Prigionieri in Libano

di Amy K. Rosenthal

Due anni fa Israele era immerso in una guerra contro Hezbollah in Libano. Dopo 34 giorni di combattimento, il 14 luglio 2006, tutto è finito nel “cessate il fuoco” imposto dall’Onu. Ma da allora quella guerra è diventata un’ossessione non solo per il primo ministro Ehud Olmert, ma per l’intero popolo israeliano. La fenomenale vendita in Israele, nell’ultimo anno, del libro “Shvuyim belevanon” (Prigionieri in Libano) di Ofer Shelah – editorialista del Yedioth Ahronoth – e di Yoav Limor, lo attesta. Il libro accende l’interesse dei lettori attraverso numerosi interrogativi come: “Perché l’ex capo delle forze armate israeliane ha esitato a mettere in atto un operazione di terra? Come è possibile che un’operazione organizzata in risposta a un’imboscata tesa da Hezbollah contro una pattuglia di confine si sia trasformata nella guerra più lunga di Israele”? Shelah e Limor tentano di trovare delle risposte in un libro arricchito di dati che vanno dai verbali del governo e dagli incontri militari a “interviste fatte a più di cento persone”, come gli autori scrivono nell’introduzione. Uri Bar-Joseph, che insegna nella facoltà dei rapporti internazionale dell’Università di Haifa, spiega così il successo editoriale: “Fondamentalmente il libro esplora i fattori personali, strutturali e culturali che hanno condotto all’infelice decisione di Olmert, dell'ex Ministro della Difesa Amir Peretz e dell’allora capo dell’esercito Dan Halutz (gli ultimi costretti poi alle dimissioni) e anche la generale mancanza di professionalità”. Shelah ha scritto: “Riteniamo che questa guerra si sia ingrandita […] senza aver preparato l’esercito e senza aver stabilito degli obiettivi. Per colpa di Olmert”. D’altra parte, “lo Stato d’Israele”, dice Bar-Joseph, “ha avuto leader cinici, precipitosi e con poca esperienza, ma i loro consiglieri hanno contribuito a equilibrare queste debolezze”. Come spiegano gli autori, tuttavia, Olmert era circondato da gente che ha fatto peggio di lui, come il ministro della difesa Peretz, che per la sua inesperienza si è fidato raramente dei consiglieri che lavoravano con lui. Chi è stato oggetto delle critiche più dure è l’ex capo delle forze armate Dan Halutz. Come spiegano gli autori, Halutz ha preteso vincere la guerra contando sulle sole forze aeree e, considerando la figuraccia dell’esercito di terra, si può facilmente immaginare perché. Spiega Bar-Joseph: “La debole performance dell’esercito israeliano in Libano è radicata nei continui sforzi, dal settembre del 2000, volti a sopprimere l’intifada palestinese, piuttosto che alla preparazione di una guerra vera e propria”. La più grande 'rivelazione' del libro, comunque, sta nel fatto che la forza militare dell’esercito di Israele non è più quella di una volta. Gli autori citano le unità della Brigata 401, per esempio, che hanno danneggiato i carri Merkava 4 scaricandoli impropriamente dai mezzi corazzati. Non è un segreto che l’esercito israeliano abbia bisogno di rimettersi in sesto. Come ha scritto il Jerusalem Post: “Gli ufficiali sostengono che i problemi sono cresciuti in modo così incontrollato da rendere necessario l’intervento del capo di Stato maggiore dell'Idf – Gabi Ashkenazi – in merito a ogni questione, fin da quando ha preso servizio all’inizio del 2007”. Mentre il destino di Olmert e del suo governo saranno decisi nelle cabine elettorali, il futuro immediato delle forze armate resta nei mani di Ashkenazi, che l’opinione pubblica israeliana spera possa velocemente non solo rinnovare l’esercito, ma anche restituirgli l’immagine di forza e determinazione di cui godeva un tempo. È questa preoccupazione diffusa che spiega il successo di “Shvuyim belevanon”.(laici.it)

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