Luca Signorini
Caro Beppe,
la questione degli “immigrati che ci servono, per fare i lavori che gli italiani non vogliono fare più” è una balla. Diciamo, piuttosto, che determinati lavori cosiddetti “umili” hanno subito un tracollo di retribuzione a causa del flusso di immigrati, che negli anni hanno soppiantato gli italiani perché pagati in nero, disposti o costretti ad accettare compensi minori e impossibilitati a far valere qualsiasi forma di diritto sindacale. Il risultato è che la retribuzione di alcuni mestieri è scesa a livelli che non consentono il mantenimento di un tenore di vita ritenuto decoroso dalla società italiana. È da quello che si fugge: da uno stipendio inadeguato, non dall’idea del lavoro umile. Se un domani il campo dell’Information Technology dovesse subire una colossale inflazione guidata magari dall’afflusso di laureati indiani sottopagati, certamente i nostri giovani fuggirebbero anche da quel settore. È evidente che il miglioramento delle condizioni di vita e la crescita culturale ci ha portati a preferire da almeno due generazioni lavori di tipo “intellettuale”, ma liquidare la questione con il ragionamento de “gli immigrati che ci servono per impastare la calce e raccogliere i pomodori” è semplicistico. Di più: mi sembra denotare una forma di razzismo “politically correct”. Perché contiene al suo interno l’implicita convinzione che un popolo immigrante debba essere relegato allo svolgimento delle funzioni più umili del Paese che lo accoglie, mentre i suoi indigeni guardano con distacco dall’alto dei loro appartamenti ben arredati. Preferirei un’immigrazione controllata, che stringesse sui numeri offrendo però alle persone che cercano un futuro in Italia la speranza di trovare una collocazione alla pari con gli altri cittadini italiani, e non mettesse loro in mano una pala e un secchio appena oltrepassata la frontiera.
http://www.corriere.it/solferino/severgnini/08-05-01/09.spm