La poesia di Leo Zanier

Dell’umile fagiolo
e di civili malanni

“Lôcs”, quindici componimenti dello scrittore carnico dedicati ai “luoghi”

di Mario Turello

La Biblioteca Civica di Pordenone ha recentemente pubblicato, nella collana Piccola biblioteca di autori friulani, una nuova silloge di Leonardo Zanier, Lôcs (Luoghi). Monosillabico il titolo (icastico, essenziale, del tutto consono al modo poetico di Zanier, osserva in prefazione Elvio Guagnini), quindici poesie – l’ultima già edita – organizzate in sei sezioni, due delle quali consistenti d’una sola di esse, nondimeno il libro presenta numerosi motivi di interesse, che in parte si riverberano sulla produzione precedente.

In apertura, Fasôi (Fagioli) raggruppa quattro testi scritti su sollecitazione di Silvana Schiavi Fachin in occasione della pubblicazione di una ricerca sui fagioli della Carnia da parte dell’Azienda Agraria dell’Università di Udine. Il primo d’essi è quello che dà il titolo a tutta la raccolta: Lôcs. Poco più che un elenco di località carniche, si direbbe (Fasôi di Lenzon / Fasôi di Mion / E po di Preon / O di Cjasteon / Par no dî di Esemon, e così via per altre sei strofe, lasciando poi il passo a un ancor più fitto gioco toponomastico), ma ecco che la ripetuta preterizione (par no dî) conferisce un ammiccante tono litanico, ecco che il gioco delle rime cede (non tutti i nomi rimano!) alle interrogazioni, alle allitterazioni, alla sequenza binaria… Ma Zanier non si limita – non sarebbe Zanier – ai piaceri del catalogo (cari peraltro a grandissimi: a Omero, a Borges, a Queneau); due incisi, ed ecco il poeta della protesta, della denuncia: bastano un cressin corretto in cressaressin e i campi impradîts o imboschîts a dire l’abbandono della montagna.

Segue Stagjons: la sequenza delle stagioni in funzione della coltivazione dei fagioli, minuziosamente raccontata, ma con i verbi all’infinito, acquista il sapore del rimpianto. E’ poi la volta dei Dets e inventets: modi di dire, temi fiabeschi, battute popolari o citazioni colte in tema di fagioli: di nuovo l’elencazione, la giustapposizione, di nuovo gli inserti polemici: in questo caso, sugli spot (sale Jacum a cercar fortuna oltre le nuvole arrampicandosi sul fusto del fagiolo magico, ma como ch’a nus insegna la Tv: / sôra dai nûi lafè / al cjatà sôl cuatri macacos / ch’a bevevin cafè) e sui quiz televisivi paragonati a una gara di flatulenze. Infine il commiato agli umili legumi, ai loro Nons e colôrs, nomenclatura e tassonomia: nello spirito, suggerisce Guagnini, di un plazer provenzale.
Segue il trittico Natel (Cellulari, così sono chiamati in Svizzera) – Gris tal simiteri, Soterâts cemôt?, Claudio ‘l è muart -, fantasticheria macabro-surreale, stralunada, sulla possibilità che i morti vengano sepolti con addosso il telefonino attivo: ecco spiegato un frinire dove di grilli non c’è traccia. Qui la rassegna è quella dei suoi morti, e Zanier mescola al grottesco la rimostranza per il dissip delle tombe e delle ossa dei defunti, l’elegia della morte dei poveracci (neanche un soldo per pagare Caronte, nelle loro tasche), il ricordo commosso di un amico. Quattro anche i testi de La seconda forma…, tre in versi, uno in prosa lirica. E’ questa la sezione per certi aspetti più interessante. Come avvertiva Rienzo Pellegrini nel finissimo saggio Per una storia di «Libers … di scugnî lâ», Leonardo Zanier è sì soprattutto poeta civile, poeta di contenuti, ma la pratica della modifica e della riscrittura dimostra non solo una volontà di aggiornamento e di risemantizzazione in ragione del mutare dei tempi e delle contingenze, ma anche una costante minuziosa attenzione per la forma, che si traduce in riscritture e transcodifiche. Ma per ciò rimando a Pellegrini; basti qui dire che qui a ricevere la “seconda forma” sono due poesie riprese da Libers di scugnî lâ (Ogni sera diventa Dal ôr da la pleta;
Dulà sono lâts mantiene lo stesso titolo) e due da Cjermins: In tuna not como chesta e Cjasa Fenice di Pasca, quest’ultima – in prosa – rappresenta, più che un rifacimento, i paralipomeni delle due poesie sulle cjasas scieradas (è significativo che Un’âta cjasa scierada, originalmente scritta in versi, poi divenne un poemetto in prosa, per poi assumere una nuova forma metrica). La pratica della riscrittura è comune a molti scrittori, ma nel caso di Zanier il parallelo obbligato è con Pasolini, e qui si fa esplicito: l’ultima lirica (che nell’intenzione di Zanier dovrebbe «collegare “tutto”») è Di lusignas plen un prât, splendido empatico omaggio al poeta di La meglio gioventù e La nuova gioventù: una poesia, si direbbe, a due voci, che nel finale cedono a quella di Tavan: ce volêso mai capî / ch’i no sês nencja mats?

Tre diversità rivendicate, con disincanto. Altre due prose liriche compongono la sezione L’amôr in etât di A… (dove A sta per Alzheimer): i ricordi (I erin a stâ) e i malanni dell’età affrontati, consolatoriamente, con lo spirito beffardo del barone di Münchhausen, mentre sotto la rubrica Ju ultins dîs Zanier fa sua in Blut und Boden la «fulminante frecciata antinazionalista e antisciovinista» di Karl Kraus contro i localismi che «mettono sempre più Terra e Sangue nei loro
menùs». Traggo queste citazioni dalle note che come sempre accompagnano i testi poetici di Zanier che così diventano, secondo la definizione di Mordenti, dei “prosimetri”. Ma si faccia attenzione, avverte Guagnini, anche alle traduzioni che il poeta stesso fa in lingua italiana: rifacimenti anch’essi, altra poesia.

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