Attilio Bolzoni: "I giovani possono liberarci dalla mafia"

di Maria Grazia d'Errico

Quali sono le voci di ‘cosa nostra’? Cosa dicono i mafiosi quando rispondono alle domande dei magistrati? E cosa pensano quando uccidono? Attilio Bolzoni, giornalista del quotidiano ‘la Repubblica’, nel corso della sua carriera di mafiosi ne ha conosciuti parecchi, nelle gabbie bunker dei tribunali, attraverso i verbali e la cronaca giudiziaria, nei loro territori, qualche volta addirittura nelle loro case. E’ tutto annotato nel suo nuovo libro appena pubblicato, ‘Parole d’onore’ edito da ‘Bur Futuropassato’.

Attilio Bolzoni, lei per anni ha ricostruito vicende che sembravano confinate alla storia siciliana e che poi, invece, sono diventate centrali per il nostro Paese, mettendo in evidenza le voci di chi nella mafia è protagonista. In questo suo nuovo libro ha voluto perfino entrare nel suo ‘gergo’, rivelando cosa significhino per ‘cosa nostra’ parole come omertà, dignità, affari, famiglia: non è anacronistico, oggi, parlare di ‘parole d’onore’?
“Questo libro, nato molto tempo fa, intorno al 1993, è un resoconto trentennale di mezzo secolo di mafia siciliana e si articola in cinque sezioni. La prima ‘entra’ in quella che è la tradizione mafiosa, la seconda nella ‘tragedia’. Poi c’è una parte che ricostruisce le ‘relazioni esterne’ di ‘cosa nostra’, in particolare il suo rapporto con lo Stato. La quarta parla del silenzio, seguito al rumore delle stragi del 1992. Alla fine, c’è il futuro, le incertezze degli eredi dei grandi capi, insomma il ‘destino’ di ‘cosa nostra’. Nelle settimane successive all’arresto di Totò Riina, ho soggiornato a Corleone e, in più di una occasione, ho incontrato il fratello Gaetano. Mi trovavo lì per ricostruire la vita dei ‘contadini’ che avevano tenuto in ‘ostaggio’ lo Stato italiano. Abbiamo parlato anche di Tommaso Buscetta e di quello che aveva confessato a Falcone. Gaetano Riina mi ha dato una risposta che ho riconosciuto come una delle più sorprendenti ‘parole d’onore’ mai sentite. A proposito del pentimento di Buscetta disse: “Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello”. E’ stato un modo inedito, non anacronistico, di raccontare la loro storia attraverso le loro voci. Il libro raccoglie molti documenti e poche riflessioni”.

Infatti, nel suo libro ci sono tutti i protagonisti di questa piaga sociale, un elenco infinito di nomi noti e meno noti, di donne, di pentiti, di uomini d’onore: una combinazione fra il delirio e la logica più implacabile. Ma come è riuscito a interpretare i codici, i segreti, le voci?
“Attraverso un meticoloso lavoro di annotazione, oppure tramite i verbali e le registrazioni dei pentiti: dal maxiprocesso di Palermo dell’inverno del 1986, agli ultimi ‘picciotti’ reclutati nelle borgate, da Tommaso Buscetta a Luciano Liggio, dai ‘lussi’ dell’Ucciardone al ritorno degli ‘scappati’. Questi uomini parlano di onore, di moralità, di delitti, di amicizie tradite, di latitanze infinite, di religione, di Dio, della legge, del clero e dello Stato attraverso voci minacciose, apparentemente innocue, a volte cariche di presagi, perché c’è sempre un messaggio ‘velato’ nei loro discorsi. C’è tutta la quotidianità di ‘cosa nostra’: la politica degli affari e la strategia dei suoi ragionamenti. Non è solo un linguaggio o un codice, ma un esercizio di intelligenza”.

Eppure, Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, affermò che la mafia non esiste più dal 1958, che è scomparsa con l’uccisione del dottor Michele Navarra…
“Vito Ciancimino è stato un mafioso e un pentito. Quindi, bisogna considerare il contesto per cui ha fatto quelle affermazioni. Ci sono stati ‘boss’ che hanno scelto la strada del pentimento e che sono stati preziossimi per fornire le ‘chiavi di lettura’ di un microcosmo diversamente penetrabile. I ‘boss’ parlano male e pensano male. Bisogna dunque avere la pazienza di ascoltarli, di sforzarsi di capire come pensano e cosa vogliono dire. Vengono fuori riti e tragedie anche per ricordare con rimpianto i loro antichi privilegi, le loro azioni, come nel caso di Ciancimino. Confessano il loro passato, ma difendono il presente. Uno di loro dice: “Perché, in Sicilia, quello a cui non si può rinunciare è la considerazione che gli altri hanno di te”, riferendosi a quella che loro chiamano la ‘dignitudine’…”.

I riti da lei raccontati tracciano una tragica e in parte inedita ‘radiografia’ dell’universo di ‘cosa nostra’ e dei suoi molteplici mutamenti: ci ricorda qualcuno di questi riti su cui sembra sempre aleggiare una componente mistico – religiosa?
“Nel dialetto siciliano, la ‘schiticchiata’ è un pranzo goliardico fra amici. Agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, Totò Riina è il ‘boss’ più ricercato d’Italia e anche lui organizza la sua ‘schiticchiata’ che, però, è alquanto ‘sui generis’: all’ordine del giorno vi sono decisioni e alleanze tra i ‘mammasantissima’. Chi riceve l’invito, trema: se non ci va, il suo destino è segnato. Se invece ci va, può fare la fine di altri invitati. Si mangia, si ride e si scherza. Poi, improvvisamente, qualcuno scivola alle spalle dell’ospite indesiderato e lo strangola con una cordicella. Rimosso il cadavere il ‘boss’ ordina: “Monsciandò pi tutti”: un rito classico e regolare del loro operato”.

Conoscere i mafiosi ha influito sul suo modo di rapportarsi con gli altri e le sue convinzioni?
“Sicuramente sì: per disinnescare un’idea sbagliata, bisogna prima capire e accettare che qualcuno possa prenderla per ‘buona’. Il lettore, nel mio libro viene portato a ‘calarsi’ nelle abnegazioni del pensiero criminale senza moralismi preconfezionati. Falcone diceva: “Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità. Conoscendo gli uomini d’onore, ho imparato che le logiche mafiose non sono mai sorpassate, né incomprensibili: sono, in realtà, le logiche del potere, sempre funzionali a uno scopo. In certi momenti, questi mafiosi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo popolato da folli”. Anche Leonardo Sciascia sosteneva che, in Sicilia, si nascondono i ‘cartesiani’ peggiori”.

Ho letto che esiste, sorprendentemente, una mafia di donne: chi sono? Come agiscono?
“La donna, all’interno di ‘cosa nostra’, quanto meno come madre, figlia o moglie è sempre stata il ‘perno’ della famiglia di sangue, sul cui modello si struttura l’intera organizzazione della ‘famiglia mafiosa’. Non a caso si è parlato di ‘centralità sommersa’ della donna di mafia. Essa è infatti la custode dei ‘codici culturali’ su cui si basa l’organizzazione, tra cui l’onore, la vendetta, l’omertà. La donna è diventata così la ‘garante’ della ‘reputazione’ dei propri uomini, uno strumento di rafforzamento del potere delle cosche, per lo più tramite precise ‘strategie matrimoniali’, in ordine alle quali viene sempre trattata come ‘merce di scambio’ e di trasmissione dei ‘disvalori’ ai figli. Ad ogni modo, il rapporto tra donne e mafia è cambiato profondamente: tutti gli arresti e le pesanti condanne a ‘cosa nostra’ hanno dimostrato la necessità di utilizzare le donne con ruoli anche non secondari, di ausilio del riciclaggio del denaro, nei contatti con i famigliari detenuti, oppure come ‘collettori’ del ‘pizzo’. Tuttavia, ciò può aprire anche uno spiraglio nella possibilità del pentimento: le donne, infatti, in quanto conoscitrici di segreti prima riservati esclusivamente agli uomini, possono maturare la decisione di collaborare con la giustizia con una spinta motivazionale in più, quella rappresentata dai figli”.

Giovanni Falcone ha affermato che la mafia è un fenomeno umano destinato ad avere un inizio e una fine: cosa sta accadendo oggi nella intricata geografia mafiosa?
“E’ indubbio che il fenomeno del ‘pentitismo’, che ha inizio proprio con Tommaso Buscetta, ha inferto colpi mortali alla loro organizzazione. Di lì in poi, la lotta a ‘cosa nostra’ ha avuto un’altra storia. Provenzano è stato un fantasma di Stato dal 9 maggio del 1963 fino alla sua cattura e, nonostante la sua figura enigmatica e il ‘cervello da gallina’ che gli attribuiva il capostipite Luciano Liggio, ha gestito il ‘traghettamento’ di ‘cosa nostra’ dalla crisi apertasi con le stragi di Capaci e via D'Amelio, a quelle di Firenze e Milano del 1993. All’interno delle cosche, oggi, viene arruolata gente che ha ‘tradizioni mafiose’: sono figli e nipoti dei vecchi boss che cercano di organizzarsi e ristabilire contatti. La loro struttura si è irrigidita: selezionano nuove leve per non avere defezioni e pentiti, anche se oggi ciò che arricchisce le cosche è il riciclaggio di denaro. Alcuni fenomeni positivi, però, si stanno verificando: penso alla ribellione dei giovani alla mafia, frutto anche della ‘semina’ di Falcone e Borsellino e in nome di tutti gli eroi e le vittime della mafia”. (Laici.it)

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