L'autore di queste pagine, Cella-Dezza (1913-2004), è stato un grande uomo di teatro, cinema e televisione, amico di Brecht, Silone, Strehler e Maria Callas, fu tra i fondatori della televisione svizzera, promosse la diffusione di Brecht in Italia e di Pirandello in Germania. Testimone d'eccezione del “secolo breve”, ma anche animatore delle grandi battaglie politiche e culturali condotte da questa testata contro il fascismo, lo stalinismo e la xenofobia, ha ricostruito in “Nonna Adele”, romanzo familiare e iper-verista, la vita dell'emigrazione italiana a Zurigo nel passaggio epocale dalla guerra al fascismo e dal fascismo alla guerra.
di Ettore Cella-Dezza
A questo punto noi bambini volemmo sapere chi fossero questi “contadini rossi”. E nonna ci spiegò che venivano chiamati così i coltivatori poveri dell’Emilia che tanti anni prima avevano iniziato a mettere in piedi le cooperative. Da Reggio li guidava Camillo Prampolini, uno dei fondatori, insieme a Filippo Turati, del Partito Socialista Italiano. Pronunciò queste ultime parole sottovoce. Noi bambini ascoltavamo con la massima attenzione i segreti di nonna Adele. Ma intanto continuava a non sembrarci giusto che avessero mandato tanti uomini per arrestarne due. Gli antichi paladini agivano tutt’altrimenti. Arrivava uno, lanciava la sfida a un altro, e poi iniziavano a lottare: “da solo a solo”.
«Ma oggi le cose non vanno più così. Non ci si può fare niente. Quando i poliziotti hanno un mandato di arresto scritto, devono eseguire l’ordine. Loro spesso neanche sanno perché arrestano qualcuno. E magari non vedono quali drammi o tragedie possano provocare».
«Sì, ma come va avanti la storia?». Questo era ciò che ci interessava e non i ragionamenti di nonna, che lei oggi inspiegabilmente inseriva di tanto in tanto nel tessuto del suo raccontare sospirando.
«Purtroppo, la storia andò avanti. E queste cose me le ha poi raccontate Enrico. Sicché dunque, lo accompagnarono in una cella. Tirarono il catenaccio. Aprirono la porta. E con grande sorpresa, seduto vicino ad altri, per lui sconosciuti, vide suo fratello Ernesto. Lo guardò intensamente come a dirgli: “Non tradirti!”.
Ma Ernesto fu così sorpreso e così felice di vedere Enrico che balzò in piedi e corse ad abbracciare il fratello, pensando che fosse venuto a liberarlo».
«Come Orlando e Ruggiero nel palazzo incantato!» esclamammo entusiasti.
«Sì, una volta!» sospirò di nuovo la nonna. «Le guardie li separarono immediatamente. Chiesero ad Enrico se conoscesse quell’uomo e a quel punto lui non poté non rispondere che si trattava di suo fratello».
«Non doveva! Doveva fare finta di niente! Così lo lasciavano lì e poi loro due potevano scappare!» dissi.
La nonna allora mi spiegò che mio papà non era capace di mentire. Poi aggiunse solennemente: «Non si deve mai, e dico mai, rinnegare un fratello!». Ci fu una pausa di silenzio. «Senza contare che i poliziotti se ne sarebbero accorti comunque, confrontando i nomi sui rispettivi documenti. Come del resto fecero. Così Enrico fu trasportato in un’altra “custodia”. Ed Ernesto, dopo aver per qualche istante creduto d’essere già a piede libero, fu risospinto dentro. Scoppiò in lacrime. Non conosceva ancora il motivo del suo arresto».
«Nonna, senti, anche le celle per le “custodie” sono nelle segrete, sotto terra, come quelle del castello di Scandiano?».
«Non credo. Probabilmente sono piccole stanze munite di finestrelle con le sbarre di ferro. Quando si passa davanti alla caserma di polizia, queste finestre con le sbarre si possono vedere ai lati dell’edificio».
Naturalmente chiedemmo che alla prossima passeggiata si andasse dalle parti della caserma di polizia a vedere le sbarre sulle finestre delle celle per la “custodia”. Ma la nonna non volle impegnarsi: «Non è per niente bello andare a vedere queste cose. Mi mettono una grande tristezza. Dietro quelle finestre ci stanno persone che tremano per il loro futuro, per il loro destino. Magari sono innocenti. E se colpevoli è ancora più triste».
Io pensavo che mio papà comunque doveva combattere: per dimostrare a tutto il mondo la propria innocenza! Lo pensavo e lo dissi.
«Ma che cosa poteva provare? Se non sapeva nemmeno di che cosa l’accusavano. E che avessero arrestato anche il fratello Ernesto, lo confondeva ancor di più».
«Ma perché non ha tentato almeno di scappare. Di evadere come l’invisibile Ruggiero?» domandò Laura.
Talvolta, le domande e i paragoni epici innervosivano nonna Adele. Ma lei non perdeva mai la pazienza con noi: «Quel che vi ho raccontato dei prodi Orlando e Ruggiero è successo tantissimi anni fa. E in quei tempi tutto era completamente diverso. La gente credeva ancora ai maghi e ai miracoli. Che erano più forti della realtà. Oggi, invece, sono più forti i fatti. Mentre che, ai miracoli e ai maghi, agli Astolfi ed Ippogrifi, non ci crede più nessuno. C’è persino gente che non va più neppure in chiesa… E questo perché? Perché la gente oggi non crede più in niente».
«Sì, ma lo zio Enrico e lo zio Ernesto, insomma, nonna, che cosa avevano fatto?!».
«Niente! Non avevano fatto proprio niente…».
«Be’ non puoi mica mettere uno in “custodia” se non ha fatto niente!».
«E come no. Si può, si può. Lo hanno pur fatto con i miei figli. Sulla base di un mero sospetto».
«Quale sospetto? Non li avevano denunciati?».
«No, non li aveva denunciati nessuno. Si erano, per così dire, auto-denunciati».
«Auto-denunciati!? Che stupidi! Dovevano negare tutto e non auto-denunciarsi».
«Erano sospettati di essere coinvolti in una azione degli anarchici con tanto di bombe».
«Ma mio papà non è mica anarchico, lui è socialista!» protestai io.
«Hai ragione, Ettorino. Loro due non sono per niente anarchici, ma avevano dei conoscenti che lo erano stati. E un brutto giorno uno di questi conoscenti, che abitava alla Motorenstrasse, all’angolo della Josefstrasse dove c’è il negozio, chiese a tuo padre se poteva prestargli uno dei due carretti pel mercato posteggiati nel cortile. Gli serviva per “un trasporto di casse”, disse, che doveva fare in serata. Enrico glielo prestò a condizione che il carro, dopo l’uso, venisse rimesso al suo posto nel cortile. E così fu. Tuo padre, però, si scordò di chiedere che cosa c’era in quelle scatole. Pensava che qualcuno traslocasse e dovesse trasportare dei mobili, o robe così. Senonché, il carretto recava ai lati la tabella della ditta con tanto di nome e indirizzo dei fratelli Dezza. Gli anarchici non fecero caso a quelle scritte. O forse le avevano vedute, ma ritennero che sarebbero potute servire da camuffamento. Intanto, però, la polizia, che li teneva sotto controllo, aveva preso nota degli indirizzi riportati sulle insegne del carretto.
Gli anarchici andarono probabilmente verso il consolato tedesco, dove presero in consegna alcune casse. Dovevano contrabbandarle in Italia. Il tutto avvenne nottetempo. Nel buio pesto. E senza dire una sola parola».
«Ma che cosa c’era di tanto segreto in quelle casse?».
«Probabilmente c’erano delle bombe. Bombe che dovevano servire a fare la rivoluzione in Italia. Ma la polizia zurighese già da tempo aveva annusato puzza di bruciato e teneva d’occhio l’intera colonia. Anche tuo padre, anche tuo zio, e tutti gli emigranti che si occupavano di politica. Oltrettutto Enrico non lo nascondeva neanche, aveva dichiarato “guerra alla guerra”, collaborava all’Avvenire del Lavoratore. E quindi era uno dei controllati speciali. Uccide più la penna che la spada».
«Sì, va bene, ma poi cos’hanno fatto gli anarchici con le bombe?». Questo c’interessava molto di più.
«Gli anarchici ben presto s’accorsero di essere seguiti e quindi tentarono di distanziare la polizia per mettere al sicuro il loro carico esplosivo. Era tutta gente che conosceva il quartiere italiano come le proprie tasche. Si dileguarono tra i vicoli, imboccarono passaggi arcani, si addentrarono in un reticolo di stradine e raggiunsero il cortile dei fratelli Dezza. Quando infine rimisero il carro al suo posto le casse erano scomparse».
«E dov’erano finite le bombe?».
«Questo è rimasto un grande mistero. Si disse che furono gettate nel fiume Limmat, in un’ansa dove l’acqua è particolarmente profonda. Altri però raccontavano d’averle vedute in un deposito di generi alimentari. Forse per via dell’insegna sul carretto. Ed è proprio per questa ragione che Ernesto ed Enrico vennero arrestati. Ma tutti e due riuscirono a dimostrare la loro innocenza. Perché loro due non sapevano nulla di quel trasporto. Anzi, nel momento in cui esso avvenne, si trovavano in luoghi completamente diversi. Perciò la polizia liberò Ernesto e, dopo qualche giorno, anche Enrico. Ernesto d’altro canto poteva fornire poche informazioni su argomenti che esulassero dallo sport. E ben presto lo capì anche la polizia».
La nonna aggiunse che questa liberazione avvenuta in così poco tempo fu veramente una fortuna, perché mia mamma non sapeva più come fare con il bancone al mercato e i due negozi da tirare avanti. «La mattina badava a un negozio, il pomeriggio all’altro. Il martedì e il venerdì Zavatti le aveva dato man forte a trasportare il bancone del mercato. Ma non poteva farlo mica tutte le settimane. Sicché dunque appena tornò Ernesto non fu più necessario approfittare della bontà del suo vicino. Enrico rimase ancora un po’ in “custodia”. Fu sottoposto a lunghi interrogatori prima di poter essere rilasciato. Ma tenete ben presente quel che vi dico, ragazzi: i fratelli Dezza oltre ad aver dato in prestito il carretto, con tanto d’insegna della ditta, non c’entravano niente né con gli anarchici né con le loro bombe».
«E gli anarchici? Loro non li hanno arrestati?».
«Alcuni sì. Altri no. E poi sappiate che qualche tempo dopo una parte delle casse fu ritrovata. Ma lì dentro c’erano talmente tante bombe che si sarebbe potuto far saltare per aria l’intero quartiere. Al che si ebbe il famoso “processo delle bombe”, il Bombenprozess, che fu celebrato a Zurigo. Alcuni subirono pene severe, andarono in prigione o furono estradati. Altri fuggirono all’estero. Uno di loro, si chiamava Cavadini, si tolse la vita».
«I paladini non si tolgono mai la vita!».
«Ma Cavadini, invece, se la tolse. Aveva paura, così dissero i giornali, di tradire i suoi compagni. E si ammazzò durante la “custodia”. Ma ricordatevelo sempre: con tutta questa tragedia i fratelli Dezza non c’entravano affatto. Sicché dunque nessuno può affermare, caro Ettorino, che i Dezza siano mai stati in “prigione”. Perché questo non è affatto vero. E se qualcuno lo asserisce, voi gli direte la verità esattamente come ve l’ho raccontata io adesso. Arrestati sì e interrogati anche, ma poi li hanno dovuti rilasciare. E tua mamma Erminia, anche questo devi ricordarti di aggiungere, Ettorino, ha lavorato per tre uomini. Si alzava alle quattro, correva allo scalo merci per le compere, nei giorni di mercato poi andava all’Augustinerplatz, e dopo il mercato, alle undici, correva in negozio alla Badenerstrasse fino alle sette di sera, quindi chiudeva quello e correva all’altro, alla Josefstrasse che teneva aperto fino a tarda notte. Capito? E poi dovete dire ancora che alla notizia dell’arresto tutti facevano la spesa da Erminia, in segno di solidarietà coi fratelli Dezza. Oh, certo, c’erano anche di quelli che temevano di compromettersi a farsi vedere in negozio. Per Erminia fu un periodo davvero terribile. Ma lei rimase ferma e coraggiosa, come si confà a una vera mamma italiana. Ecco cos’è l’eroismo!».
Noi rimanemmo francamente un po’ delusi dall’esito della storia. Nonna Adele di solito ci raccontava di gesta eroiche molto, ma molto diverse. Guerrieri saraceni e paladini cristiani, gran maghi ed abilissime incantatrici, rocche inespugnabili e castelli fatati, spade possenti e orribili mostri, mantelli invisibili e cavalli lunari. Che roba era mai questa? A vendere polli e pollastre non ci voleva mica l’eroismo. Dicemmo alla nonna che questa storia ci sembrava non altrettanto bella quanto le altre.
Lei si schermì: «Ma quella che vi ho raccontato non è affatto una storia come le altre. È una storia dell’esperienza di vita. Questa è una storia vera. Di quelle che ci regala l’esistenza. Non bella tanto quanto i poemi epico-cavallereschi, ma certo è di quelle che più a fondo ci segnano e c’insegnano». (4/4 – Fine)