Le fondazioni liriche verso la riforma

Salvare l’opera, espressione artistica nata in Italia e ammirata in tutto il mondo. È il grido d’allarme lanciato da ministero dei Beni culturali, sovrintendenti degli enti lirici, sindaci e lavoratori dello spettacolo, tutti concordi sul fatto che la crisi del settore è arrivata a un punto di non ritorno ed è necessaria una riforma del sistema. Alle fondamenta della difficile situazione in cui versano i 14 istituti lirico-sinfonici del nostro paese (Teatro Comunale di Bologna, Teatro Maggio Musicale Fiorentino, Teatro Carlo Felice di Genova, Scala di Milano, S. Carlo di Napoli, Teatro Massimo di Palermo, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Teatro Verdi di Trieste, La Fenice di Venezia, Arena di Verona, Accademia nazionale di Santa Cecilia, Teatro Lirico di Cagliari e, ultimo arrivato, Teatro Petruzzelli di Bari) vi è lo stesso problema lasciato irrisolto dalla riforma del 1998 che trasformò gli enti lirici in Fondazioni: la gigantesca spesa per il mantenimento di strutture che assorbono il 70 per cento del finanziamento pubblico, il quale a sua volta rappresenta quasi la metà del Fondo unico per lo spettacolo (Fus).

Una situazione che rischia di aggravarsi ulteriormente. La scorsa settimana, infatti, il ministero per i Beni e le attività culturali, nel ripartire tra i diversi comparti dello spettacolo le quote del Fus per il 2009 (stanziato in 378 milioni di euro), ha deciso di assegnare alle Fondazioni liriche 199.566.815 euro, pari cioè al 47,5 per cento del Fus (il cinema raccoglie il 19,5 per cento). Nel 2008 gli enti lirici, su un Fondo di 456 milioni di euro, ne avevano ottenuti 213, pari al 46,6 per cento del Fus. Insomma, quasi 15 milioni di euro in meno rispetto allo scorso anno per enti già attanagliati da deficit ultradecennali. Differente la retribuzione del Fus tra la varie Fondazioni liriche: nel 2008 alla Scala sono andati circa 31 milioni di euro; all’Opera 23; al Maggio e al Massimo poco più di 18; S. Carlo, Arena, Regio e Fenice intorno ai 15; Verdi di Trieste 14; Comunale di Bologna 13; Carlo Felice 12; Santa Cecilia circa 11 e Lirico di Cagliari 10 milioni.

Nel 1998 l’allora ministro dei Beni culturali Walter Veltroni promosse la legge che consentì agli enti lirici di diventare fondazioni per raccogliere fondi privati. A distanza di dieci anni il bilancio di quella riforma è alquanto negativo: gli investimenti privati nelle Fondazioni lirico-sinfoniche sono scarsissimi, rappresentano il 6 per cento dei finanziamenti, quando il Fus, cioè il supporto statale, è del 46-47 per cento e gli enti locali apportano il 26 per cento. I compensi ai dipendenti (dai cachet agli artisti agli stipendi delle maestranze) riguardano il 70 per cento dei costi di gestione. Dalla relazione della Corte dei Conti dell’ottobre 2006 risulta che il numero dei dipendenti va dai 250 di Santa Cecilia agli 800 della Scala per un totale di 5.523. Il costo medio del personale dipendente varia da un minimo di 49.441 euro al Carlo Felice a un massimo di 76.597 euro a Santa Cecilia. Invece il costo medio per recita prodotto, calcolato su cachet e allestimenti, varia dai 10.452 euro di Santa Cecilia ai 116.440 del Lirico di Cagliari. Il costo complessivo dei cachet pagati agli artisti ogni stagione dalle 13 Fondazioni (escluso il Petruzzelli) ammonta a 92 milioni di euro, mentre la spesa per gli allestimenti è di quasi 23 milioni di euro.

Un disegno di legge di riforma delle Fondazioni liriche che concili qualità, produttività e razionalizzazione delle spese secondo criteri di efficienza e che coinvolga governo, enti locali, regioni e sindacati, è stato annunciato dal ministro per i Beni e le attività culturali Sandro Bondi, il quale lo scorso ottobre aveva così analizzato complessivamente la situazione del settore. “La questione fondamentale sono i contratti di lavoro nelle Fondazioni – aveva rilevato il ministro -. È impensabile che da anni non si firmi un nuovo contratto per il solo motivo di non far decadere gli attuali contratti integrativi che consentono a questi lavoratori, in alcuni casi, privilegi non giustificati”. Privilegi che, aveva sottolineato Bondi, non sono permessi a nessun dipendente pubblico o privato. “I contratti di lavoro prevedono 16 ore di lavoro a settimana e notevoli riposi compensativi che di fatto permettono di avere un secondo lavoro che talvolta diventa quello principale dei professori d’orchestra”. E ancora: orchestre, cori e maestranze sono sempre in soprannumero, “con la conseguenza di un aumento dei turni e di riposi che vengono utilizzati per lavorare da altre parti”. Bondi si era poi soffermato sul deficit che ha depauperato i patrimoni degli enti lirici. “Sono enti che spendono fino al 70 per cento del loro budget in stipendi. Il contributo che ricevono dallo Stato neanche basta a pagare gli stipendi dei cinquemila lavoratori che nel 2007 sono costati 343 milioni, una cifra di gran lunga superiore ai contributi pubblici erogati nello stesso anno; i ricavi di biglietteria non coprono per la maggior parte delle fondazioni il 10 per cento delle spese sostenute”. Dal 2002 a oggi, le 13 Fondazioni lirico-sinfoniche (i dati non includono il Petruzzelli) hanno accumulato un deficit di 160 milioni di euro e i debiti iscritti nello stato patrimoniale superano i 290 milioni.

Bondi aveva quindi sottolineato come lo Stato non intenda abdicare al ruolo di principale sostenitore dei teatri d’opera, istituzioni di altissimo valore culturale ammirate in tutto il mondo, (“Lo Stato dovrà sempre intervenire a sostenerli a condizioni produttive e organizzative accettabili”) e si era rammaricato del cattivo funzionamento della riforma del 1998: “Le Fondazioni avrebbero dovuto coinvolgere le realtà locali (enti locali e soggetti privati) nella gestione e nella valorizzazione dei teatri. In realtà questo non è avvenuto e lo Stato ha seguitato a finanziare, pagare i debiti che si accumulavano senza avere responsabilità nella gestione dei teatri”. Il ministro aveva inoltre auspicato misure di defiscalizzazione per favorire un maggiore contributo dei privati e un ulteriore impegno degli enti territoriali. Infine aveva suggerito che nella riforma del settore lirico fosse data “maggiore autonomia” alla Scala e all’Accademia di Santa Cecilia dal momento che rivestono un ruolo e una visibilità particolari. “Si tratta di due eccellenze nel repertorio lirico e in quello sinfonico che propongo diventino fondazioni di interesse nazionale –aveva rimarcato Bondi -. Questo non vuol dire che le altre non ricoprano un ruolo culturale né che a esse vada tolto il sostegno del Fus”. E al critico musicale Paolo Isotta, che sulle pagine del Corriere della Sera si era detto contrario ad assegnare lo status particolare di “interesse nazionale” a due sole Fondazioni lasciando fuori altri teatri storici, come ad esempio il S. Carlo di Napoli, Bondi ha risposto: “Ciò che differenzia la Scala dal San Carlo è, in questo momento, unicamente il loro diverso grado di autonomia rispetto alle risorse statali. Nel tempo e gradualmente, la mia previsione è che tutti i teatri italiani, non solo la Scala di Milano, possano raggiungere un equilibrio accettabile tra le risorse statali, quelle degli enti locali, dei privati e le entrate ordinarie. Come del resto avviene in tutti i paesi del mondo”.

Sul difficile momento degli enti lirico-sinfonici va registrata l’opinione di Sergio Cofferati che, in qualità di sindaco di Bologna, è anche presidente della Fondazione del Teatro Comunale del capoluogo emiliano. “I teatri lirici? Alitalia in confronto era un’azienda florida – ha dichiarato lo scorso novembre a Repubblica -. Molti potrebbero chiudere il sipario già nel 2009”. Negativo il commento sulla riforma del 1998 che puntava sull’aiuto dei privati per compensare la diminuzione delle risorse statali. “Ha fallito. A parte qualche raro filantropo, nessuno dà soldi all’opera, oggi è più conveniente una sponsorizzazione di una donazione” ha tagliato corto Cofferati che ha proposto incentivi fiscali per attirare privati nonché interventi su contratti e retribuzioni. Anche l’ex leader della Cgil si è detto favorevole alla riduzione del costo del lavoro e a un aumento della produttività. “È necessaria la disponibilità dei sindacati – ha spiegato Cofferati -. Conoscono la gravità della situazione. Da soggetti responsabili quali sono sanno che non ci sono alternative. Qui è persino peggio di Alitalia”.

Gianluigi Gelmetti, direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma, per contrastare la crisi ha proposto invece “una stagione lirica nazionale di salute pubblica” con un programma comune stilato a tavolino assieme alle 14 fondazioni in modo da produrre 14 titoli l’anno, uno per ogni teatro, che girino da una città all’altra. “Rodiamo ogni produzione sul palcoscenico in cui nasce – ha spiegato Gelmetti -; i direttori d’orchestra raggiungano per tempo le varie piazze, provando con i rispettivi ensamble; un giorno di prova d’insieme in loco quando si sposta l’allestimento e quindi si va in scena. Tre diverse compagnie di canto; un numero incredibile di recite l’anno; cartelloni ricchi dappertutto (ripeto: ben 14 titoli). Nessuna pausa, lirica non stop, senza escludere le opere di repertorio che le Fondazioni hanno in magazzino. Forse a quel tavolo si discuterebbe parecchio, forse si scanneranno su chi possa essere il direttore di un ‘Don Giovanni’ o di una ‘Boheme’ ma alla fine la ‘stagione di salute pubblica’ verrebbe fuori alla grande con enorme risparmio in tutti i settori”. E ancora, ha suggerito Gelmetti, andrebbe tolta la programmazione dei teatri “dalle mani dei burocrati” affidandola a “persone lungimiranti che sappiano muoversi nei vari settori e vedere lontano”.

La crisi del settore ha provocato ripercussioni anche all’interno dell’Anfols, l’associazione nazionale delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Il 22 dicembre scorso si è dimesso il presidente Walter Vergnano, sovrintendente del Regio di Torino, che ha denunciato la mancanza all’interno dell’associazione di una condivisione delle strategie da seguire. Il fatto che alla Scala e all’Accademia di Santa Cecilia possa essere assegnato uno status differente dalle altre “consorelle” ha diviso gli enti lirici. Vergnano ha denunciato come “alcuni sovrintendenti siano saliti sul carro dei distaccati definendo teatri speciali le loro fondazioni” e, pur dichiarandosi d’accordo per un trattamento “speciale” per Scala e Santa Cecilia, ha rimarcato come questo debba essere approvato alla fine di un percorso di riforma più ampio del settore. A metà gennaio l’Anfols ha seguitato a perdere pezzi: Francesco Ernani, sovrintendente dell’Opera di Roma e Francesco Giambrone, sovrintendente del Maggio Musicale fiorentino, hanno rassegnato le dimissioni dall’associazione e assieme ai soprintendenti della Scala e di Santa Cecilia hanno inviato una serie di richieste al ministro Bondi auspicando per il settore lirico-sinfonico una riforma elastica, differenziate a seconda delle varie realtà e che soprattutto mandi in soffitta l’attuale struttura nata dalla riforma del 1998. La mossa autonoma dei quattro soprintendenti ha ulteriormente spaccato l’Anfols, accentuando le differenze tra le Fondazioni, e irritato il presidente dimissionario Vergnano che ha rimarcato come si sia trattato di un’iniziativa che finisce per dividere e danneggiare tutti i lavoratori dei teatri. “Chi cerca di salvarsi per conto suo indebolisce tutti” ha dichiarato Vergnano il quale ha aggiunto come “con queste risorse non c’è nessuna riforma che renda possibile lo spettacolo in Italia”.

(fonte dati: “Il Velino Cultura”)

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