La strada della discontinuità 

Una grosse koalition per uscire dalla crisi

È ora di gestire la crisi epocale con una fase (ri)costituente

Non c’è bisogno di essere marxisti – “l’economia è la struttura, la politica la sovrastruttura” – per capire che probabilmente anche l’attuale “foresta pietrificata” della politica italiana avrà qualche scossone se la palude del declino economico su cui galleggiamo da anni si trasformerà all’improvviso in un burrone. Anzi, il burrone c’è già: quello arrivato due giorni fa dalla Banca d’Italia è un Bollettino, sì, ma di guerra: con un pil che nel 2009 scenderà – come minimo, aggiungo io – del 2% (per trovare un dato peggiore bisogna andare indietro al 1975 della crisi petrolifera), con la produzione industriale che ha fatto un tonfo del 12,3% a novembre ma che secondo Bankitalia andrà anche peggio nei prossimi mesi, con la disoccupazione pronta a esplodere e il “credit crunch” che sta mettendo in ginocchio le piccole e medie imprese abituate ad anni di denaro tutto sommato “facile”.

E, dulcis in fundo, con la pietra tombale sul “miracoloso” export, quello a cui, non più tardi di qualche settimana fa, venivano attribuiti poteri taumaturgici, ma che adesso si prevede calerà del 5% nell’anno in corso. Mettiamoci pure le statistiche Ocse, secondo cui l’Italia è stata la peggiore dell’Eurozona – dietro di noi solo il Portogallo – per crescita economica dal 2003 al 2007, ed è ancora più chiaro che di fronte a questi dati, anche la sola definizione di “declino” per descrivere la condizione economica dell’Italia non regge più. Questo 2009, infatti, vedrà venire al pettine senza sconti e tutti insieme i nodi strutturali irrisolti del “sistema paese”. E le conseguenze, è ragionevole pensare, non potranno limitarsi alla sfera economica. La crisi, infatti, creerà un “prima” e un “dopo”. E se al “prima”, quello del declino iniziato dagli anni Novanta, ha corrisposto un sostanziale galleggiamento del “sistema berlusconiano”, qual è la nuova “sovrastruttura” politica che si cucirà addosso alla struttura economica in un “dopo” fortemente recessivo?

La parola d’ordine potrebbe essere “discontinuità”. Una frattura che potrebbe prodursi per via endogena: se è vero, infatti, che al momento, tra crisi di identità e di crescita, temperie valoriale e giudiziaria, non è prevedibile pensare ad un revanchismo del Pd, è giusto anche ricordare che questa non è una condizione necessaria perché l’attuale maggioranza possa arrivare a fine mandato. Certo Berlusconi userà tutta l’abilità tattica di cui è capace per mantenere in vita il suo Governo. Ed è prevedibile pensare che se fosse necessario un “sacrificio” per ingraziarsi gli dei del consenso, non si tirerebbe indietro.

La vittima predestinata in questo caso c’è già, ed è il superministro Tremonti. Il quale, agli occhi del premier, si ostina troppo a difendere la santità dei conti pubblici contro chi continua a tirarlo per la giacchetta chiedendo di alleggerire le maglie della finanza pubblica, rendendosi inviso a tutti i ministri e alle parti sociali. Ma il titolare del Tesoro, che tra l’altro Cavaliere giudica troppo intento a lavorare al “dopo Berlusconi”, si è preso precise responsabilità davanti all’Europa, assumendo su di sé nobilmente l’eredità che era stata di Padoa-Schioppa, e non può cambiare registro. Inoltre, le voci circolanti nelle cancellerie europee, tra le banche d’affari e nell’Eurotower, non lo fanno dormire la notte: anche a non credere alle previsioni di un catastrofista come Nouriel Roubini (che però spesso ci azzecca, e ha previsto che entro 5 anni finiremo fuori dall’euro), è chiaro che l’allarme conti pubblici è sempre tarato al massimo, e il rischio del default sui titoli del Tesoro è sempre meno un’ipotesi di scuola. Per risolvere il “problema Tremonti”, poi, è già pronto anche il casus belli: le sue ormai proverbiali risse con la Banca d’Italia. Prima era Fazio, adesso è Draghi, che del suo predecessore ha un temperamento opposto, e dunque è difficile pensare che la colpa sia dei Governatori.

Ma anche “normalizzare” il ministero dell’Economia – ammesso e non concesso che la Lega lo molli come l’altra volta – potrebbe non essere sufficiente per tenere in piedi la maggioranza. In seno alla quale la conflittualità è sempre più alta: conflittualità che in passato era stata attribuita a “corpi estranei” come l’Udc, ma che adesso ha tutte le caratteristiche di un male oscuro “di famiglia”, che potrebbe andare fuori controllo se – e non c’è motivo di dubitarne – lo scenario recessivo del 2009 esploderà in tutta la sua violenza. Aziende che chiudono, boom della disoccupazione, tensioni sociali, sono l’incubo di qualunque Governo, e possono essere fatali per una maggioranza divisa al suo interno e insieme patologicamente incapace di scelte impopolari all’estero. Tanto più che, nello scenario attuale, questi fenomeni porteranno necessariamente a una radicalizzazione nei due schieramenti: con un Pd magari più schiacciato su posizioni dipietriste e un Pdl sempre più in conflitto sia al proprio interno (vedi le esternazioni di Fini sull’eccesso di decretazione di Berlusconi) sia verso le crescenti tentazioni egemoniche della Lega.

E, proprio in quest’ultimo caso, le frizioni già in atto potrebbero superare il livello di guardia, arrivando a provocare un cedimento strutturale. Mancando una seria alternativa (col Pd fuori gioco almeno nel breve-medio periodo), ecco aprirsi allora uno scenario del tutto nuovo: esaurita, per consunzione endogena, l’esperienza berlusconiana, e con una sinistra agonizzante, potrebbe essere finalmente l’ora di una fase (ri)costituente. Con una grosse koalition di stampo tedesco, che sia in grado di fare le riforme improcrastinabili (sanità, assetti istituzionali, previdenza, debito pubblico) e allo stesso tempo di gestire una crisi epocale che “da soli”, è evidente, non si riesce a governare. Se così fosse, questo 2009 potrebbe non essere solo la fine di tutto, ma l’inizio di qualcosa di nuovo. E di positivo. Speriamo. (Terza Repubblica)

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