La pronuncia della Corte Costituzionale
Claudia Moretti
Quel che non puo' il Parlamento puo' la giustizia costituzionale. Difficile ammetterlo, ma ad oggi le piu' importanti evoluzioni normative pare che avvengano, come nei Paesi di common law, a colpi di sentenze (si pensi al caso Welby o al caso Englaro). Questa volta e' un cittadino albanese di Prato che ha fatto fare un passo in avanti al nostro ordinamento giuridico, facendo si' che fosse espunta una disparita' di trattamento fra stranieri regolarmente residenti e italiani in merito all'ottenimento di benefici assistenziali. La Corte Costituzionale, infatti, sollecitata dal Tribunale di Prato, con sentenza n. 11 del 23 gennaio 2009, ha dichiarato l’illegittimita' costituzionale dell’art. 88 della legge n. 388/2000 e dell’art. 9, comma 1, del D.L.vo 286/98, nella parte in cui escludono la pensione di inabilita' per gli stranieri non in possesso dei requisiti reddituali necessari per la carta di soggiorno.
La normativa, oggi dunque riformata perche' incostituzionale, prevedeva che solo i titolari di carta di soggiorno (oggi permesso CE per soggiornanti di lungo periodo) potessero accedere ad alcuni benefici del nostro Stato sociale. Per l'ottenimento del titolo in questione, lo sanno bene gli stranieri, occorrono una cospicua serie di requisiti, fra cui il reddito annuo non inferiore ad una certa somma, l'idoneita' alloggiativa, il contratto a tempo indeterminato e cosi' via. Bene, subordinare gli emolumenti assistenziali in questione (che ovviamente hanno la funzione integrativa del reddito proprio per coloro che ne sono bisognosi), e' un evidente paradosso, tanto piu' se il motivo per cui non si ottiene la carta di soggiorno e' proprio la mancanza del reddito sufficiente!
E cosi', secondo il Giudice del Tribunale di Prato, e secondo la Corte Costituzionale, tale normativa creava una disparita' di trattamento tra stranieri e cittadini riguardo all'attribuzione delle suddette prestazioni assistenziali, laddove tra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti in Italia vige il principio di eguaglianza.
E' una sentenza, o meglio una riforma (attesa l'efficacia abrogativa erga omnes delle pronunce di incostituzionalita'), destinata ad alimentare le polemiche sulla questione immigratoria. Non e' un segreto che diffusa nella collettivita', ma anche nelle alte sfere, una delle ragioni piu' tenaci contro l'afflusso di immigrati e' proprio questa, la questione sociale. Dietro alla diatriba “sicurezza si', sicurezza no”, in verita' si nascondono ragioni economiche di grande portata, fra cui il generale abbassamento del tenore di vita e l'impoverimento della popolazione dovuto alla crescita numerica delle famiglie straniere spesso disagiate e, al loro interno, numerose, nonche' l'impatto, insostenibile per lo Stato sociale, dell'afflusso massiccio di persone bisognose. Rimane aperta, dunque, e irrisolta, la contraddizione fra l'esigenza di manodopera e il protezionismo socio-assistenziale italiano. La soluzione per adesso praticata dai Governi e' rimasta la medesima negli anni: la clandestinita'. Chi e' clandestino lavora al nero, e, se e' vero che non paga tasse, e' pur vero che non costa allo Stato e manda avanti comunque l'economia (meta' degli operai nelle fabbriche venete sono stranieri), basta solo chiudere un occhio e gridare alla “sicurezza nazionale”.
Quando pero' un cittadino regolarmente presente sul territorio decide di sfidare la legge per porre la questione dell'uguaglianza sociale fra chi regolarmente risiede in Italia e chi e' cittadino italiano, accade a volte che il diritto all'uguaglianza prevalga sulla convenienza politica. Infondo, questo il monito di Giovanni Maria Flick (presidente della Consulta) al legislatore degli ultimi giorni, con cui avverte sui pericoli di una discriminazione “legalizzata””
Infondo, la separazione dei poteri, anche se in Italia non sempre funziona, serve proprio a questo, a “salvare” il diritto dall'interesse.