In Italia è emergenza recessiva

Tre cose da fare per andare oltre il confronto tra Berlusconi e Tremonti

In Italia, come al solito, il tema è l’emergenza. Non avendo fatto nulla di strutturale negli ultimi 15 anni e di strategico negli ultimi tre decenni – pur essendoci stati cambiamenti epocali: dalla fine di Yalta, datata 1989, alla globalizzazione, passando per la rivoluzione tecnologica – ancora una volta ci troviamo di fronte a scelte puramente congiunturali. Con la differenza, che questa volta la crisi finanziaria mondiale, che comporta niente meno che salti di paradigma come un nuovo ordine monetario e la fine della stagione del debito eccessivo (altrimenti detta finanziarizzazione dell’economia), produce impatti così forti che sarà impossibile ricondurre le nostre scelte economiche, e di conseguenza politiche, alla mera gestione dell’emergenza. Pena non più il declino, ma la “nuova miseria”.

Per questo non mette conto occuparsi più di tanto dello “scontro” Berlusconi-Tremonti, i cui termini sono stati raccontati più che bene da Francesco Verderami sul Corriere della Sera di ieri. Non perchè non siano importanti le modalità con cui aiutare la necessaria ricapitalizzazione delle banche su cui, sempre ieri, il Foglio indicava tre strade interessanti per evitare forme striscianti di nazionalizzazione (anche se io temo le “nuove Bin” non perchè sono pubbliche, ma perchè oggi nessuno ha in testa cosa sia “l’interesse nazionale”). O non perchè non faccia differenza se cambiare la Finanziaria, aumentando la spesa pubblica come vorrebbe il premier, approfittando della inedita “manica larga” di Bruxelles (ma siamo sicuri che la concedano al nostro debito?), oppure tener fermi i tagli che essa comporta (a cominciare da quell’autentico disastro che è la scuola, alla quale occorre però dare una speranza di riforma vera) come vuole il ministro dell’Economia, al quale riconoscerei volentieri la primazia se solo si facesse carico di un progetto di politica industriale e del relativo piano di investimenti.

No, il dibattito – cui dà manforte da par suo un’opposizione sempre più “dipietrista” – è ancora una volta tutto basato su come tamponare la crisi, quando non prende addirittura i toni surreali della contrapposizione tra pessimismo e ottimismo (sic) che gli danno il Berlusconi versione “tranquilli, va tutto bene” ed economisti (presunti) di regime che scrivono corbellerie del tipo “l’Italia vale di più di Spagna, Inghilterra e Francia messe insieme”. Così, per l’ennesima volta si evocano salvifiche “misure per famiglie e imprese” – il ritornello politico più gettonato degli ultimi anni – e ci si divide intorno a provvedimenti che dovrebbero aumentare i consumi (ora va di moda la detassazione delle tredicesime) e gli investimenti (tipo garantiamo l’erogazione del credito bancario alle imprese), senza avere mai il coraggio di consuntivare quanto queste due voci siano state davvero alimentate dalle politiche, per nulla dissimili, fin qui seguite tanto dal centro-destra quanto dal centro-sinistra.

Sia chiaro, non è il caso di fare gli schizzinosi: in una fase davvero di emergenza recessiva come questa, misure specifiche e temporanee hanno una loro logica. Ma a patto che si faccia una triplice operazione. Primo: si dica la verità al Paese, e cioè che la nostra recessione viene da lontano, che la crisi internazionale la accentua ma non ne è all’origine, e che dunque essa si rivelerà per noi molto più intensa e lunga rispetto agli altri paesi occidentali e che per fronteggiarla occorre rimuovere le cause strutturali che l’hanno determinata. Anche perchè non si può continuamente oscillare tra sane pulsioni di riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, seppure purtroppo mai accompagnate da strategie riformiste a tutto tondo, e insane pulsioni populiste di distribuzione a pioggia di risorse.

Secondo: che si eviti di esagerare con strumenti “neo-statalisti” (e lo dice, credo a buon diritto, uno che non è mai caduto nella fino a ieri facile tentazione di elevare il mercato a divinità da adorare). In particolare, si eviti un clamoroso misunderstanding relativo al concetto di politica industriale. Essa non significa entrare nel capitale della Fiat o “rottamare” per sovvenzionare questa o quest’altra impresa, bensì vuol dire da parte della Politica assumersi la responsabilità di dare un indirizzo strategico allo sviluppo del Paese, individuando le linee guida lungo le quali far camminare l’economia. In concreto? Politica dei settori oltre che quella dei fattori della produzione; utilizzo della leva fiscale come incentivi e disincentivi che indirizzino gli imprenditori verso scelte di utilità generale (aziende più grandi e più capitalizzate, comparti produttivi a maggiore valore aggiunto e intensità di innovazione tecnologica). Terzo: il sì allo “Stato decisore” e il no allo “Stato padrone a scopo di salvataggio” non significa rinunciare a grandi investimenti pubblici, anzi. Ma di questo vi dirò venerdì prossimo. (Terza Repubblica)

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