Scuola e classi separate. Dov’è la discriminazione ?

Sulla proposta del deputato leghista Cota di istituire classi d’integrazione per bambini immigrati sono stati scritti decine di articoli. Ne ho letto parecchi e mi hanno dato l’impressione che almeno la maggior parte degli autori non conoscesse minimamente i risultati dell’indagine internazionale PISA. Questa valuta da alcuni anni le competenze scolastiche dei quindicenni dei Paesi partecipanti. Ebbene, nella classifica per Paese, l’Italia si colloca agli ultimi posti. A spingere verso il basso sono soprattutto le prestazioni degli allievi meridionali e degli immigrati.
In molti Paesi, i risultati PISA, ben più positivi di quelli nostrani, hanno provocato ampi dibattiti e avviato interventi per aumentare la qualità della scuola dell’obbligo. La mozione Cota, approvata recentemente dalla Camera dei Deputati, mi è sembrata orientata nella stessa direzione. Invece, stando ai resoconti giornalistici, molte reazioni provenienti soprattutto dall’opposizione parlamentare la considerano «discriminatoria», una «proposta abietta» (Fassino), «intollerabile» (Veltroni), che «richiama gli aspetti bui dell'apartheid» (Epifani Cgil), ecc.
Tra le molte reazioni, mi ha colpito in particolare quella del leader del Partito democratico Walter Veltroni per un riferimento specifico all’esperienza vissuta dagli emigranti italiani. Riporto dalle agenzie quanto egli avrebbe detto: «Noi siamo stati emigranti, siamo stati accolti e integrati e noi dobbiamo ora essere una società che deve respingere la violenza ma anche saper integrare». Se Veltroni conoscesse davvero la storia dell’emigrazione italiana forse non direbbe semplicemente «siamo stati accolti e integrati», senza aggiungere per lo meno dopo quanto tempo e quanti sacrifici e umiliazioni. Ma evidentemente più che riferirsi alla storia voleva sottolineare, giustamente, il dovere dell’Italia di oggi di accogliere e integrare gli immigrati che vi stanno giungendo, sempre più numerosi.
Può essere utile, tuttavia, ricordare come è avvenuta o non è avvenuta l’integrazione scolastica degli allievi italiani in Svizzera quando qui giungevano in età prescolastica o scolastica. Mi riferisco soprattutto agli anni Settanta e Ottanta.
In quegli anni, le cosiddette «classi speciali» erano temute e odiate soprattutto dagli italiani, che ragionavano come tanti politici italiani di oggi. Le consideravano semplicemente discriminatorie e umilianti. Colpa di non pochi errori commessi dalle istituzioni, ma colpa anche della scarsa informazione al riguardo dei genitori. Quelle classi, infatti, erano state pensate e realizzate, non per condannare i bambini che non conoscevano la lingua del posto (soprattutto nell’area tedesca della Svizzera), ma per consentire loro, magari con un anno di ritardo, di proseguire il percorso normale della scolarità obbligatoria. Se le autorità svizzere li avessero voluti davvero condannare o discriminare, avrebbero potuto lasciarli a scaldare gli ultimi banchi di scuola fino al termine dell’obbligo scolastico.
Molti genitori italiani, piuttosto che mandare i loro figli alle “scuole speciali” preferivano farli crescere in Italia presso nonni, zii o in qualcuno dei numerosi collegi che erano sorti nelle province lombarde di confine. Per moltissimi di questi bambini l’esperienza è stata traumatica sia durante che dopo. Al momento della formazione professionale non erano in grado di seguirne alcuna perché non conoscevano sufficientemente la lingua dei corsi. A maggior ragione non avevano alcuna possibilità di proseguire gli studi. Non restava che andare subito a lavorare… come manovali. Che cosa Walter Veltroni definirebbe «intollerabile», l’offerta di quelle istituzioni o la scelta di quei genitori? E secondo Epifani e Diliberto, è più «apartheid» la frequenza temporanea di una classe «d’inserimento» o relegare un mancato meccanico o impiegato nella categoria dei manovali a tempo indeterminato?
La scuola è una cosa seria e bisogna prenderla sul serio fin dall’inizio, dalla prima elementare, anzi dalle classi dell’asilo. In Italia invece è divenuta oggetto di scontro ideologico. La scuola è considerata da molti una specie di fabbrica di buoni cittadini tutti uguali, una sorta di istituto di omologazione. Dalla porta spalancata della scuola si entra magari disuguali, ma se ne esce, per un misterioso meccanismo, tutti uguali. Illusione!
Credo che la mozione Cota meriti molta attenzione, perché cerca di riportare il problema alla sua dimensione reale. La scuola non rende tutti uguali, anzi crea, deve creare disuguaglianze. La scuola ha il compito non di rendere tutti uguali, ma di mettere tutti in condizione di esprimere il meglio di se stessi. La scuola è egalitaria e democratica, non perché alla fine sono tutti uguali, ma perché all’inizio tutti gli allievi devono avere le stesse possibilità di riuscita. La scuola è una sorta di palestra in cui ci si prepara a correre. E come in una corsa, tutti devono essere allineati sulla striscia di partenza in condizione non solo di arrivare al traguardo, ma di arrivarvi da vincitori.
Non è saggio far correre nello stesso gruppo chi è ben allenato e chi riesce a stento ad arrancare. Questo sì, sarebbe delittuoso e intollerabile perché in nome di un falso principio di un’eguaglianza solo formale si condannerebbe il meno dotato ad essere sconfitto prima ancora della partenza. Questa è la discriminazione da evitare. Per affrontare la gara, è giusta e necessaria una preparazione adeguata.
Capisco tuttavia le preoccupazioni dell’opposizione e non vanno banalizzate. Lo strumento delle classi speciali o meglio delle classi o corsi «d’inserimento» è molto efficace se usato bene, ma può fare anche molti danni se usato male. I rischi maggiori sono legati al fine, alla durata e al controllo. Il fine non può essere che l’integrazione nella scuola normale. La durata dev’essere limitata allo stretto necessario e consentire l’ingresso nel sistema scolastico ordinario in qualsiasi momento. Il controllo, da parte dei servizi scolastici ma anche da parte dei genitori, dev’essere efficace per evitare qualsiasi abuso e lasciare il posto quanto prima ad altre misure di sostegno, non meno necessarie ma di durata più lunga.
Giovanni Longu
Berna,

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