Nel precedente articolo si è delineato a grandi linee l'evolversi dell'industria cinematografica fascista, ponendo l'ac¬cento sui generi più diffusi e sulla politica protezionistica inaugurata dal regime. L'autarchia produttiva e artistica che il dirigismo fascista aveva imposto nel Ventennio ha avuto se non altro il merito di dar vita a un'industria forte e affermata, ma ha altresì frustrato le velleità eminentemente artistiche di quei regi¬sti che pur avendo qualcosa di nuovo da dire si trovavano costretti a tacere o a sottostare ai dettami di partito. Come si e visto la richiesta e il consumo di pellicole sono stati anche nei primi anni del conflitto sostenuti, alimentati da una produzione continua ricca di titoli. All'indomani dello sbarco alleato in Sicilia (10 luglio 1943) e del successivo arresto del Duce (25 luglio) con conseguente firma dell'armistizio (8 settembre), le cose mutano pero radicalmente. Il paese, infatti, si trova ben presto spezzato geograficamente e politicamente in due: da una parte gli Alleati che risalgono progressivamente da sud con l'appoggio delle formazioni partigiane, dall'altra i Tedeschi, spalleggiati dai fascisti che non hanno rotto con l'esperienza mussoli¬niana, che indietreggiano fino ad attestarsi sulla Linea Gotica. E' in questo clima che a Salo il Duce, dopo la sua liberazione da parte dei tedeschi, fonda la Repubblica Sociale Italiana (RSI) ed e altresì in questo quadro che anche il cinema abbandona, assieme ai gerarchi, Roma per la laguna di Venezia. Cinecittà e' ribattezzata “Cineisola” e i film prodotti sono 22. Gran parte di questi sono cinegiornali, qualcuno come Aeroporto di P.Costa indulge invece ancora nella propaganda. Lontana parente degli sfarzi prebellici, la scialba cinematografia della RSI e già il preludio della successiva disfatta. Nel 1945, al termine della guerra, l'industria italiana in generale e quella cinematografica in particolare e in ginocchio. Cinecittà, bombardata dagli Alleati, e' utilizzata come campo profughi e le maestranze sono disperse. Ciononostante, con grande spirito di rivalsa, il paese cerca di rinascere. Solo nel 1945, con mezzi di fortuna e tra mille peripezie, i film prodotti sono 25. Negli anni successivi, mentre inizialmente si respira un'aria di grande libertà ed effervescenza, la realizzazione di pellicole aumenta in maniera costante: 62 nel 1946; 67 nel 1947; 54 nel 1948; 94 nel 1949, fino a toccare il picco nel 1954 con 201 film. Anche qui le cifre danno il tono della situazione e dimostrano come durante tutto il periodo della ricostru¬zione il cinema, trasformato in una sorta di branca dell'economia catalizzi parte dei capitali via via disponibili. In nessuna nazione europea toccata dal conflitto, nemmeno in quelle in cui da subito si adotta una politica protezionistica che nel nostro paese verrà intro¬dotta nuovamente solo nel 1949, l'industria cinematografica otterrà gli stessi risultati qualitativi e quantitativi che sono conseguiti in Italia. Non per niente nel 1954, a solo un decennio dalla fine della guerra, l'Italia è dopo gli USA il secondo produttore al mondo di film, mentre diversi registi americani trasferiscono le loro produ¬zioni a Cinecittà (es. Quo Vadis (1951) di MLeRoy). Alla fine della guerra il bilancio relativo all’industria cinematografica è, come si è detto, pessimo. Le sale ancora aperte sono circa cinque¬mila, la pellicola scarsissima, l'elettricità distillata col contagocce, i produttori restii agli investimenti. Un primo passo inteso a smuo¬vere le acque si verifica il 5 ottobre 1945 con la revoca del monopolio sul cinema che in tal mondo entra di fatto nel regime di libero mercato. Da questa data alla svolta della legge protezioni¬stica del 1949 il cinema conosce quella stagione di “anarchica” libertà che va sotto il nome di Neorealismo. E' questo il periodo più florido e migliore di forse l'intera storia del cinema italiano ed è sintomatico che questa fertilità di uomini e di idee coincida con una fase di crisi e di rinascita, una fase, cioè, in cui la società è frammentata e i contorni politici e culturali assai labili e poco decifrabili. Quando poi a questa prima fase, in cui la ricostruzione e la ripresa sono affidate ai singoli autori e i produttori sono disgregati e gli esercenti abbracciano la causa del cinema ameri¬cano, tornato a inondare il mercato nostrano, si sostituisce una seconda fase in cui, tramite un sistema legislativo nuovamente protezionistico e furbescamente dirigistico, il cinema neorealista perde la sua carica, il livello qualitativo degrada. La cinematografia che per un quinquennio conosce una notevole emancipazione finisce allora per sposare le ragioni governative per trasformarsi in un investimento produttivo con scarse propensioni per un concetto di “artisticità” sentito come astratto e poco remunerativo. Anche l'evoluzione tecnologica, con la trasformazione degli impianti e delle apparecchiature, l'introduzione del colore e del cinemascope, che pian piano contribuisce a togliere il carattere ruvido e artigia¬nale del primo Neorealismo definisce il processo di omogeneizza¬zione e di uniformazione dei modelli e dei livelli caratteristici della prima fase. All’inizio degli anni Cinquanta il Neorealismo, sia esso inteso come sguardo, esperienza o scuola, è in pratica tramontato e ad esso si è sostituita una cinematografia nazionale ormai assurta a semplice industria produttiva. Come ha ben sintetizzato L.Miccichè a questo riguardo «il cinema della speranza fonda il cinema della rassegnazione e non dissimilmente che altrove, la “politica della ricostruzione” diventa, anche nel cinema, pratica della restaura¬zione». Fenomeno interessante e distintivo della prima fase della ripresa e poi l'affluire di finanziamenti da parte di ambienti direttamente estranei all'industria cinematografica. L'Associazione Nazio¬nale Partigiani d'Italia (ANPI), il Comitato di Liberazione Nazio¬nale (CLN)e il Centro Cattolico Cinematografico (CCC), tramite l'Orbis Film per cui esordi nel 1946 P.Germi con Il testimone, produssero ad esempio diverse pellicole incentrate sugli avveni¬menti bellici. Nonostante la diversa impostazione ideologica il dato rilevante che emerge da questa situazione e l'interesse subito dimo¬strato da queste associazioni, politicamente ben caratterizzate, nei riguardi del cinema. A queste bisogna poi aggiungere tutta una serie di imprese a base artigianale che produssero in genere non più di un film, e quattro o cinque grandi case produttrici con una salda consistenza finanziaria: la Minerva. la Lux, la Scalera, la Titanus, l'Universalia Film. A livello più squisitamente espressivo il cinema della ricostruzione è in buona parte dominato da tematiche relative alla Resistenza che negli anni dell'unita nazio¬nale (1945-46) si dimostra uno straordinario collante politico cultu¬rale. Nei primi due anni di riconquistata libertà si assiste infatti a tutto un fiorire di opere legate alla celebrazione e al consolida¬mento della memoria collettiva. Ancora una volta Roma città aperta e il capostipite cinematografico di questo nuovo flusso che comprende ecumenicamente registi e attori provenienti dalle più disparate aree politiche: vecchi dinosauri del cinema fascista in¬tenti a rifarsi una verginità col nuovo ordine (A Blasetti con Un giorno nella vita (1946), M.Camerini con Due lettere anonime (1945>; sostenitori del Neorealismo (R.Rossellini, V.[)e Sica, G.DeSantis); autori compromessi con la RSI (G.Ferroni con Pian delle stelle (1947). Negli anni dell'unità nazionale e della Costi¬tuente, ben diversamente da quanto avverà in seguito quando il raggiunto assetto politico porterà anche nel cinema a una netta divisione ideologica, quasi tutti i registi, un po' per opportunismo, un po' per credo sincero, girano pellicole che cercano di saldare i conti col passato e di rappacificare al contempo gli spiriti. A ben vedere due sono per6 le anime di questo cinema incentrato sulla Resistenza: una, tendente a documentare quei tragici avvenimenti fornendo un duro giudizio di condanna morale e politica, l'altra, tendente invece alla rappacificazione e alla pronta rimozione. In particolare questa seconda propensione ricevette la spinta del mondo cattolico che ben presto, anche a seguito dell'esclusione dal governo del Partito Comunista nel 1947 e della successiva vittoria democri¬stiana alle elezioni del 1948, iniziò a stigmatizzare quei film che ponevano troppa attenzione alle scene belliche, alla memoria della guerra di Resistenza e alle responsabilità del regime fascista. Prota¬gonisti di questa esacerbata critica al cinema resistenziale in gene¬rale e neorealista in particolare furono principalmente il critico del “Tempo” G.L.Rondi e l'onorevole G.Andreotti che, manifestando censorie e una definitiva condanna dell'impostazione ideale del Neorealismo, inviterà, in riferimento all'uscita sugli schermi di Umberto D. (1952) di V.L DeSica, ad abbracciare «un ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l'umanità a camminare e sperare». Il cinema del secondo dopoguerra non si riduce tuttavia solamente a quello resistenziale e neorealista. Sono in effetti presenti altri filoni più commerciali e di intrattenimento che catalizzano, man mano che la volontà di oblio si sostituisce a quella dì ricordare, le preferenze del pubblico: il comico e il feuilleton. Nel primo, campeggia su tutte la figura di Totò che si fa interprete di farse e parodie girate a ritmo vertiginoso (il Ratto de/le Sabine (1945) di M.Bonnard, Fifa e arena (1948) di M.Mattoli), nel secondo, in cui rientrano le trasposizioni dei classici d'appendice ottocenteschi, bisogna ricordare Il fiacre n. 13 (1948) sempre di Maffoli e La sepolta viva (1948) di G.Brignone. A questi e necessario poi affiancare la riscoperta del melodramma (Il barbiere di Siviglia (1946) e I pagliacci (1949) di M.Costa), dei film in costume (Fabio/a (1949) di A.Blasetti) e, nelle regioni meridionali, delle “sceneggiate” napoletane che ottengono un inatteso successo (Madunneila (1948) di E.Grassi e La figlia dei/a Madonna (1949) di R.Montero).