LA COMPLESSITA’ INTROSPETTIVA

La dialogicità interiore nel disagio psicofisico

La narrazione autoriflessiva racconta vicende che si svolgono nella prassi umana. La vita è praxis di rapporti sociali trasformati in struttura psicologica e narrativa. Il metodo biografico fa scaturire un’ingente potenzialità relazionale che rivoluziona l’impostazione tradizionale dell’analisi epistemologica, come l’interazione tra soggetto e ricercatore che si collocano attivamente nel contesto della ricerca e sono implicati nel processo riflessivo e metabletico.
L’approccio autobiografico, nell’ambito delle scienze dell’educazione, diviene strumento di ricerca qualitativa perché si basa sulla soggettività, intesa come unicità e specificità. Con il pensiero della complessità, supportato dall’epistemologia sistemica, subentra la “qualità” come categoria significativa nella ricerca del metodo autobiografico, che diviene esperienza euristica ed insieme ermeneutica, in un approccio che si configura quale strumento, non solo di ricerca, ma anche di formazione. L’autoformazione derivante dalle esperienze di vita sono fondamenti del processo formativo. L’autoriflessione biografica è una modalità di apprendimento dall’autobiografia, perché permette di riscoprire se stessi tramite l’analisi di aspetti dell’esperienza troppo spesso relegati all’oblio. La pratica autoformativa del metodo narrativo costituisce un mezzo di autoriflessione e autoconoscenza quale ricostruzione e riedificazione della personale identità nella ricerca dei diversi sé del passato, grazie ad un consapevole ritorno interiore e autoriflessivo, tramite la narrazione di sé, con la possibilità di attribuire significato anche al presente, di esplicitare connessioni e rimandi del testo di una vita, per riformulare un progetto di sé. Il passato del vissuto personale trascorso non è sempre lineare e continuo, ma frammentario e discontinuo, per cui subentra la necessità di cogliere i nessi di interdipendenza o connessione, armonizzando la molteplicità dei diversi tempi di vita.

La pedagogia dell’Anima

L’educazione interiore risale, da un’antica tradizione ascetica, agli sviluppi più recenti della psicanalisi. In pedagogia si è smarrita la dimensione che si rivolge allo studio e all’analisi dell’interiorità, dell’anima (in accezione junghiana) e di tutto quanto è recondito nelle istanze dell’inconscio. Attualmente le scienze dell’educazione volgono la propria attenzione ad una pratica dal retaggio remoto: l’autobiografia, quale libera e spontanea anamnesi della vita. L’autobiografia nasce come genere letterario, fino ad approdare, in chiave pedagogica, a molteplici sviluppi di carattere psicosociale, attraverso la considerazione ed analisi emotiva di storie di vita (biografie), giungendo a porsi all’attenzione accademica e ai più svariati esiti psicopedagogici, come chiave di espressione dell’interiorità e porta di accesso ad una dimensione nascosta dell’anima, per riscoprire quella dimensione più genuina, creativa e meditativa legata al mondo intrapsichico dell’immaginario.
L’educazione interiore non è soltanto un percorso ascetico e spirituale, ma quale pratica di contemplazione, meditazione e autoriflessione, costituisce, laicamente, un programma che uomini e donne hanno sempre intrapreso e perseguito al fine di sviluppare le potenzialità del pensiero introspettivo, per poi ampliare l’acume intellettivo, giungendo ad un contatto più stretto, ad un rapporto più viscerale e sentito con il proprio sé e creare, plasmare, un io più emancipato, maggiormente predisposto alle interrelazioni, sviluppando rapporti profondi e proficui con le persone. Attraverso l’esplorazione di un’autobiografia, ogni individuo che intraprende il percorso di conoscenza del proprio sé giunge a recuperare una maggiore attenzione per la dimensione affettiva di moti emozionali latenti e ad arricchire l’immaginazione creativa. Il testo si rivolge agli operatori sociali, agli educatori, agli insegnanti e a tutti quanti pongono alla base delle dinamiche educative l’importanza del ritorno a se stessi, del rimembrare degli eventi nell’introspezione, nella narrazione di sé e autobiografica, per creare nelle istituzioni, negli ambiti predisposti alla diffusione di cultura e alla pratica educativa, un ampio margine di riflessione, da parte di ogni individuo, sulla propria storia, l’esistenza, analizzando le vicende belle o tristi o dolorose, rivivendo frustrazioni affettive o gioie d’amore, ripercorrendo successi o insuccessi formativi ed emotivi, riscoprendo ansie, delusioni, felicità piccole e grandi e tutte le amenità del vivere quotidiano.

Il paradigma identitario nell’incontro con il disagio

L’incontro con l’alterità, soprattutto quando diviene portatrice di sofferenza e di disagio, realizza e presuppone sempre un interscambio culturale, ossia lo specifico caratterizzante dell’operatore e del malato, che si possono incontrare anche in un contesto transculturale.
Il mondo della globalizzazione sta progressivamente incontrando il processo ed il fenomeno della creolizzazione delle culture, per cui è difficile immaginare dei confini più o meno virtuali e più o meno portatori di dolore e sofferenza e disagio che suddividano il mondo in un mosaico di culture.
Dopo queste premesse risulta necessario e indispensabile prendere in considerazione il paradigma o parametro culturale nell’incontro con il paziente, indipendentemente dalle origini etniche e dalla provenienza, i cui contesti permettono di cogliere le differenze simboliche, le diversità semantiche, nell’analisi dettagliata della varietà di linguaggi, nella sofferenza e nel disagio, di matrice biopsicosociale, che spesso scaturisce in dipendenza dalle radici culturali ed etnocentriche.
La cultura è condivisione di simboli e significati, come la diversità culturale è un modo differente di considerare la propria interiorità tramite una concezione “altra” del proprio essere-nel-mondo.
Riaprire il dialogo con la diversità innesca un processo di adesione al nuovo in modo critico e riflessivo, con il risultato di attribuire senso e spessore alla sofferenza, contestualizzandola nell’ambito di una trama narrativa esistenziale e personale, nell’ambito della storia di vita del soggetto e della sua dimensione culturale, etnica, razziale.
Il disturbo psichico è ubiquitario e per ottenere una visione analitica globale dell’”altro”, non occorre solo la comprensione della sfera biologica e psicologica, ma risulta necessario valutare ed analizzare la particolare e specifica storia di vita della persona in relazione alla sua cultura, al suo specifico identitario.

Incontro con l’Alterità di operatori, servizi e famiglie

Oltre le diverse interpretazioni, le lungimiranti intuizioni, le intenzioni benpensanti, riguardanti l’emergenza handicap, i vari interventi educativi, medici e riabilitativi, a livello professionale, di tipo operativo, risultano spesso “nascosti”, non evidenti, perché l’”altro”, il portatore di diversità ed alterità, è fonte di timore, paura e soggetto a segregazione, emarginazione e pregiudizio.
Un’evoluzione positiva dell’intervento professionale, operativo e riabilitativo, si auspica mediante una presa di coscienza generale di ciascun soggetto in causa, dall’educatore, allo psicologo, al famigliare, coinvolti nell’incontro quotidiano con questo sintomo del male sociale, con risvolti individuali e risposte spesso individualistiche ed egoistiche dove la quotidianità nella sua complessità, sfugge alle maglie attanaglianti delle rappresentazioni, che escludono le difficoltà e riducono spesso il problema all’ambito del diritto e dell’uguaglianza.
Gli interventi corretti rivolti ad handicap gravi non devono avere origine in un umanitarismo pietistico o masochista, ma nel rispetto dei diritti e nella consapevolezza che l’azione professionale ben fatta a favore del diversamente-abile, volta al bene sommo del “diverso”, è vantaggiosa per l’intera società che riscopre, nell’apertura verso le insondabili e poliedriche sfaccettature, le polimorfe caratteristiche dell’umano, dei valori inalienabili, insostituibili, imprescindibili ed arricchenti per una civiltà purtroppo votata al consumismo e al rifiuto dell’inefficienza come la nostra. Dunque il rispetto, il confronto, la tolleranza positiva e non pregna di sufficienza e recondito disprezzo, il dialogo costruttivo, l’interscambio di opinioni, il contatto con ogni aspetto, peculiarità e carattere di “alterità” che permea l’esistenza umana e la sua ontologia.
Gli interventi a favore dell’handicap devono incentrarsi su principi di socializzazione, suscitare stimoli socializzanti e non segreganti, che inibiscono la capacità del dialogo, dell’interscambio dia-logico, nell’assenza di abilità relazionali e socializzanti: la necessità di raggiungere risultati positivi nell’azione operativa, di conseguire una giusta integrazione, buoni livelli di autonomia, sono obiettivi fondanti presi in carico da tutta la comunità sociale ed educante. Abbandonare il problema handicap a se stesso significa impoverire una comunità e aprire una ferita profonda sul piano culturale, a partire dal nucleo famigliare del disabile che diventa decisivo con la sua centralità affettiva, in quanto non deve permettere di ridurre il figlio a un caso, a una categoria di disabilità, ad un’utenza, indirizzato da “politiche societarie” che valorizzano la soggettività sociale, le reti associative e di volontariato e le relazioni interfamigliari, attribuendo rilievo alla centralità dei legami familiari e societari. L’intervento riabilitativo non dovrebbe dunque esasperare la differenza, facendo di questa stessa peculiarità la stigmate stessa dell’emarginazione. La segregazione è un fenomeno imperante e omnipervasivo. Le risposte alle esigenze dell’handicap vanno fornite in organizzazioni di servizi come per altri cittadini.
Un’azione riabilitativa corretta deve permettere al soggetto di vivere in modo agiato la città e il quartiere, evitando l’emarginazione segregante in centri residenziali, con eccessivo concentramento di persone. Occorre consentire un’equa distribuzione sociale del peso materiale e psicologico che non dovrebbe gravare totalmente nell’ambito della famiglia, penalizzandola.
In quest’ottica olistica di intervento risulta auspicabile l’adozione di piccole comunità residenziali o semiresidenziali, interventi qualitativi come servizi aperti che facilitino l’interazione e la partecipazione di tutti i soggetti in causa: gli operatori, il personale medico e riabilitativo, gli educatori e i famigliari, che possano interagire nell’ambito di servizi collocati in zone abitate, facilmente raggiungibili e accessibili, perché l’obiettivo principale, il focus fondamentale sotteso all’azione di ogni intervento consiste nell’integrazione.

I miti della società dell’effimero

Una società fondata sul principio del valore e della sopravvivenza del più forte presenta notevoli svantaggi perché conferma principi ancestrali e primordiali quali il culto della potenza fisica, la rivalità, l’inimicizia, il dissidio, la supremazia e il principio di onnipotenza che emargina o addirittura annienta i più deboli. In una società che incoraggia la competizione economica, il successo del potere, la supremazia dell'arroganza rispetto al dialogo rispettoso e al confronto pacifico, vengono abbandonati principi valoriali basati sull’etica, fondati sulla giustizia che stimolano alla solidarietà ed alla cooperazione solidale per l’emancipazione personale di ogni singolo e distinto individuo, in quanto portatore di una insita diversità.
Una civiltà, una società, una comunità basate sul principio di potere e di onnipotenza, fondate sul primato dell’economico, in un’ottica massificatrice ed edonistica del tempo libero dove riecheggia l’eco del prestigio del dio denaro in chiave strettamente consumistica ed aleatoria, per raggiungere gli scranni del potere con politiche dell’effimero, queste portano di conseguenza ed inevitabilmente, come anche la Storia insegna, all’esclusione degli infermi, dei deboli, delle minoranze, degli anziani, insomma dei diversi, e come è stato, al loro annientamento.
In base a questi presupposti si deduce che il problema, la questione handicap può arricchire una società di valori e principi di apertura al dialogo tra diversità, in un “mito” che qualcuno sta vivendo in una nuova civiltà che finalmente vede nel più debole non più un perdente, ma un’occasione per provare e dare Amore.

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