ovvero quando la realtà supera la fantasia
Del defunto generale di Corpo d’Armata Renzo Apollonio, passato ai posteri come il principale “promotore” della lotta contro i tedeschi a Cefalonia, si è detto tutto e il contrario di tutto sia nell’ambito dell’esercito ove egli fece una brillante carriera per i presunti meriti acquisiti a Cefalonia, che tra i superstiti ed i congiunti dei Caduti, per alcuni dei quali egli fu addirittura un eroe mentre per altri –specie tra i Familiari dei Caduti al corrente dei fatti– egli fu soltanto un militare sedizioso, rimasto impunito, su cui ricadde –in primo luogo- la responsabilità della tragedia, e, successivamente, un “voltagabbana” per essersi addirittura messo al servizio dei tedeschi dopo il massacro da essi compiuto sull’isola.
Indipendentemente da quanto diremo, sulla base, come è nostro costume, di un' inoppugnabile documentazione è indiscutibile che la più grande iattura che potesse capitare al generale Gandin ed alla divisione Acqui, fu il trasferimento a Cefalonia del predetto a pochi giorni dall’armistizio. Se ciò non fosse avvenuto, molto probabilmente tanti militari italiani sarebbero rimasti vivi e tanti, tra genitori, vedove ed orfani, non avrebbero subito un' irreparabile perdita.
Ma veniamo al nostro e leggiamo quanto egli dichiarò al colonnello Giuseppe Moscardelli in relazione agli ultimi momenti dell' impari ed inutile lotta contro i tedeschi: “ (…) Ma anche la mia batteria era ai suoi ultimi sussulti. Avevo l’animo travolto. La coscienza della responsabilità che mi ero assunta rendendomi uno dei più decisi assertori della lotta contro i tedeschi mi impose di compiere l’impossibile. Ad un sottotenente che mi gridò “Tu ci vuoi far massacrare tutti!” puntai contro il mitragliatore e gli ingiunsi di tacere.(…)”. (“CEFALONIA” di Giuseppe Moscardelli Roma 1947)
Egli, dunque, per sua esplicita ammissione, fu uno dei più decisi “assertori della lotta contro i tedeschi” e ciò trovò conferma in altre sue numerosissime dichiarazioni di cui riportiamo una tra le più significative ed impressionanti se si tiene conto che essa fu resa da un Ufficiale transitato dal complemento nei ruoli effettivi dell’esercito proprio nel periodo in cui avvennero i fatti.
Al colonnello Moscardelli, come si legge nel libro “Cefalonia” egli disse: “Passai la notte intera (tra l’11 e il 12 ) in giro fra i vari reparti. Tutti erano pronti. Patrioti greci e soldati accorrevano a me, offrendosi per sopprimere (!) il generale. Mi opposi per varie ragioni. Ma sin da quel momento decisi che bisognava agire senz’altro di iniziativa. Mi tratteneva soltanto il fatto che i due comandanti dei battaglioni di fanteria, il II° del 17° ed il III° del 317°, non erano ancora propensi all’azione”.
Nei battaglioni di fanteria, infatti – sebbene “il fermento tra i soldati crescesse in misura impressionante” – nessun ufficiale, a tutto il giorno 11, aveva ancora preso iniziative contrastanti con gli ordini dei propri comandi” (pag.29).
La lettura di quanto sopra ha dell’incredibile anche e soprattutto per quanto riguarda la “tentata soppressione” del generale Gandin cui però il Nostro – bontà sua! – si “oppose” per “varie ragioni” su cui sarebbe stato interessante che qualcuno –lui vivente- gli avesse chiesto spiegazioni, cosa che però, non avvenne a testimonianza del vergognoso comportamento tenuto –da tutti indistintamente- coloro che avrebbero avuto il dovere di indagare su tali affermazioni.
Lasciando il commento al lettore, ci limitiamo solo a rilevare come, nell’Italia del dopoguerra, si sia raggiunto il massimo della vergogna consentendo ad un neo ufficiale in servizio effettivo, con tali precedenti, di raggiungere il grado di generale di corpo d’armata: i responsabili di ciò –politici e militari- vanno additati al pubblico disprezzo se in Italia esiste ancora un po’ di dignità.
Il predetto, tra l’altro, lamentò la mancata concessione della medaglia d’oro (!) per le “benemerenze” acquisite a Cefalonia e, in merito, dichiarò quanto segue al Pubblico Ministero Militare, dr. Piero Stellacci, che, unitamente al Giudice Istruttore Designato Carlo del Prato lo interrogò il 10 gennaio 1957: “ (…) Faccio infatti, presente, che contemporaneamente alla proposta di promozione v’era una proposta di medaglia d’oro…. La proposta di medaglia d’oro si riferiva all’attività dall’8 al 24 settembre 1943….Si preferì concedermi la promozione, in luogo della medaglia d’oro per non creare alcuna posizione antitetica alla figura del generale Gandin, alla cui memoria era già stata conferita una medaglia d’oro. Pertanto io non ho mai avuto la medaglia d’oro”.
Se, dunque, fu risparmiata all’esercito l’ulteriore onta di concedere a tale personaggio la massima onorificenza al valor militare, in un libro uscito di recente (“Italiani dovete morire”) che ha letteralmente saccheggiato quello del sottoscritto per quanto riguarda l’aspetto giudiziario della vicenda -non altrimenti conoscibile- l’autore, sostenendo una tesi che non esito a definire sacrilega, si è chiesto come mai Apollonio ed i suoi compari non siano stati insigniti “di quella medaglia che meritavano molto più di Gandin e di Gherzi” (!).
Sono lieto di rispondere a questo signore ed a quelli che con lui sono d’accordo, riportando quanto mi ha scritto recentemente il figlio dell’allora Tenente Antonio POTENZA uno dei 37 ufficiali scampati alla fucilazione presso la famigerata casetta rossa. Ecco il testo integrale:
“Ti abbraccio con tanto rispetto e stima. (Posso darti del tu?). Mi dispiace che solo adesso ho scoperto il sito che stai curando con tanta precisione.
Ho ascoltato da bambino la storia di Cefalonia che mi ha raccontato mio padre, e l'avrò ascoltata migliaia volte, e tutte le volte che la raccontava per me era sempre una novità. Mio padre non si stancava mai di raccontarla a
tutti quelli che conosceva e non mancava occasione di ripeterla e di ripeterla….e questo fino ad un paio di anni fa, ora ha dei vaghi ricordi e proprio l'altro giorno quando per la prima volta ho letto il nome di tuo padre gli ho chiesto se lo conosceva, lui mi ha detto di sì e dopo non mi ha saputo dire niente più.
Mi dispiace tanto!! Ma come mai mio padre non è stato contattato da nessuno fino ad oggi?
Forse perchè raccontava la verità? Di Renzo Apollonio ha una pessima stima, e quello che dice sempre:” Quel vigliacco si è tolto i gradi quando ha scatenato il massacro!!!! e si è nascosto per non essere fucilato!!!….. e adesso è stato anche elogiato e fregiato col grado di generale…”.
Purtroppo mio padre ha continuato la sua semplice vita di maestro elementare ed oggi ha 87 anni, ha superato un intervento chirurgico e sta in convalescenza.
Il suo paese natale, San Marco in Lamis in provincia di Foggia, lo ha accolto in modo semplice, e lui ha continuato a svolgere la sua attività superando tanti ostacoli di carattere familiare, sia di salute che di affetti.
Moltissime volte ha tentato invano di pubblicare articoli su Cefalonia e di raccontare il suo miracolo, avuto per mano dell'Arcangelo San Michele, che qui nel Gargano c'è il Santuario.
Ha scritto a tanti giornalisti e cercato di farsi sentire, ma la sua voce non è stata MAI ASCOLTATA, e certe volte è stato deriso e preso quasi in giro….
Se hai la possibilità di trovare la rivista “HISTORIA” n°379 del settembre 1989, ebbene vedrai pubblicato l'unico articolo che papà, dopo tanti sacrifici e pene, ebbe la grandissima soddisfazione di leggere su un giornale (!!) e, tra parentesi, il giornalista lo modificò a suo piacimento e tolse dall'articolo parecchie cose che gli disse mio padre, e così lo fece sembrare come un articolo di giornalino di santuari!!! se non riesci a trovarlo posso spedirti le fotocopie.
Da parte mia c'è tanta rabbia, perchè un superstite non è stato creduto mai, eppure papà non aveva bisogno del “posto”, faceva il suo dovere di insegnante e coltivava il suo hobby preferito la fotografia.
Nel lontano 1974 chiedeva una pensione perchè da un orecchio non ci sentiva più, causato dallo scoppio di una bomba durante il conflitto, e testimoniato dal suo attendente che era ancora vivo e che abitava a Foggia. Riconosciuto il danno sai cosa gli fu risposto? che non dipendeva da cause militari! e poverino ancora una volta gli girarono le spalle!
Ci si sente veramente male, con la rabbia dentro che ti esplode da farti fare veramente qualche sciocchezza, ma papà si è sfogato da solo, ed è stato sempre così.
Ora che speranza c'è, visto che la verità se la girano come vogliono loro?
La molla che mi ha spinto ad interessarmi di questo fatto è stato proprio quando mi sono accorto che papà non poteva difendersi più: Venerdì scorso al mio paese è venuto Caruso Alfio a presentare il suo libro, io vorrei sapere se lo hai letto e che impressione ti ha fatto questo saggio. Questo signore non ha fatto altro che mettere in risalto la
resistenza e l'operato dei partigiani. Io ho registrato tutto il suo discorso e non sono intervenuto proprio per educazione. Ha organizzato tutto per farsi pubblicità al suo libro, e non ha speso nemmeno una parola nei confronti nostri, visto che papà non era potuto presentarsi per motivi di salute, elogiando solo chi secondo lui meritava….
Massimo di dove sei? Io sono di San Marco in Lamis provincia di Foggia, un piccolo paese vicino San Giovanni Rotondo, il paese di Padre Pio, ne avrai sentito parlare certamente.
Questa in poche parole l'esperienza di mio padre, che ha vissuto nella speranza che la verità un giorno venisse a galla e che non si dicessero delle bugie.
Sono veramente contento di averti conosciuto e che almeno ci si possa sfogare un pochino, almeno per noi che questa storia ci interessa più di tutti.
Ti saluto con tanta stima e ti abbraccio fraternamente.
Giuseppe”.
Quanto si è fin qui esposto illustra a sufficienza le responsabilità che l’allora tenente Apollonio ebbe nel contesto dei fatti di cui egli fu, insieme con il collega Pampaloni, uno dei protagonisti principali, ovviamente in negativo.
Il suo ruolo di “deus ex machina” nella cospirazione posta in essere con il concorso di altri personaggi, contro il Comando di Divisione, alimentò, infatti, un clima di sedizione nell’ambito di una parte della truppa, in prevalenza negli artiglieri da essi dipendenti che, pur non essendo sufficiente, di per sè, a coartare il potere decisionale del generale Gandin, ne ostacolò tuttavia, a più riprese, l’operato costringendolo a continui rinvii delle trattative con i tedeschi, permettendo, infine, che il Comando Supremo fuggiasco, ormai al sicuro a Brindisi, trovasse un destinatario da mandare al macello attraverso l’invio – la notte del 13 settembre- dell’ insensato e folle ordine di resistere con le armi all’ex alleato, cui Gandin -visti frustrati i suoi sforzi intesi ad evitare l'impari scontro- dovette obbedire, da ufficiale ligio agli ordini a differenza dei suoi invasati oppositori che con i loro atti di “sovietismo” disonorarono la divisa indegnamente indossata.
Egli, infatti, ostacolato in mille modi dai predetti rivoltosi che si resero autori –nei giorni dall’8 al 14 settembre- di reati passibili di fucilazione sul posto quali, ad esempio, la consegna ai partigiani greci di armi prelevate arbitrariamente dai magazzini dell’artiglieria e di fronte ad un ordine drastico che gli imponeva di resistere “con le armi” alle richieste tedesche di disarmo, pur con la morte nel cuore si conformò ad esso nella speranza che ad un precetto di tal genere seguissero aiuti che permettessero alla “Acqui” di resistere, dei quali, invece, nel corso della lotta non si vide traccia.
Per la verità il Comando Supremo del governo di Badoglio fece sentire la sua voce, ma solo per rispondere negativamente alle disperate richieste di aiuto inoltrate da Gandin e per promettere ricompense –quelle sì ! – a soldati mandati a morire per niente.
Ecco cosa ebbe il coraggio di rispondere il Capo di Stato Maggiore, generale Vittorio Ambrosio, al comandante della “Acqui”, inviato al massacro con la sua divisione da un ordine firmato dal suo vice, gen. Francesco Rossi: “Impossibilità invio aiuti richiesti infliggete nemico più gravi perdite possibili alt Ogni vostro sacrificio sarà ricompensato alt”.
Qualsiasi commento rischierebbe di attenuare l’effetto dirompente di tale messaggio che definire criminale è un puro eufemismo e pertanto ci asteniamo dal farlo.
Tornando invece ad Apollonio, questi, oltre ad essere stato concausa – dal punto di vista obiettivo – della tragedia avvenuta, fu, successivamente, protagonista di altre azioni che di seguito riportiamo con l’ausilio – come è nostra abitudine- di inoppugnabili documenti che non mancheranno di lasciare sbalordito il lettore.
Iniziamo, dunque, tale rassegna partendo da una frase pronunciata dall’allora capitano di complemento Pampaloni, comandante della 1^ batteria del 33^ Artiglieria che tra i suoi meriti di “promotore” della lotta contro i tedeschi annoverò e, forse ricevette la Medaglia d’Argento anche per esso, quello di aver consegnato ai partigiani greci –subito dopo l’8 settembre- le armi del nostro esercito affidate alla sua custodia.
Ciò egli rivendicò con fierezza nel corso di un’intervista, resa il giorno 4 dicembre 1991, allo storico (comunista) tedesco prof. C. Schminck – Gustavus, al quale disse: ” (…) Io avevo dato le nostre armi ai partigiani. Sa, i greci sono molto radicali nei loro sentimenti: o ti odiano o ti adorano. Io, per il fatto di aver consegnato le nostre armi, per loro ero un eroe, un grand’uomo”…..” Nei giorni dopo l’8 settembre svolgevo un servizio di guardia alla polveriera e all’armeria della divisione. Vennero dei partigiani greci e mi chiesero delle armi. Diedi loro dei moschetti e delle munizioni” (“La Divisione Acqui a Cefalonia” Mursia ed. 1993 pag.250).
A tale compiaciuta dichiarazione, il Pampaloni aggiunse l’altra relativa al suo ritorno sull’isola – dopo la partenza indisturbata dei tedeschi- dal continente greco dove aveva fatto parte –con incarichi di rilievo- delle formazioni partigiane comuniste dell’ELAS, dicendo quanto segue:
“(…) Al momento della liberazione a Cefalonia si trovavano ancora circa 900 italiani al servizio dei tedeschi. Questi italiani manovravano le artiglierie per i tedeschi che tenevano l’isola. Appena arrivato sono andato in una di queste batterie italiane per parlare coi soldati, per convincerli di passare dalla nostra parte.(…)” (“La div. Acqui a Cefalonia, pag.255”).
Tale dichiarazione merita quell’approfondimento che gli storici “resistenzialisti” si sono ben guardati dal fare in quanto da esso sarebbe scaturita una verità non solo penosa e miserabile ma, addirittura, in netto contrasto con i loro patetici tentativi di attribuire alla tragedia di Cefalonia il valore di episodio “fondante” della Resistenza, portato avanti negli ultimi tempi, attraverso la canagliesca appropriazione di tanti poveri Martiri.
Dalla consultazione degli inoppugnabili documenti in nostro possesso veniamo, infatti, a conoscenza di alcuni comportamenti dei predetti militari italiani rimasti sull’isola –in primo luogo del tenente, poi capitano Apollonio- dai quali si evince chiaramente la natura di collaborazionismo con gli assassini tedeschi, tenuta dagli stessi, che, se può trovare comprensione per i militari di truppa e per quegli ufficiali che non furono istigatori dell’ insensata lotta contro i tedeschi, è da ritenere addirittura immonda se compiuta –come avvenne- proprio da colui che di tale lotta fece la propria bandiera, cioè l’ex generale di Corpo d’Armata Renzo Apollonio.
Il merito di aver sollevato il coperchio di un vaso così maleodorante spetta proprio all’ex capitano di complemento Pampaloni il quale, il 10 dicembre 1956, durante l’interrogatorio cui fu sottoposto come imputato per i reati di cospirazione, rivolta e insubordinazione, nel processo per i fatti di Cefalonia, fece la seguente dichiarazione, posta a verbale, al Giudice Istruttore Carlo del Prato: “(…) E’ certo che dall’ottobre 1943 in poi l’APOLLONIO passò al servizio dei tedeschi. E ciò fino al settembre 1944. Mi risulta che egli girava con una fascia al braccio dalla scritta “Wermacht” durante tale periodo e difatti egli e i suoi uomini rimasero armati nell’isola: non, dunque, in veste di prigionieri, ma di collaboratori. Egli, al mio ritorno nell’isola, nell’estate del 1944, si giustificava dicendo che quello era il mezzo migliore per mantenere gli uomini in armi e prepararsi alla riscossa”.
A tale sconvolgente dichiarazione vanno aggiunte, poi, le risultanze del Pubblico Ministero Militare, dottor Piero Stellacci, contenute nella sua Requisitoria depositata in Cancelleria il 20 marzo 1957, che, al termine delle indagini istruttorie, scrisse testualmente a pag. 78: (…) “ Il 22 settembre –secondo quel che egli stesso (l’Apollonio) racconta- cadde prigioniero.Il 24 mattina, saltando da una finestra della palazzina nella quale era rinchiuso, si mescolò ai soldati radunati nel sottostante cortile (pure tra i soldati si nasconderanno il Longoni, il Gardenghi e il Gentiluomo). Trovò poi rifugio in un ospedale. Qualche giorno dopo, però, si costituì come ufficiale declinando le complete generalità. E, avendo, il ten. Rademaker, che da più parti viene indicato come uno dei responsabili degli eccidi, richiesto un interprete, fu adibito con tale funzione presso gruppi di prigionieri addetti al recupero di materiali abbandonati. Sottoscrisse anche una dichiarazione con la quale si impegnava a non riprendere le armi contro i tedeschi e andò girando con un bracciale recante la scritta “Deutsche Kommandantur” (con tale fascia lo ricorda il col.Ricci, e di essa parla pure il capitano Pampaloni al quale si deve pure il rilievo che l’Apollonio e i suoi uomini rimasero armati nell’isola: non, dunque, in veste di prigionieri, ma di collaboratori; conferma il Fedeli di aver lavorato per i tedeschi, con molti altri militari italiani, alla costruzione di piazzole di artiglieria sotto il controllo dell’Apollonio, e analogamente depone il Polimeni.”.
Quanto sopra è sufficientemente indicativo del comportamento a dir poco sconcertante dell’Apollonio il quale, ad onta delle disperate invocazioni che –a suo dire- egli rivolse al generale Gandin, durante il rapporto tenutosi il 12 settembre, (“Signor Generale, ci lasci morire sui nostri cannoni”), non solo non morì ma, addirittura divenne collaboratore di quei tedeschi che pochi giorni prima avevano massacrato migliaia di soldati italiani, suoi commilitoni.
Perfino il generale Supino che compilò una Relazione – di cui si dirà più avanti – sul comportamento tenuto dal predetto e –in modo scandaloso- lo scagionò dai pesanti addebiti, non potè esimersi dal rilevare –in un estremo sussulto di onestà intellettuale- come fosse “discutibile l’equità morale del fatto che, mentre tanti vanno a morte, l’Apollonio riesca a sfuggire alle durissime conseguenze dell’atteggiamento di coloro, ed egli è stato dei più accesi tra questi, che hanno con tanta insistenza richiesto di resistere e di combattere”.
C’è da restare allibiti, inoltre, nel constatare che proprio con un personaggio come il tenente Rademaker, che fece vilmente uccidere i soldati italiani rimasti feriti durante il nostro fallito attacco alla postazione tedesca di Capo Munta, l’Apollonio abbia intrattenuto rapporti che potremmo definire se non di cordialità almeno di dimestichezza.
Sempre dalla Requisitoria del Pubblico Ministero apprendiamo che “riconosciuto da due soldati italiani e denunciato ai tedeschi per essere stato fautore della battaglia e per aver sparato contro le motozattere, l’Apollonio subì un’inchiesta, a conclusione della quale avrebbe dovuto essere fucilato, il 28 ottobre 1943”.
Prescindendo da altre considerazioni, è da rilevare che da tali risultanze la pretesa “unanimità di combattere”, tanto cara ai falsificatori della vicenda, risulta smentita clamorosamente, se è vero, come è vero, che l’Apollonio venne denunciato ai tedeschi proprio da quei soldati a nome dei quali egli ed i suoi compari si arrogarono il diritto di parlare. Prosegue la Requisitoria: “Ma in seguito all’intervento a suo favore dei pionieri tedeschi che egli avrebbe salvato da morte il 13 settembre –così sempre l’Apollonio racconta- ricevette dallo stesso Rademaker la comunicazione che tutto si era risolto per il meglio. Sempre al servizio dei tedeschi, e però avvalendosi di un certo grado di libertà, stabilì contatti con l’Elas (organizzazione della resistenza) di Cefalonia e successivamente con una missione militare alleata. Nuovamente denunciato da altri italiani per la sua attività clandestina, se la cavò ancora una volta bene”.
Da quanto sopra si evince chiaramente come l’Apollonio fosse divenuto una specie di “pupillo” del tenente Rademaker, del cui criminale comportamento s’è detto, il quale, oltre ad averlo “assunto” come interprete, gli recò la lieta novella della sua assoluzione, piuttosto strana – in verità – provenendo da chi, come i tedeschi, non esitò ad uccidere per molto meno o addirittura per nulla i nostri soldati. Ciò, verosimilmente, fu la conferma dell’assunzione da parte di Apollonio di incarichi di collaborazione con i tedeschi contraddistinti da “un certo grado di libertà” goduto dallo stesso, su cui soltanto gli ineffabili giudici italiani – di loro iniziativa o perché costretti – sorvolarono.
Il sedicente “prigioniero” Apollonio, dunque, anziché seguire la sorte dei suoi commilitoni e, in particolare, degli altri ufficiali, in massima parte trucidati dai tedeschi, si pose al “servizio” di questi ultimi con modalità ed atteggiamenti ben diversi da quelli di un semplice prigioniero di guerra se è vero –come è vero- che egli esplicò attività ed incarichi incompatibili con il predetto “status” collaborando con i tedeschi in qualità di Comandante degli artiglieri che, sotto la sua direzione, esplicarono attività prettamente militari per l’occupante tedesco.
Egli, in sostanza, fu uno dei non pochi ufficiali sopravvissuti alla strage che volenti o nolenti si arruolarono nelle FF.AA. della R.S.I., venendo dalla stessa Repubblica Fascista annoverati successivamente tra i suoi dipendenti assoggettati, per il loro impiego, all’autorità della Wehrmacht, come, appunto, si verificò per Apollonio. Consultando, infatti, la “Relazione sulla situazione dell’esercito nazionale repubblicano e sue variazioni dal settembre 1943 al 31 dicembre 1944“, presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, si legge, nell’allegato n.2, ad essa aggiunto, (Specchio dei reparti operanti dell’esercito repubblicano dislocati sul fronte balcanico –notizie pervenute a tutto il 31 dicembre 1944/XXIII°), quanto segue:
ARTIGLIERIA : Gruppo Artiglieria Costiera “Cefalonia” composto da 6 Ufficiali e 328 tra sottufficiali e soldati, alle dipendenze del 966° Rgt. Art.Costiera tedesco.
GENIO: Btg.Genio fortificazione composto da 225 tra sottufficiali e uomini di truppa alle dipendenze del 333° Btg. Pionieri costiero tedesco.
SERVIZI: Reparto Sanità formato da 79 sottufficiali e soldati, alle dipendenze del “Feldlazaret” germanico.
Quanto sopra è la riprova evidente che, per quanto riguardò il 33° Reggimento Artiglieria, da cui, ad opera di alcuni Ufficiali ribelli, insubordinati ed incoscienti, si scatenò il putiferio che avrebbe portato alla catastrofe ed al successivo eccidio della “Acqui”, un certo numero di Artiglieri e di Ufficiali superstiti PRESTO’ SERVIZIO ARMATO nel Gruppo di Artiglieria Costiera denominato “Cefalonia”, con Apollonio IN VESTE DI COMANDANTE PER NOMINA DEI TEDESCHI (!) : ciò,ovviamente, in barba alle roboanti affermazioni costellate di accuse al Generale Gandin ed ai suoi collaboratori -incluso il Padre di chi scrive- ACCUSATI DI COMPLICITA’ CON QUEGLI STESSI TEDESCHI DA CUI VENNERO PASSATI PER LE ARMI, MENTRE EGLI, sorvolando disinvoltamente sul motto da lui stesso coniato e continuamente rivendicato (“Sull’arma si cade, ma non si cede”) NE DIVENNE COLLABORATORE (!) INTRATTENENDO RAPPORTI DI CORDIALITA’ ADDIRITTURA CON UN ASSASSINO RICONOSCIUTO DEI NOSTRI SOLDATI, CIOE’ IL TEN. RADEMAKER DI CUI SI E’ DETTO.
Tutto ciò, malgrado gli insabbiamenti diretti a nascondere i lati più oscuri e miserabili della vicenda, non potè essere archiviato con disinvoltura dall' Autorità Militare se è vero –come è vero- che l’Apollonio venne sottoposto ad accertamenti ed indagini dalla prima e dalla terza Sottocommissione accertamenti presso il Ministero della Guerra, dalle quali gli FURONO COMMINATE SANZIONI DISCIPLINARI PROPRIO PER “L’ADESIONE” DA LUI PRESTATA ALLA CAUSA DEI TEDESCHI.
Nella Requisitoria del Pubblico Ministero, depositata al termine del procedimento penale che lo riguardò, si legge in proposito, a pagina 80: “Le indagini si conclusero con il rimprovero comunicatogli (all’Apollonio) dal Gabinetto del Ministero della Guerra in data 31 dicembre 1945: ”Dopo aver partecipato attivamente ai combattimenti svolti contro i tedeschi dalla divisione “Acqui” in Cefalonia dal 12 al 23 settembre 1943, ASSUMEVA SERVIZIO AGLI ORDINI DEI TEDESCHI E SOTTOSCRIVEVA UNA FORMULA DI ADESIONE …
“Ricorse l’Apollonio contro il rimprovero e, per effetto del riesame della pratica da parte della terza Sottocommissione accertamenti ebbe inflitto, in luogo del rimprovero, un richiamo da non iscriversi.
“Il richiamo…….è del seguente tenore: ”ASSERTORE DELLA LOTTA CONTRO I TEDESCHI, dopo aver partecipato…ai combattimenti …SOTTOSCRIVEVA UNA FORMULA DI ADESIONE E ACCETTAVA DI PRESTARE SERVIZIO AGLI ORDINI DEI TEDESCHI al fine di riorganizzare clandestinamente gli italiani superstiti della divisione “Acqui” e riportarli nella lotta di vindice riscossa contro il tedesco.(!!!)”
Se, dunque, l’attività di Apollonio posteriore alla resa venne considerata dalle Autorità Militari alla stregua di un vero e proprio COLLABORAZIONISMO, quasi a volerne mitigare la portata, lo stesso Comando Militare Territoriale di Roma -sezione disciplina- che comminò la sanzione del richiamo, aggiunse: “Riusciva pertanto a organizzare per cellule 1086 soldati italiani che guidava in numerose azioni di sabotaggio e controsabotaggio riscuotendo, infine, dal Quartier Generale alleato del Medio Oriente (Cairo) l’onore di rientrare in Patria al comando del suo reparto composto di 1086 uomini perfettamente armati ed equipaggiati”.
La lettura di tale prosa induce a tristi riflessioni sull’operato di chi si occupò della faccenda, in particolare dell’allora Ministro della Difesa, Casati, che, non potendo negare l’evidenza si attivò tuttavia per attenuare le sconvolgenti conseguenze di quanto accertato a carico di Apollonio attribuendogli meriti di “sabotatore” e di organizzatore di soldati, del tutto privi di fondamento.
E’ evidente, infatti, che LA COLLABORAZIONE CON I TEDESCHI VI FU mentre, invece, le farneticanti affermazioni circa la creazione da parte del “NOSTRO” di un fantomatico Raggruppamento per proseguire la lotta contro i tedeschi -“stando al loro servizio” (!)- fu soltanto una penosa invenzione che, per evidenti pressioni politiche, le Autorità Militari furono costrette ad aggiungere alle sanzioni comminate al predetto, inventando ed attribuendo ad Apollonio ed ai suoi dipendenti, azioni di sabotaggio che assolutamente non vi furono e di cui si fece menzione – continuando ad ingannare il popolo italiano- per ammantare di nobili intenti un’opera di collaborazione con i tedeschi messa in atto –CON IL PRECIPUO SCOPO DI SALVARE LA PELLE- dagli ormai “ex eroici assertori” della lotta e dal loro caporione al quale costoro riservarono, per averli salvati da una brutta fine, imperitura riconoscenza nel dopoguerra, divenendone i più fervidi apologeti, attraverso 'dichiarazioni' scritte dal penoso contenuto, in dispregio delle letali conseguenze provocate dal suo comportamento di cui essi furono in gran parte corresponsabili, avendo, per presuntuosa ignoranza, considerato il 33° Reggimento Artiglieria come un’entità a se stante e non come una componente della Divisione “Acqui” tenuta ad obbedire agli ordini dell’unica autorità avente il diritto di darne, cioè il Generale Gandin.
L' ignobile farsa, però, volge al termine e la Verità è divenuta ormai un fiume in piena , con buona pace di costoro e delle immeritate ricompense loro attribuite da Governi vili e mentitori che relegarono nel limbo dei dimenticati coloro che della vicenda furono i veri Martiri, dal generale Gandin al Padre dello scrivente , alle altre incolpevoli Vittime della scellerataggine altrui.
Non possiamo chiudere l’argomento senza accennare alla penosa “Inchiesta Formale” con cui si intese chiarire “definitivamente” la posizione di Apollonio attraverso una evidente “combine” affidata alla Relazione del gen. di brigata Supino, comandante la fanteria del Comiliter di Roma.
Di essa riferì, sempre nella sua Requisitoria, il Pubblico Ministero, specificando, a pagina 81, gli addebiti mossi all’Apollonio, dei quali detta inchiesta si occupò: vale la pena di riportali per far meglio comprendere al lettore, quanto marciume emerse in quegli anni, riguardo al “NOSTRO”, e come fu spregiudicatamente e immoralmente tolto di mezzo da quello che può ben definirsi il potere politico-militare di stampo mafioso dell’epoca.
La RELAZIONE FINALE del generale Supino prese, dunque, in esame i seguenti addebiti:
“1) avere l’Apollonio esposto fatti non rispondenti a verità, attribuendosi meriti credibilmente inesistenti;
2) avere lo stesso, allo scopo di esaltare il proprio operato, espresso giudizi nei confronti del generale Gandin tali da offuscarne la memoria;
3) avere tentato di indurre il cappellano Formato, incaricato di compilare una relazione, a dichiarare cose inesatte e ad omettere circostanze a lui sfavorevoli;
4) aver collaborato con i tedeschi (era tanto affiatato con essi da riuscire, dopo breve tempo dall’eccidio di Cefalonia, ad essere ammesso come commensale alla mensa di ufficiali tedeschi; accettava due missioni da parte dei tedeschi, una ad Atene per recupero materiale di artiglieria ed un’altra a Belgrado, per motivi rimasti ignoti; sembra che abbia guidato i tedeschi alla sede del comando della Divisione per ricercare dei documenti segreti che riteneva non fossero stati distrutti”.
Dello svolgimento dell’inchiesta poco si sa tranne il finale –ancora una volta riportato nella Requisitoria del P.M. – che, all’insegna del “tutto va ben madama la marchesa”, altro non fu che un’indecoroso imbroglio, tuttora gravante come una macchia indelebile sull’onore del nostro esercito; in data 3 aprile 1950 l’Apollonio ricevette, infatti, la comunicazione dell’esito in questi termini: “Il Ministero Difesa Esercito, sulla base delle risultanze emerse dalla inchiesta formale, ha definito la posizione disciplinare del capitano Apollonio senza provvedimento, annullando la punizione (richiamo da non iscriversi) precedentemente inflittagli”.
Ad onta dunque, delle infamanti accuse rivoltegli e dell’orrore misto a nausea per aver egli addirittura partecipato alla mensa degli ufficiali tedeschi, tra i quali si trovavano coloro che avevano ordinato la fucilazione dei suoi commilitoni (!!!), al generale Supino riuscì la missione –evidentemente ordinatagli- di far apparire come un eroe o quasi, un personaggio di tal fatta, attraverso l’incredibile trasformazione del suo operato da quello che veramente fu, cioè di “COLLABORAZIONISMO” con i tedeschi, in “OPERA DI INFILTRAZIONE” presso gli stessi (!).
Una serie di comportamenti che avrebbero squalificato moralmente chiunque li avesse posti in essere, venne, infatti, travisata dalla predetta Relazione in modo talmente scandaloso che riteniamo non abbia pari, nella travagliata storia del nostro Esercito e che, per restare in ambito bellico, trova riscontro solo in talune cronache di eventi partigiani narrati, nel dopoguerra, in modo altrettanto truffaldino.
Ecco quanto, senza pudore né decoro alcuno fu scritto in essa: “Nel periodo predetto (quello posteriore all’eccidio, n.d.a. ), l’ufficiale ha svolto nei confronti dei tedeschi “opera d’infiltrazione”, procedimento caratteristico degli episodi di resistenza passiva contro la forza militare occupante un territorio conquistato che riassume un complesso di attività in parte evidenti, in parte clandestine.
“E’ accertato che sotto la stessa data con la quale iniziava l’“opera d’infiltrazione” l’ufficiale dava origine all’organizzazione clandestina a carattere cellulare degli italiani, organizzazione che doveva condurre a risultati positivi di notevole portata.
“E’ infatti assodato che lo stesso giorno 12 ottobre 1943 l’Apollonio costituiva il primo nucleo (cellula) del “Raggruppamento Banditi Acqui”, con l’approvazione degli organi di agitazione greci appartenenti all’ELAS (“Rel.Fin.pagg.9-11)”.
Con tutto il rispetto per l’estensore, tali parole sembrano essere state scritte dalla penna di un visionario o di uno spudorato imbroglione non essendo il “Raggruppamento Banditi Acqui” mai esistito e la relativa denominazione un’espressione di pura fantasia coniata dopo la partenza INDISTURBATA dei tedeschi –a novembre del 1944- dall’isola di Cefalonia dove, durante la loro occupazione gli italiani rimasti sull’isola ne furono COLLABORATORI ARMATI , dall’ultimo soldato fino ad Apollonio che non si peritò –come sappiamo- di partecipare alla mensa degli ufficiali tedeschi tra i quali sedevano i responsabili del massacro.
Evidentemente lo stomaco del defunto generale di Corpo d’Armata doveva essere, come suol dirsi, di ferro per non trovare nulla di strano in tale sua partecipazione conviviale; d’altronde, parafrasando la frase del don Abbondio di manzoniana memoria, viene spontaneo osservare che “la coscienza se uno non ce l’ha, non se la può dare”.
Che Dio abbia pietà per l’anima sua.
MARZO 2001