I modelli decisionali nella sanità . I casi di Veneto, Toscana, Marche e Puglia

di Letizia Pica

Il sistema sanitario nazionale è il risultato dell’interazione di una complessa articolazione di soggetti, con ruoli e responsabilità molto diversi fra loro.
Se è vero che esiste una gerarchia dei poteri e vi sono ruoli e competenze stabiliti per via normativa, questi non sempre corrispondono in maniera univoca a modelli organizzativi e decisionali.
Una recente indagine condotta dal Censis per la Fondazione Farmafactoring individua, partendo dall’analisi dei rapporti gerarchici nella sanità pubblica locale di quattro regioni italiane, quattro diversi modelli organizzativi e decisionali.

Proprio le regioni, a seguito del decentramento delle responsabilità primarie sulla sanità da parte dello stato centrale, esercitano un’azione di governo sulla programmazione sanitaria che va dall’allocazione delle risorse all’assegnazione degli incentivi fino alla fissazione degli obiettivi.
Quello che Carla Collicelli, responsabile della ricerca “Sanità in controluce” per il Censis, chiama “progressivo disegno regionalista” ha portato all’affermarsi di contesti decisionali molto diversi fra loro.
Oggetto della ricerca sono stati i sistemi sanitari di: Puglia, Toscana, Veneto e Marche nei quali sono stati individuati modelli decisionali e gerarchici, analizzati studiando il modo in cui interagiscono i vari centri di potere.
La configurazione gerarchica prevalente, in tutti i modelli analizzati, vede come preponderante il ruolo del Ministero dell’Economia e della Conferenza Stato Regioni, subito dopo è la Regione l’organo che viene percepito come attore principale della sanità. In questo assetto pesano molto gli aspetti economici: la dispciplina dei flussi economici esercitata dal Ministero dell’Economia è percepita come un'azione di governo più “importante” rispetto a quella del Ministero della Salute; i vincoli economici e tutti questi aspetti rischiano di mortificare la sanità e in parte ci riescono. L’attenzione ai risultati, la valutazione, la misurazione, il che significa poi anche individuare e ridurre gli sprechi, non sono fattori ritenuti determinanti qunado sarebbero l’unico strumento per realizzare efficienza ed efficacia. Quando si guarda ai risultati, alla qualità dei processi solo allora ci si rende conto di quali sono le cose inutili, di quanti soldi si sprecano.
“In tutte le realtà che abbiamo analizzato, una cosa che salta agli occhi – sottolinea Carla Collicelli – è che i fattori di influenza esterna risultano abbastanza deboli: la domanda di servizi, la soddisfazione o il gradimento da parte dei cittadini o delle loro rappresentanze si depositano sul fondo della gerarchia degli elementi decisionali. Sembra che tutti abbiano in testa elementi di carattere istituzionale: esigenze dell’assessorato, obblighi verso il Ministero dell’Economia, però poi cosa desidera la gente, cosa è davvero utile, le verifiche di impatto, la valutazione vengono relegati ad un ruolo molto marginale. Questo in maniera piuttosto trasversale, con alcune differenze: nel Veneto il peso dei “cittadini” scivola all’ultimo posto; in Toscana va un po’ meglio; nelle Marche non vengono neppure citati e invece in Puglia risultano abbastanza considerati.
Questo è un elemento di carattere sociale molto importante che spiega se e come si tiene (o non si tiene) conto del contesto sociale”.

I quattro modelli decisionali : fra verticalizzazione e poliarchia

Rispetto ai modelli decisionali quello della regione Veneto viene definito di “Holding imperfetta”, è stato cioè rilevato un ruolo molto forte della Regione e della Segreteria Regionale rispetto all’ autonomia decisionale dei direttori generali.
Il modello della Toscana prende il nome di “Poliarchico compatto”: in esso agiscono una pluralità di soggetti attraverso un meccanismo decisionale integrato, in cui è forte l’azione regolatoria della Regione.
Nelle Marche si parla di modello “Bipolare”, in cui si realizza un equilibrio tra la Regione ed l’Asur (l’azienda sanitaria unica regionale) rispetto alle scelte da adottare sul territorio.
In Puglia quello che è emerge è la “costruzione dall’alto dell’aziendalizzazione”: è la Regione a spingere le Asl e le Aziende Ospedaliere verso l’acquisizione di maggiori capacità aziendali.
Ma quali sono i fattori endogeni che determinano lo sviluppo o il prevalere di un modello piuttosto che un altro? Come sottolinea la Collicelli “i modelli affondano le radici nelle tradizioni regionalistiche e nella cultura degli specifici contesti. Quando si è dato libero spazio all’autonomia regionale si sono accentuate le spinte alla divergenza che già prima erano presenti. Ad esempio il fatto che in Veneto ci siano relativamente poche strutture private rispetto ad altre regioni ha probabilmente favorito lo sviluppo di quella che abbiamo chiamato “holding imperfetta”, modello che in altre regioni sarebbe stato compromesso dall’ampia diffusione delle strutture private. Allo stesso modo è evidente che in Toscana ci sia una radicata tradizione della cultura civica e politica locale, in cui è fortemente percepito il valore della compartecipazione. Grazie a questo principio la Toscana sta assumendo un ruolo di leader tra le regioni in campo sanitario, basando la propria politica sulla concertazione con i soggetti territoriali diffusi.
Ma qual è o quali sono, ponendo di poter ragionare in questi termini, i modelli che meglio e prima raggiungono gli obiettivi di efficienza e di efficacia, passando per la soddisfazione dei bisogni dell’utenza? Secondo Carla Collicelli “l’efficienza e la qualità dei servizi non dipendono in maniera diretta dai modelli, perché ogni paradigma può essere gestito bene o male, piuttosto i fattori determinanti sono altri: la responsabilità personale; la verifica dei risultati; la considerazione del contesto; la fluidità delle relazioni gerarchiche sono fattori di carattere trasversale che possono rendere positivo o negativo il risultato ottenuto e che non dipendono dal livello gerarchico. In regioni con contesti sanitari estremamente problematici, come il Lazio o la Campania, se si pensa di risolvere le questioni cambiando l’organizzazione dei poteri, l’organigramma o gli aspetti gerarchici probabilmente ci si illude. Non è tanto quello il punto su cui agire, piuttosto la cultura intrinseca dei dirigenti, degli operatori, su cui peraltro ci eravamo molto soffermati nella indagine dello scorso anno che era appunto sulla cultura dell’innovazione delle persone, perché alla fine è quella l’unica cosa che conta. Chi è stato abituato tutta la vita ad obbedire e non riesce a fare altro, non cambierà mai nulla. Ci sono invece individui che pur essendo sottoposti a regole formali le interpretano aggiungendo una motivazione, una spinta in più che spesso è quella che riesce a far funzionare le cose”.

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