Per l’Italia il vero problema è il debito pubblico
Altro che banche, le faccende di casa nostra di oggi sono ben altre
Tutti attoniti di fronte alla schizofrenia delle Borse, e intenti a tenere monitorate le banche, (quasi) nessuno ha posto attenzione al più grande debito che l’Italia ha, quello pubblico. Eppure, se è vero che uno dei portati strutturali di questa crisi epocale è la fine della “stagione del debito” – inteso come quota eccedente il fisiologico, visto che sarà bene evitare di demonizzare in sé, come invece sta avvenendo, quello che è sempre stato e sempre sarà uno strumento decisivo per lo sviluppo economico – allora se ne deve dedurre che anche per il terzo debito del mondo, peraltro non corrispondente alla terza posizione nella classifica dell’economia mondiale, è suonata la campanella dell’ultimo giro. L’unico che lo ha capito – e gliene va dato atto con enfasi, visto che la patata bollente l’ha in mano prima di tutti lui – è il ministro Tremonti, che nel suo (ottimo) intervento parlamentare di ieri ha detto con chiarezza che “non ci sono alternative al patto di stabilità, e noi quindi lo rispetteremo”, e che per l’Italia “il vero problema è il debito pubblico”.
Non a caso, pur essendosi fatto paladino di un intervento pubblico in economia, Tremonti ha sempre posto la questione in termini europei: che sia un fondo per le infrastrutture, che sia un fondo sovrano o che si tratti dell’immaginato fondo di garanzia per la stabilità del sistema bancario, ha indicato strumenti comunitari di spesa e di investimento, mentre non si è mai sognato di proporre strumenti nazionali. Questo perchè Tremonti sa benissimo che dal lato della finanza pubblica, e in particolare da quello del debito, non c’è più alcun margine di ambiguità con l’Europa. Tanto da ripetere più volte – l’ha fatto anche ieri – di agire in linea di continuità con Padoa-Schioppa. Solo che mentre prima dello tsunami finanziario mondiale il tema era prevalentemente quello dell’azzeramento del deficit entro il 2011 – cosa prevista nella sua Finanziaria triennalizzata – ora si aggiunge e si rende più urgente quello del rientro del debito entro il perimetro del 60% del pil.
E siccome su questo noi abbiamo la coscienza sporca, visto che nei sedici anni che ci separano dal 7 febbraio 1992 quando fu firmato il Trattato di Maastricht abbiamo ridotto il rapporto debito-pil dal 108% di allora al 104% di oggi (ben 0,25 punti percentuali all’anno!) – peraltro già venduto nel frattempo i gioielli di famiglia (con le privatizzazioni) per far cassa – è ragionevole immaginare che i nostri partner della moneta unica non abbiano nessuna intenzione di concederci altro tempo.
D’altra parte, non è un caso che da tempo circolino voci su studi effettuati in altre capitali europee – si parla con insistenza della Bundesbank – che ipotizzano cosa sarebbe l’euro senza l’Italia, così come non è certo una coincidenza che in occasione della crisi finanziaria di questi giorni lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi – indicatore decisivo per misurare l’intensità del “rischio paese” – abbia raggiunto i 92 punti base, un livello mai toccato da quando c’è l’euro. A significare che i mercati scontano una difficoltà italiana proprio sul debito – che fossimo in recessione e che ci saremmo rimasti pure nel 2009 lo si sapeva anche prima, e non è certo la congiuntura del pil ad aver fatto la differenza – tanto da chiedere quasi un punto in più del benchmark tedesco per continuare a sottoscrivere i nostri titoli di Stato. E siccome ormai quasi la metà (45%) del nostro stock di debito è in mano a soggetti esteri, sono certo più loro dei nostri governi a poter influenzare le decisioni da prendere.
Insomma, è comprensibile che in queste ore si osservino con ansia i listini di Borsa e si presti maggiore attenzione alla sorte delle banche – ed è più che mai opportuno che il governo mandi messaggi di rassicurazione (lungi da me fare del moralismo, ma dubito, però, che sapere il premier al Bagaglino a godersi l’avanspettacolo di Apicella rassereni gli italiani) – ma è anche bene che si guardi in faccia la dura realtà che ci aspetta sul terreno della finanza pubblica. Intendo dire che l’Europa ci porrà di fronte ad una secca alternativa: o uscire dall’euro, o fare una manovra straordinaria (e concordata con le due cancellerie che contano) sul debito. Sì, è vero, anche gli altri hanno le loro belle rogne: la Germania che deve salvaguardare il suo sistema bancario, senza il quale cadrebbe l’intero capitalismo renano – non è un caso che la Merkel abbia agito per suo conto, anche a costo di rompere il fronte comunitario e incrinare più di quanto già non fosse l’asse franco-tedesco – la Francia in piena “ansia da prestazione” (da tempo studia come fare del “sistema Italia” un sol boccone), la Spagna che con lo sboom immobiliare ha improvvisamente perso il suo status di paese dinamico.
Ma questo non significa che rinunceranno a metterci con le spalle al muro. Anzi, tanto più la crisi farà emergere individualismi ed egoismi – inevitabili, visto che in questi anni di euro non si è riusciti a costruire l’unità politico-istituzionale del Vecchio Continente – tanto più sarà probabile che all’Italia venga addebitato il fatto di essere stata per troppo tempo “cicala”. E allora non sarà la “minor debolezza” del nostro sistema bancario rispetto a quello degli altri partner europei – che per fortuna in questa circostanza c’è – a salvarci. Anzi, per molti sarà un ulteriore motivo per presentarci un conto ancor più salato. (Terza Repubblica)