Il Minatore di Gilba

Tratto e adattato da : Orazio Pedrazzi, Racconti dell’Italia Lontana, S.E.I. Torino, 1940.

A cura di Ernesto R Milani

Il racconto che propongo oggi è tratto dal libro di Orazio Pedrazzi Racconti dell’Italia lontana pubblicato nel 1940 dalla S.E.I.di Torino. Pedrazzi nato a Travo nel 1889 e morto a Firenze nel 1962 fu deputato, corrispondente di guerra, inviato speciale, ministro plenipotenziario ed ambasciatore. Nei suoi scritti ricorre spesso il tema dell’emigrazione.
Gilba è una frazione di Brossasco in val Gilba, provincia di Cuneo. Non ho trovato traccia di Gilba in Oregon e neanche in alta California, forse un nome di fantasia oppure di qualche campo minerario nato e sparito come spesso accadeva, ma non c’entra niente perché il racconto ha una sua valenza, una sua morale che non ha bisogno di luoghi. Qualche volta ho trovato dei brevi riferimenti a Gilba, ma siccome penso che la maggior parte dei lettori non abbia avuto l’opportunità di leggere il testo completo, lo propongo con molto piacere.
Verso la fine della guerra, nella primavera dl 1918, il Governo italiano mandava agli Stati Uniti sette persone incaricati di raccontare agli emigranti le vicende del paese, di reagire contro la depressione morale che dopo Caporetto aveva colpito i nostri fratelli lontani. Era una missione di propaganda che non doveva limitarsi ad andare a New York, ma doveva spingersi fino alle lontanissime coste dell’Oceano Pacifico a confortare gli emigranti che nel mondo vivendo più lontani di tutti dalla terra natìa.
Partimmo dunque in sette e dopo diciannove giorni di navigazione, per fuggire davanti agli agguati dei sottomarini, riuscimmo ad approdare davanti ai grandi palazzi di Nuova York.
Dopo esserci riposati qualche giorno ci rimettemmo in viaggio perché eravamo appena a mezza strada della meta del nostro itinerario.
-Ma non eravate già in America?-
Sicuro, ma l’America non soltanto Nuova York. La grande città rappresenta per gli Stati Uniti una specie di grandiosa anticamera, perché per arrivare alle ultime regioni di quel grande paese, alla California, all’Oregon,o al Nuovo Messico, c’è altrettanta strada quanta ce n’è per andare dall’Europa a Nuova York, e gli emigrati italiani non si sono fermati tutti nelle grandi città della costa. Sui tre milioni di connazionali che vivono agli Stati Uniti, circa un milione si sono fermati a Nuova York ma gli altri due milioni si sono sparpagliati a poco a poco per tutto il continente. Grossi nuclei si sono fermati nei centri industriali di Pittsburgh, di Filadelfia, di Boston o di Chicago,altri si avventurarono più lontano e scesero nelle miniere delle regioni centrali, si accamparono negli stati dove la vita era primitiva ed occorrevano energie più resistenti che nelle grandi città già sviluppate. Così tra i pionieri che dissodarono i campi attorno ai fiumi del Nord America o che crcarono i filoni di metalli nelle catene dei monti, proprio nel cuore degli Stati Uniti, erano gruppi tenaci e vigorosi di emigrati italiani, che inseguivano la fortuna sugli estremi lembi del vivere civile. Altri, e non pochi,si spinsero ancora più lontano, arrivarono addirittura alle coste dell’Oceano Pacifico dove sorgeva, specialmente in California,una nuova America ricca,giovane, ardente e felice, assai più bella dell’America che guarda verso l’Europa. La California si cominciò a popolare di uomini bianchi quando si sparse per il mondo al notizia che nel letto dei suoi fiumi e nelle viscere dei suoi monti si trovava l’oro. Torme di avventurieri si affrettarono verso il sognato campo delle ricchezze, frugarono terre ed acque, crearono i primi borghi che dovevano diventare in pochi anni fiorenti città.
Pochi italiani erano tra quelli perché i nostri emigrati non si lasciano trasportare dalla febbre dell’oro ma preferiscono dedicarsi ai sani e pazienti lavori della terra. Essi cominciarono ad affollare la California quando fu possibile coltivare le steppe desertiche, iniziare i commerci e le navigazioni che oggi danno tanta ricchezza a quel fortunato paese. Infatti l’oro sparì, ma restò una California ricchissima di campi e di vigneti, fertile di frutta e ortaggi, mentre sulle coste fiorivano le industrie della pesca e dei trasporti. Oggi si può dire che la California sia il più prosperoso paese degli Stati Uniti e che gli italiani sieno i più attivi, abili e potenti cittadini della California.
Così a poco a porogli emigrati dilagarono per tutte le coste che guardano l’Oceano Pacifico, salirono lungo i fiumi nelle foreste millenarie dello stato di Oregon,ebbero un notevole centro di lavoro nella città di Portland ed in quelle di Seattle dalla quale partono ogni anno le lunghe file di navi che vanno alla pesca del salmone nei mari dell’Alaska; quelle navi appartengono in buona parte ad italiani ed hanno equipaggi italiani.
Bella e cara gente, al nostra, anche laggiù. Non so dirvi il piacere che ci faceva percorrere in automobile per ore ed ore i più grandi vigneti del mondo e sapere che appartenevano ad un italiano di Los Angeles, o visitare le sontuose ville e le fattorie degli agricoltori lombardi e genovesi, o guardare gli imponenti edifici della Bank of Italy, una delle colossali banche d’America, opera di bolognesi e di liguri. Ci pareva in certi momenti di non aver navigato attraverso all’Atlantico e di non aver camminato per cinque giorni di seguito in ferrovia, ma di essere in qualche regione della patria che invece, in quel tempo, combatteva la dura battaglia per riavere il suo confine naturale.
Debbo dirvi le accoglienze che questi italiani ci fecero durante il nostro soggiorno? Vi sarà facile immaginarle. Quei mille e mille connazionali all’idea che arrivavano finalmente gli inviati del Governo a dir loro qualche cosa della guerra, e che avrebbero potuto sapere la verità sugli avvenimenti d’Europa erano ricolmi di entusiasmo. Ci accoglievano con una gioia ingenua che faceva bene al cuore, volevano sapere subito tante cose, ci incalzavano di domande e quando parlavamo loro nei teatri o nelle sale, si accalcavano per ascoltarci e sembrava volessero stamparsi in testa tutto quello che dicevamo per ripeterlo ai denigratori della patria che erano tanti.
Mi ricordo che un giorno, a San Francisco, mentre mi accingevo a parlare al teatro Rossigni davanti ad un pubblico strabocchevole composto tutto di italiani, un uomo si alzò dalle poltrone e m disse : -Per favore, ci parli di Caporetto. Noi abbiamo saputo soltanto, dai giornali, che gli italiani sono scappati.-
Aveva ragione; la stampa americana aveva pubblicate le notizie della ritirata di Caporetto come di una fuga generale dell’esercito e gli emigrati erano rimasti avviliti sotto il peso di quella vergogna.
Io allora parlai di Caporetto; e man mano che raccontavo come erano andate le cose, e ricordavo che disastri simili ne avevano avuti gli inglesi ed i francesi, via via che narravo gli episodi di valore, di sacrificio, che illuminarono quelle tragiche giornate, vedevo i volti della folla italiana rasserenarsi come se un incubo fosse sparito dal cuore di tutti.
Dunque non era vero che gli italiani erano stati vili. Non era vero che sull’onore del nostro popolo pesava l’onta di una debolezza senza scusa e senza rimedi. Il popolo si era battuto, decine di migliaia di soldati erano morti per difendere la frontiera ed il paese colpito dalla sciagura si rialzava con mirabile impeto e con disperazione, per fare argine all’invasore.
Che gioia per quella povera gente. Che fremiti di commozione e quante, quante lacrime. Dal palcoscenico, mentre narravo, vedevo la marea degli emigrati fondersi quasi in pianto, nel buono e benefico pianto che consola le anime; quando ebbi finito ed avevo anch’io il cuore in tumulto, il delirio di applausi che divampò per il teatro non andava a me, mi passava accanto senza toccarmi ed andava alla Patria, ancora una volta degna dell’amore e dell’orgoglio dei suoi figliuoli lontani.
Poi partimmo verso il Nord. Dovevamo andare a Portland colla grande linea che costeggia l’Oceano Pacifico ed attraversa un’aspra catena montana. Ci accompagnarono alla stazione in qualche migliaio, accanto al treno erano centinaia di bandiere. Mentre stavamo a scambiare gli ultimi arrivederci, il Console mi trasse in disparte per mostrarmi un telegramma arrivatogli allora da Gilba, villaggio alpestre nascosto nelle montagne che separano lo stato di Oregon da quello della California. Il telegramma pregava la commissione di affacciarsi al terrazzino durante il passaggio dalla stazione di Gilba, dove il treno non fermava ma rallentava appena. Siamo trecento minatori italiani, diceva il telegramma, che facciamo quaranta chilometri a piedi per giungere alla stazione, e ci contentiamo di veder passare la missione del Governo e di sventolare al loro passaggio la bandiera nazionale.
Presi il telegramma col cuore che mi batteva forte. Come non affacciarsi? Facemmo anzi chiedere alle autorità ferroviarie se era possibile far fermare il treno anche un minuto solo, ami regolamenti erano inflessibili. Allora ci facemmo dire a che ora precisa noi saremmo passati dalla stazione di Gilba, e quando fu il momento opportuno ci mettemmo tutti e sette sul largo terrazzino dell’ultimo vagone, in modo da veder bene i trecento italiani che ci attendevano.
Ecco, siamo vicini a Gilba, entriamo in stazione, il treno rallenta quasi a passo d’uomo. Guardiamo con l’ansia di conoscere i bravi minatori che ci vogliono salutare. Ma dove sono? Che non siano arrivati? La stazione è deserta; c’è una persona sola, un giovanetto che agita una bandiera tricolore: Ma, e gli altri? Noi non vediamo che la piccola avanguardia mentre il treno ci porta via. Il giovinetto che ci scorge subito, corre vicino al terrazzino,ci getta un gran mazzo di fiori e comincia a correre dietro il treno agitando la bandiera e gridando con tutta la forza della gola : “Viva l’Italia! Viva il Re!” Gli gridiamo: “E gli altri?”. Egli non risponde, sorride e continua a gridarci evviva e ad agitare il tricolore come un forsennato. E quando il treno sta per uscire dalla stazione e comincia a riprendere la corsa, il piccolo minatore inciampa e rotola lungo disteso colla sua bandiera accanto. Poi mentre si rialza, una voltata della ferrovia ce lo nasconde. Non lo abbiamo veduto più.
Povero piccolo, a vederlo cadere ci aveva fatto l’effetto che lo avessero ferito in guerra. Ma perché così solo? E gli altri?
Raccogliemmo il mazzo di fiori che ci aveva gettati, un mazzo di ginestre e di altri fiori campestri. Insieme c’era una lettera; leggendo avemmo la chiave del mistero. Il giovinetto scriveva così :
“Signori della missione, io vi chiedo scusa se vi ho imbrogliati. Non è vero che a Gilba ci sono trecento minatori italiani. Siamo soltanto in una diecina. Io volevo vedere la missione che veniva dall’Italia; non avevo i soldi per venire a Portland ma volevo vedervi per salutare la Patria. Io sono niente e se avessi telegrafato io solo non mi avreste dato retta, allora ho telegrafato che eravamo trecento per essere sicuro di vedervi. Perdonatemi: ho fatto davvero quaranta chilometri a piedi per venire fino a qui, ma ne avrei fatti anche ottanta colla mia bandiera in spalla. Ora torno contento a Gilba, dove prego perché l’Italia vinca la guerra. Perdonatemi e salutatemi il Re”.
Sotto c’era la firma e l’indirizzo.
Noi ci guardammo in faccia sbalorditi. L’inganno gentile del piccolo minatore raggiungeva una così alta poesia che non sapevamo che cosa dirci. Se avessimo parlato avremmo singhiozzato. Lo rivedevamo correre felice dietro al treno che per lui portava verso al Patria, lo sentivamo ancora urlare gli evviva quasi per mettere nei gridi la sua piccola e fiera anima, lo ricordavamo caduto tra le rotaie mentre la visione della Patria gli sfuggiva inesorabilmente. Ora, certo, sarebbe stato sulla via del ritorno, stanco, pieno di malinconia, e col tricolore al vento.
Ci spartimmo i fiori per averne pochi per uno e quando arrivammo a Portland telegrafammo al piccolo minatore così :” Hai fatto bene perché tu valevi per trecento”.

Ernesto.milani@gmail.com

www.lombardinelmondo.org
Circolo storico della Stampa Lombarda

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