di Andrea Ermano
Alla base del giudizio sull'essenza di ogni totalitarismo, ma del fascismo in modo particolare, sta una questione attuale, che ci riguarda sempre di più nell'odierna costellazione post-nazionale, caratterizzata da massicci moti migratori: il discrimine tra “persona” e “non-persona”.
E' in corso all'interno del mondo cattolico, ma non solo in esso, una battaglia delle idee che ha come oggetto il fascismo. Una delle maggiori testate cattoliche italiane getta un dubbio in tal senso sul maggior partito italiano, membro influente del Partito Popolare Europeo. Il cattolicissimo sindaco di Roma sottolinea, in tutta risposta, la diversità del fascismo (mussoliniano) rispetto al male assoluto delle persecuzioni razziali (hitleriane). Certo, ci furono ovviamente delle differenze, ma Mussolini e Hitler rimasero alleati fino alla fucilazione del primo cui seguì di qualche giorno il suicidio del secondo.
Qualcuno ha paventato che queste polemiche tra cattolici finiscano per egemonizzare anche l'opposizione. Altri pensano che il dissidio non si comporrà e che la sinistra cattolica veleggia ormai verso forme di fede evangeliche e quindi laicheggianti. Remo Cacitti, formatosi alla Cattolica di Milano e grande studioso di storia protocristiana, ha appena pubblicato con Corrado Augias una Inchiesta sul Cristianesimo nella quale certo non si tace sulla torsione “imperiale” (Costantino e Teodosio) che trasforma il cristianesimo in uno strumento di potere esposto alla deriva totalitaria.
Francamente, non credo che si tratti di un colpo a salve. Penso che il confronto continuerà, probabilmente in modo sempre più esplicito. Perché alla base del giudizio sull'essenza di ogni totalitarismo, ma del fascismo in modo particolare, sta una questione attuale, che ci riguarda sempre di più nell'odierna costellazione post-nazionale, caratterizzata da massicci moti migratori: il discrimine tra “persona” e “non-persona”.
Per comprendere il senso profondo del discrimine tra “persona” e “non-persona” è utile riflettere dapprima sulla classica distinzione tra vita “umana” e vita “nuda”, sulla quale si sta svolgendo un'altra grande battaglia culturale a tutto campo, tra laici e integralisti.
Orbene, la scorsa settimana, in calce alla rubrica “Ipse dixit”, abbiamo rimarcato tra la “nuda” vita e la vita “umana” come una distinzione molto importante, anche allo scopo, dicevamo, di evitare i numerosi sofismi che muovono dalla cosiddetta “difesa della vita”. Basti pensare qui a quanti malati di Aids muoiono in Africa ogni giorno in nome, appunto, della “difesa della (nuda) vita”, in perenne lotta contro il profilattico.
In realtà, se si difende la vita umana e per esempio si approvano i trapianti, si deve allora ammettere il criterio della morte cerebrale. Altrimenti, se si difende la nuda vita (cioè in molti casi la vita artificiale, mostruosamente generata dall'accanimento terapeutico), allora è conseguenziale escludere il criterio della morte cerebrale, ma anche vietare i trapianti, al prezzo tragico e paradossale di condannare molti pazienti alla morte… in nome della “difesa della (nuda) vita”.
Il criterio della morte cerebrale significa che, se l'elettroencefalogramma è piatto e quindi non c'è attività mentale, allora non c'è vita umana. “Pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta”, notava il professor Veronesi la settimana scorsa: “Ebbene, all'autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null'altro”.
Ecco, i difensori della (nuda) vita dovrebbero spiegarci come si possa assimilare la vita umana a quella per esempio di un'ape che succhia del miele. All'ape può essere staccato di netto l'intero addome senza che essa mostri neppure di accorgersene. L'ape continuerà a succhiare il miele, e questi fuoriuscirà dal tronco del corpo mozzato.
Il sottile senso di orrore che proviamo dinanzi a questo resoconto scientifico è forse connesso all'assenza di umanità che la nuda vita proietta su di noi, assenza di sensibilità e percezione, assenza di dolore e piacere, assenza d'intellezione e volontà, di consapevolezza e coscienza, di entusiasmo e di rimorso.
Sulla via della classica distinzione tra la “nuda” vita e la vita “umana”, fin qui tratteggiata, il paesaggio cambia repentinamente nel transito dalla prospettiva bio-etica a quella bio-politica.
Uno dei maggiori filosofi contemporanei, Giorgio Agamben, va imperniando da più di un decennio la propria indagine sugli enigmi della “nuda vita di fronte al potere sovrano”. La riducibilità della persona umana a nuda vita offre al potere un'eccedenza di sovranità fondata sulla possibile revoca dei diritti tale da svuotare le categorie di cittadinanza, democrazia e sovranità popolare, afferma Agamben.
Molte volte nella storia è accaduto che certi diritti fondamentali siano stati revocati ad intere categorie di persone. Il caso classico, come ci ricorda Mario Vegetti nel suo bellissimo studio “Il coltello e lo stilo”, risale al 322 a.C. quando il luogotenente imperiale Antipatro espulse i lavoratori ateniesi dal novero della cittadinanza in quanto dediti alla fatica delle braccia, considerata degna di uno schiavo ma non di un uomo libero. Dopodiché la storia pullula di teorie classificatorie secondo cui gli schiavi possiederebbero un natura sub-umana.
Una volta che il potere abbia avuto la forza di definire “schiavi” degli esseri umani, chi se la sente di escludere che gli schiavi non vengano poi ulteriormente ribatezzati “api”, “formiche” o, al limite, “scarafaggi”. Da questo punto alla privazione d'ogni diritto nella “nuda” vita il passo è breve. Ben si vede bene il tema oltrepassi ogni considerazione, pur doverosa e necessaria, dei problemi bio-etici connessi alla medicina, per investire questioni bio-politiche di portata generale.
Nel suo percorso di ricerca Giorgio Agamben prende le mosse da una categoria del diritto romano arcaico, l'uomo “sacer”. Quest'espressione, che risponde alla valenza negativa della nozione di “sacro” in latino, significa all'incirca: esecrabile, detestabile, maledetto. “Homo sacer” designava una persona non esplicitamente condannata a morte, ma che poteva essere ammazzata da chiunque, senza che tale uccisione fosse considerata dalle autorità un omicidio in senso giuridico.
L'uomo esecrato, il “maledetto”, è la figura giuridica di una vita umana (bios) dichiarata uccidibile, cioè spogliata di ogni sacralità, ridotta a vita nuda (zoe) esposta all'arbitrio sovrano.
Se da un lato, nei grandi incidenti di percorso, chiamiamoli così, del pensiero occidentale, la figura della “pubblica maledizione” fonda l'antropologia del nemico, del barbaro, della donna e dello schiavo, e poi ancora dell'infedele, dell'eretico e della strega, l'apice abissale di tutta la vicenda che Agamben ripercorre “da Aristotele ad Auschwitz” culmina nel campo di sterminio nazista.
E tuttavia il campo di sterminio non si presenta più soltanto come un luogo di morte assoluta, ma anche come sede di un esperimento impensato “in cui i confini fra l'umano e l'inumano si cancellano”.
Attenzione, però, non stiamo disquisendo di cose avvenute sessant'anni fa, che alcuni vorrebbero dichiarare morte e sepolte: il Lager nazista – insiste Agamben – si ripresenta sempre più “come il paradigma biopolitico nascosto della modernità”. E ogni tentativo di ripensare lo spazio della polis – tanto più nell'epoca della globalizzziazione e della sfida cosmopolitica – pone la necessità di ricomprendere la distinzione classica tra vita umana e vita nuda. – (1. continua)