire l'identità cul¬turale del popolo. L'uomo della società arcaica si sente solidale in rapporto ai ritmi cosmici. La storia sacra trasmes¬sa dai miti (santi e divinità) risulta in¬definitamente ripetibile. Il popolo ri¬tiene i modelli delle istituzioni civili, le norme della condotta umana, fonda¬menti del vivere, rivelati all'inizio dei tempi da un'origine sovrumana.
Il simbolo, il mito, il rituale, costi¬tuiscono un complesso sistema di af¬fermazione sulla realtà ultima delle co¬se: una vera metafisica. Un oggetto sa¬cro o un'azione ripetuta acquistano va¬lore, diventano concreti perché parte¬cipano di una realtà che li trascende. L'oggetto del rituale si trasforma in ri¬cettacolo di una forza esterna che lo differenzia dal resto dell'ambiente, at¬tribuendogli senso e valore. Il rituale consiste nel ricordo di un evento mitico e al contempo nella ripetizione dello stesso, basata su un modello divino, un paradigma archetipo, tramite rievoca¬zioni di gesti inaugurati da altri. Tutti gli atti religiosi sono fondati, nella sto¬ria dei tempi, da divinità, santi, eroi civilizzatori e antenati mitici. L'uomo ripete sempre, ritualizzandolo, l'atto della creazione. Basti pensare al calen¬dario religioso contadino che comme¬mora tutte le fasi cosmogoniche, cioè di creazione dell'universo tradotte nelle ritmicità agricole. Il mito cosmogonico della creazione assumendo uno scopo di restaurazione della pienezza inte¬grale dell'essere, diventa il modello es¬senziale per tutte le cerimonie che au¬spicano la guarigione, la fecondità, la nascita, i lavori dei campi, dove si ri¬pete l'azione divina del creatore.
Magia e religione, esperienze natu¬ralmente divergenti, contribuivano, nella cultura contadina, a mantenere un modello di comportamento solida¬le, di comunione e di aiuto reciproco, valori che le dure condizioni della vita agricola rendevano necessari per il so¬stentamento della stessa comunità. La magia è fede nel soprannaturale, basa¬ta sull'efficacia riparatrice dei riti compiuti dall'uomo, mentre la religio¬ne affida le sue preghiere a Dio, sem¬pre in grado di esaudirle, anche se a volte non venivano ascoltate. Per que¬sto motivo si ricorreva ai santi visti co¬me intermediari tra l'uomo e la divini¬tà.
La mitologia allora nacque non tanto dall'esigenza di chiarire l'eccezionale, quanto dalla volontà di afferrare la lezione dell'ordinario.
I valori di cui si fa portatrice la cultura contadina sono tuttora validi e la conoscenza della storia passata ci permette di attingerne insegnamenti costruttivi, senza ripeterne le condizioni di oppressione o di chiusura nei confronti di tutto ciò che rappresenta novità e progresso positivo o esula dal ristretto ambito della civiltà rurale. Oggi nasce l’esigenza di nuovi nuclei di appartenenza, ambiti di interazione costruttiva, luoghi dove sperimentarsi e conoscersi nel rispettoso confronto con l’altrui diversità, dove si possono ricreare gli stessi sostanziali valori che animavano la tradizione popolare nei cortili, dove ciascuno riscopriva se stesso nell’altro e per questo lo amava così come era. Contro i miti del primato dell’economico e dell’individualismo, contro i tentativi di omologazione internazionale, si vanno oggi riscoprendo i valori dell’identità personale, culturale, sociale, e quindi, i valori della comunità. Il bisogno di radicamento è sotteso all’attuale insorgenza del fenomeno dell’associazionismo, del volontariato, dell’etnicità. Nell’associazionismo e nel volontariato si riconoscono attività pratiche, materiali, capaci di ristabilire legami sociali e simbolici, di rigenerare un senso di comunità per ricolmare le fratture tra i comportamenti di produzione, consumo, ricomponendo, in questo modo, il senso unitario del vivere.
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La metafora educativa del ciclo della vita parallela al calendario festivo agricolo e liturgico: nascita, crescita, morte e resurrezione.
Il rito celebrato nei giorni di festa proietta la vicenda quotidiana del gruppo in una prospettiva a-storica, in “illo tempore” per reintegrare la comunità nella sua realtà economica, sociale e storica. La festa scandisce nelle popolazioni contadine le fasi del calendario agricolo che sono state inglobate dal cristianesimo nella liturgia, nella scansione liturgica dell’anno, insieme ai rituali arcaici precristiani, rigenerando, così, e dando nuovo significato al senso del sacro.
Il calendario liturgico agricolo racchiude la metafora pedagogico/educativa, con il recupero del senso ciclico di rinnovamento di ogni vita nella celebrazione dell’evento festivo.
Il solstizio d’inverno sancisce la nascita, il Natale, l’avvento del Cristo portatore di luce, di vita nuova, dopo il grigiore dell’inverno, della morte nel caos primigenio.
Il solstizio di primavera è la resurrezione, la rinascita, il cambiamento, la transizione “a vita nuova”, il trapasso ad una diversa esistenza, rigenerante e ricreata, con la stagione primaverile.
L’estate con le sue messi comporta la crescita di quanto si è seminato.
La verifica del seminato avviene in autunno con la vendemmia e la raccolta di frutti, periodo in cui nuovi semi cadranno nel terreno o verranno trasportati dal vento in altri “giardini” e colture e forse lì daranno vita a nuovi germogli di cui altre persone, magari sconosciute, trarranno giustamente profitto. Il seme rimarrà in incubazione tutto l’inverno per germogliare ciclicamente con il nuovo anno.
Come da metafora anche nell’educazione l’educatore trasmette seminando valori e significati, pur non sapendo che frutto darà il seme, se riuscirà a germogliare o morirà sopraffatto dalla gramigna o dalle intemperie.
L’aspetto sacro e profano del periodo di festa nella comunità contadina: spazio di condivisione di un’identità storica e sociale
Il rito comunitario è stato ormai sopraffatto dal declino del mondo contadino. La nuova realtà determinatasi dalla disgregazione a livello economico e culturale della struttura sociale contadina, vale a dire le trasformazioni indotte dal sistema capitalistico, quali
-l’emigrazione e la nascita di un proletariato conseguente agli insediamenti industriali
-la massificazione culturale,
insieme ad altri molteplici fattori concorrenti e correlati, hanno determinato nuovi contesti analizzabili come nuove realtà di classe. La terziarizzazione avvenuta a livello economico di vaste aree già contadine, la disoccupazione crescente nel sociale, soprattutto a livello giovanile, e lo smarrimento più complessivo di una specifica identità culturale, costituiscono fattori che hanno giocato un ruolo determinante nella degradazione del tessuto connettivo contadino e dunque hanno influenzato l’apparato delle feste che di esso era parte integrante.
Nell’ambito della cultura popolare contadina, senza dubbio, il sistema ecclesiastico ha esercitato un ruolo ideologicamente dominante, nella misura in cui la sua stessa struttura, decentrata e capillare, evidenziava, di fatto, in modo specifico e consapevole, tale ruolo egemonico dal punto di vista storico-politico ed ideologico, per cui è palesemente dimostrabile che l’ideologia religiosa costituisca la struttura portante delle feste popolari contadine.
La festività del carnevale, tipica del mondo popolare, rappresentava in passato, dal punto di vista fenomenologico, per l’aspetto profano, il senso di trasgressione e sovversione di norme, regole, tabù e divieti religiosi, imposti dall’apparato ecclesiastico patriarcale, dall’alto di gerarchie prevaricatrici della macchina organizzativa di uno stato feudale conservatore. Il desiderio rivoluzionario, eversivo di ruoli, costumi correnti, di tradizioni precostituite, si esplicava in un lasso di tempo compreso dall’Epifania al primo giorno di Quaresima, appunto il periodo del Carnevale, ambito e contesto festivo di trasgressione per antonomasia, in cui il popolo rivendicava la propria identità, attraverso un tipico sistema di immagini e linguaggi espressivo-comunicativi, comico-carnevaleschi, compresi nel realismo grottesco popolare, con il ritorno alle origini, al “basso materiale corporeo”, alla placenta primigenia, la madre terra fertile… e rifondava la sua ragion d’essere.
L’aspetto profano del tempo festivo, si accostava, parallelamente, secondo un’ermeneutica interpretativa di senso e significato, ad un’impostazione dell’esistenza e del quotidiano di tipo sacrale, riscontrabile in una suddivisione e scansione ciclica, circolare del tempo all’interno del rituale agricolo, scandito dal calendario liturgico tipico del popolo contadino.
Le trasformazioni del tempo festivo nel sistema capitalistico avanzato: la morte della festa popolare
“Il rituale sacro del momento festivo rappresenta un continuum esistenziale nell’avvicendarsi degli eventi apicali umani, consiste in un rito comunitario nel cui ambito si afferma la cultura della convivenza che si esplica in un tempo feriale, libero da obblighi, e in uno spazio/ambiente, a cui si attribuiscono, in senso antropologico, caratteristiche magiche e sacre, perché collegate alla sfera del collettivo e sublimate nell’attività creativa comunitaria.
Nella società occidentale attuale, il momento ri-creativo del riposo è assorbito dall’industria e il contesto festivo risulta mercificato dal consumismo, per cui il tempo libero ritorna al sistema, in termini di denaro, nell’ingranaggio della produzione industriale su larga scala.
I massmedia occupano il tempo libero costringendo all’individualismo l’ambito che prima era vissuto collettivamente, tramite la festa popolare, sublimazione istintiva delle capacità comunitarie. ‘La festa come tempo festivo è un modello gnoseologico che implica come condizione la collettività e l’autoaffermazione nell’esperienza festiva’ .
Il rituale sacro della festività, come anche il popolo che lo approntava e celebrava, sono ormai scomparsi dalla società contemporanea di stampo occidentale, assorbiti ed espropriati dal tempo quotidiano libero, partorito dal sistema produttivo capitalistico.
Risulta un tempo privato (non più collettivo e comunitario come quello festivo), individualistico, spesso occupato e manipolato dai massmedia”. Occorre comprendere quali siano, nella nostra cultura borghese e in una struttura economica tipicamente capitalistica, il significato, il valore, la funzione la struttura della festa e quali modalità assuma in essa il piano del festivo.
La prima indicazione è data quale termine di un’antinomia fra tempo festivo, di non lavoro, quindi improduttivo, sottratto allo sfruttamento, ma che l’ambito del capitale, il sistema vigente, recupera tramite l’organizzazione del tempo libero; in sostanza, un tempo festivo da dedicare appunto al consumo, in ultima analisi, illusoriamente libero, ma, in realtà, condizionato, organizzato perché precostituito e preconfezionato.
Tempo feriale e tempo festivo risultano così, nel sistema capitalistico avanzato, fortemente strutturati e interconnessi come parti integranti del meccanismo produttivo che separa e, di conseguenza, istituzionalizza e controlla il momento della produzione e del consumo.
Dunque per un evidente sillogismo, se il consumo è la forma alternativa al lavoro, e poiché il lavoro si contrappone al festivo, il consumismo rappresenterà, appunto, la sostanza stessa della festa. Nella cultura contadina l’ambito festivo non risultava distinto dal momento produttivo perché non era necessariamente separato dal lavoro. Il periodo della vendemmia, della mietitura, del raccolto erano indissociabilmente collegati a rituali, a momenti di festa, compresi nelle scadenze relative alle ciclicità stagionali del calendario agricolo e liturgico popolare. “In questi casi il lavoro si caratterizza come “festivo” non solo per i suoi aspetti di opera collettiva, indirizzata concretamente a cogliere i frutti di un’annata di fatiche: è festivo anche perché si ha socialmente da spartire, con tutta quanta la comunità, una parte della produzione”.
La festa popolare ha rappresentato, in passato, il risveglio della collettività comunitaria che vivendo, soffrendo e spartendo la quotidianità, produceva e creava la propria cultura, perché il popolo è totalmente ed essenzialmente cultura nella generalità del suo manifestarsi e nella totalità delle sue espressioni e sublimazioni artistiche, in sintesi culturali, perché collegate ad un esistere quotidiano comunitario.
Oggi la società sta tentando di riprodurre e ricomporre occasioni e ambiti di festività creatrice e ri-creatrice (perché la creazione, nascita, vita, morte, è alla base del momento sacrale di festa), tentando di produrre anticorpi contro il pressante sistema individualistico e capitalistico omologante.
Dal tempo sacro al tempo libero e profano: rifondazione del momento festivo comunitario.
In epoca preindustriale, risultava netta la scansione fra un tempo feriale, dedicato al lavoro famigliare, alle fatiche del quotidiano, legate ad incombenze agricole stagionali, ed un tempo festivo dedicato, invece, all’ambito del sacro, allo spirito comunitario della tradizione popolare contadina, appunto attraverso il culto della socialità comunitaria, nel recupero di un sentimento e senso intrinseco di appartenenza ad una comunità contadina, significati e valori, questi, vissuti e spesi nel quotidiano.
Attualmente nella società occidentale contemporanea, risulta assente la distinzione tra questi continua apicali: il tempo dedicato al festivo e l’ambito del feriale, sostituito dalla vacanza, con annessi risvolti consumistici, in prospettive edonistiche ed estetizzanti (vacanza, dal latino Vaco: essere vuoto).
Il popolo del festivo, carnevalesco che brulicava sulla pubblica piazza, nelle corti regali e nei cortili contadini (come nei dipinti di Bosch e negli scritti di Rabelais), in epoca medievale e rinascimentale o comunque prima dell’avvento dell’era industriale, in un contesto perennemente carnevalesco, come afferma il Bachtin , risulta ormai scomparso. Nella società odierna è assente una classe, un ceto sociale portato alla condivisione di valori e ideali comuni e comunitari, improntati sulle rivendicazioni della comunità contro un’espropriante ed omologante logica capitalistico/produttiva.
Nella festa sussiste un’organizzazione e scansione sociale del tempo contrapposto al tempo individualizzato odierno. Nell’attuale società occidentale orientata al consumo di passatempi e beni effimeri, privi di valori autentici, in una prospettiva evasivo-compensativa, ed edonistica, il tempo libero risulta a-finalizzato, privo di occasioni per la formazione integrale dell’uomo, in una deviazione cronica estetizzante ed individualistica.
Nel contesto occidentale attuale il tempo libero risulta autoamministrato, non speso in senso comunitario e collettivo, ma appartiene all’uomo come momento psicologico nei luoghi solitari, personali e remoti della psiche (solitudine, individualismo). Per questo motivo si verifica crisi nell’associazionismo e nel collettivo: la personale identità dovrebbe invece essere risocializzata e partecipata. E’ crisi dell’istituto festivo perché viene meno il popolo che lo celebrava, per l’assenza di una classe sociale portata alla condivisione di valori e ideali comuni e comunitari, improntati su rivendicazioni contro un’espropriante logica consumistica e capitalistico- produttiva.
Il popolo del festivo in occidente è stato travolto dalla rivoluzione industriale, dallo sviluppo tecnologico, dall’alienazione, dall’eclissi del sacro. Si avverte un fenomeno presente da tempo, ormai consolidato: la mancanza di comunità. Si manifesta con la scomparsa della famiglia estesa, la riduzione di momenti comunitari all’interno del nucleo familiare, la difficoltà, soprattutto nelle grandi città, di “vivere il quartiere” e di praticare scambi sociali in luoghi di ritrovo per il tempo libero o nello svolgimento di pratiche confessionali (oratorio, chiesa) o politiche (partito). Nel contesto sociale contemporaneo occidentale mancano luoghi “epifanici” di manifestazione di una presenza comunitaria e solidale, dove si celebrino riti collegati alla quotidianità, per attribuire senso e significato autentici all’esistenza nell’arco della giornata. Come sostiene Inghilleri , si avverte la necessità di un cambiamento profondo nella società, che recuperi l’alleanza tra individui e il buon funzionamento di gruppi e istituzioni, al fine di accompagnare lo sviluppo della persona e i suoi continua esistenziali.
La festa popolare: un’interpretazione pedagogica.
Oggi è avvertibile l’esigenza di un recupero del valore del popolo nel suo momento di festa, intesa come spazio/ambiente dell’anima, luogo di riflessione e confronto culturale e interculturale, tramite l’organizzazione associazionistica di volontariato culturale, dove le attività e i laboratori creativi per il recupero storico, ambientale del territorio favoriscano l’incontro, attraverso valori condivisibili, in iniziative per occupare collettivamente il tempo libero come tempo festivo e comunitario, contrapposto alla logica individualistica di un tempo privato e personale.
Ma l’associazionismo culturale può costituire un’alternativa alla scomparsa della festa solo se vissuto da ogni singolo con consapevolezza di appartenenza, senso di partecipazione e coerenza di intenti. Soprattutto risulta necessario il volontariato, la partecipazione gratuita, per una rigenerazione creativa nella riappropriazione di valori di cui il consumismo ci ha privato. Dunque il significato del dono, della gratuità nel lavoro di preparazione svolto collettivamente. La festa diventa il culmine celebrativo in tale momento della sua preparazione, nella sacralità della creazione, della cosmogonia (nascita, vita e morte dell’evento e di noi stessi in una nuova rigenerazione), in cui viene consumata per poi essere spartita e partecipata in senso comunitario. La festa costituisce l’apice del momento di maturità di un’attività, se vissuta e resa propria con valori, significati e simboli condivisi dalla collettività, dal “popolo del festivo”. Senza la consapevolezza di sé, della propria adultità e, al contempo, di appartenenza e senso di partecipazione gratuita, l’associazione culturale diventa una banale agenzia del tempo libero, che genera un inutile gregarismo privo di significati pedagogici. Nell’associazionismo culturale vissuto con tali presupposti si attua una rieducazione del collettivo, tramite il recupero della memoria storica personale, della storia di sé e del territorio in cui si vive, per una rieducazione alla cognizione della memoria collettiva, non intesa come cristallizzazione del tempo, del passato in un parametro comunemente attribuito al marxismo, di tipo storico-economico (l’analisi della storia), ma significa tenere conto dell’anima, della memoria dell’uomo, che è momento fondamentale dello spirito, al fine di recuperare e riattualizzare punti di riferimento di carattere storico, anche geomorfologico, in cui potersi individuare, identificare e riconoscere, sul territorio, “paesaggio della memoria”, dove opera l’attività associazionistica, vivendo un sentimento festivo comunitario nella riappropriazione ultima e originaria del rapporto con l’ambiente, la natura, in attività comunitarie attive sul fronte del volontariato culturale, dove si metta al primo posto la cultura finalizzata alla tutela dell’eco-sistema, del territorio e della relativa salvaguardia storico-culturale, ambientale e sociale, reinventando, tramite l’animazione sociale, il proprio contesto di vita, recuperando così una nuova identità in un rinnovato concetto di adultità, di età adulta, orientata verso la prospettiva attuale di una comune azione associativa attiva e militante, finalizzata alla riappropriazione di uno spazio di vita a misura d’uomo, dove i cittadini e le istituzioni si rieduchino reciprocamente all’ambiente, per migliorare la qualità dell’esistenza quotidiana, superandone i disagi impliciti, perché “giovani si diventa inventando un paese”. Nel contesto associazionistico, vissuto alla luce di questi valori, è riattualizzabile lo spirito festivo, perché, come sosteneva Gramsci, “cultura è anche organizzare la cultura”, di conseguenza “festa” è innanzitutto partecipare alla preparazione comunitaria della festa.
Volontariato culturale e animazione associazionistica: alternativa nel tempo libero per una nuova cultura di festa.
Attualmente risulta avvertibile nel tessuto sociale, nella gente, in questo terreno poco fertile, un ripensamento, una volontà, l’esigenza, magari insita e latente, di recuperare il valore del popolo, del momento festivo, per esempio tramite istituti e organizzazioni associazionistiche dove si svolgono attività e si approntano laboratori ricreativi di creazione e animazione culturale dell’esistenza umana, rivolti al recupero storico, ambientale e culturale del territorio, spaziando in iniziative artistiche e culturali, finalizzate ad occupare collettivamente il tempo libero e renderlo fruibile, proprio perché vissuto in comunione con gli altri, come tempo festivo e comunitario, non più individualistico e privato, ma avulso dagli alienanti ingranaggi di mercato che la società occidentale impone.
Con tale recupero del momento collettivo di condivisione comunitaria, attraverso l’associazionismo culturale, il popolo sta cercando di recuperare spazi e ambiti ricchi di senso , significato, riportando e riconsegnando al presente, attraverso una rieducazione del collettivo “al recupero della memoria”, i valori insiti nel mondo contadino, tramite la riscoperta della memoria storica e di un’identità culturale, a livello individuale, locale e globale (nazionale), ricercando valori liberatori, veri e autentici, da riapplicare nel contesto sociale attuale per ricrearci e riappropriarci di contenuti significativi nella vita quotidiana, anche tramite la ricerca/azione di animazione, attraverso il metodo biografico o autobiografico, retrospettivo, a livello individuale e collettivo.
Il volontariato associazionistico culturale nel tempo libero, fenomeno verificatosi nel tessuto collettivo intorno agli anni ’60, con la presa di coscienza da parte del popolo di partecipazione attiva alla vita politico/sociale, come garanzia di democrazia, può costituire un’alternativa presente, attuale, contemporanea, alla “morte della festa popolare”, intesa come luogo, spazio e tempo di rinascita, ricreazione comunitaria e cultura della convivenza nella collettività.
Ma l’associazionismo culturale può costituire un’alternativa alla scomparsa della festa, se vissuto, da ogni singolo individuo, in funzione di una consapevolezza, di un’appartenenza e partecipazione attiva in ambito locale, territoriale, nell’ambiente del quotidiano, nella sfera sociale e nel gruppo di attività. Perché praticare cultura nell’ambito di un territorio significa, essenzialmente, allacciare contatti e scambi interpersonali, anche tra associazioni, evitando controproducenti rivalità o arrivismi di etichetta, suscitare interesse nel confronto, attuando scambi proficui di idee, recuperare il passato storico collettivo, le origini dell’ambiente, tramite la ricerca e l’introspezione individuale, la conoscenza e il racconto di sé e della propria storia, agire, oltre l’apparenza esteriore, per un ideale comune, condiviso e condivisibile, il bene della comunità, che in questo modo si riappropria di valori, di senso di appartenenza ad un territorio, in cui ritrovare e riconoscere la propria identità, le radici originarie nella tradizione, il senso e il valore della nascita, dell’essere accettati e voluti perché appartenenti ad un luogo, anche se non originari, autoctoni, come figli di un’unica “madre terra”, entità originaria, divinità ancestrale…
Solo con tale consapevolezza può sussistere un recupero della “festa”, che diventa tale nel momento della sua preparazione in cui viene consumata, per poi essere aperta, condivisa e spartita con gli altri.
Appartenenza e partecipazione alla ricreazione comunitaria: valori e significati del tempo festivo
Dunque condivisione nella preparazione della festa, che è rituale ricco di contenuti, valori e significati. La partecipazione alla preparazione del rito festivo è alla base del riscontro personale della riuscita, del contenuto di ricreazione comunitaria, del momento collettivo.
Una festa è condivisibile, raggiunge l’apice del momento di maturità, per cui nasce, vive, e muore, se è vissuta e resa propria tramite valori, significati e simboli condivisi dal popolo.
Nell’associazionismo è possibile ricostruire il momento comunitario se ogni singolo conquista la consapevolezza di una significativa appartenenza alla comunità, di una partecipazione nella condivisione di valori, significati e ideali dettati dall’esperienza.
Se ogni operatore sociale, ogni individuo attore nel territorio, non si spende in prima persona come cosciente pensatore nella comunità, nel gruppo di appartenenza, in base a scelte dettate dalla ragione, dal buon senso e da valori condivisi e significativi, il suo operare viene vanificato e l’associazione si trasforma in un’inutile agenzia per il tempo libero, in un contesto di gregarismo insignificante. La condivisione dei valori della comunità e la consapevolezza di un’esigenza di partecipazione e di appartenenza a un gruppo, espressione di una comunità più ampia, costituiscono i valori base per una rinascita del popolo in una nuova società liberale e democratica, perché consapevole, partecipante e partecipata.
Il momento festivo si realizza in uno spazio, in un simbolico cerchio a cui si attribuiscono caratteristiche magiche, un hortus conclusus, luogo della mente, della riflessione, del confronto, dove si attua lo scambio e l’interazione culturale e interculturale, in cui il tempo si ripresentifica nell’eterno ritorno, in una ciclicità iterativa, per cui giunge a compimento l’attimo della meditazione creativa, perché la creazione è alla base del rituale festivo. In esso si compie la vita che giunge a piena maturità con la morte, in una ciclicità che ripresentifica l’eterno. Il tempo lineare che ha una fine, e che per tale motivo incute il timore dell’eterno, è abolito e compensato dal tempo ciclico.
La ciclicità consta nel quotidiano, nel tempo comunitario del mondo contadino, trascorso, vissuto e sofferto all’ombra dei cortili, dove le diversità sociali venivano a confronto, dove si spartiva il presente, il quotidiano e si imprigionava il futuro nell’iteratività ciclica del rituale festivo, il giorno dedicato al sacro, il cui ambito apparteneva al sacro. Rinunciare al dies dominicum, profanandolo con il lavoro, rappresentava un sacrilegio.
L’eclissi del sacro nella civiltà contemporanea ha espropriato la sacralità del rito festivo.
Con l’avvento dell’era industriale, il tempo dedicato alla festa e libero da obblighi lavorativi, è stato ridotto dal sistema produttivo imperante, per non penalizzare la produzione. Con i progressi sociali, le rivolte popolari, le contestazioni operaie, studentesche e sindacali, si è ottenuta la riduzione dell’orario lavorativo con un conseguente incremento del tempo libero a disposizione. Ma il tempo libero rischia di trasformarsi in un tempo asfittico per l’individuo, perché privo di ambiti di intervento culturale comunitario dove allacciare scambi e confronti, interagendo con altri individui.
L’attesa di un cambiamento parte da ogni singolo soggetto, non inserito però in una dimensione individualistica nel senso negativo del termine, ma in un contesto che lo cita in causa come soggetto pensante e responsabile delle proprie scelte di partecipazione all’interno del territorio in cui vive e della comunità con cui spartisce i momenti di esistenza associazionistica, per parlare in una dimensione di presente.
Il tempo libero va impiegato in una nuova fruizione culturale per raggiungere il cambiamento, la trasformazione in una nuova società, migliore.
Come nella festa dal caos primigenio del disordine si passava a uno stato di mistica euforia, per approdare a una condizione che si auspicava migliore di quella passata, così l’individuo, attraverso la fruizione creatrice e creativa del tempo libero, prepara la sua festa e ne trae godimento, rigenerandosi per ricavare dallo stato di confusione primigenia, la nuova rinascita nella trasformazione festiva proteiforme.