di Vera Pegna
«Col vostro appassionato contributo possiamo combattere con successo ogni indizio di razzismo, di violenza e di sopraffazione contro i diversi, e innanzitutto ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele». Queste parole pronunciate dal presidente della Repubblica il 25 gennaio 2007 in occasione della celebrazione del “Giorno della memoria” fanno venire in mente chi come Martin Buber, Albert Einstein, o Judah Magnes, criticò invece con forza il progetto sionista e chi se ne dissociò e lo combattè tenacemente come Moshe Menuhin (padre del grande violinista).
In Italia “Il Vessillo israelitico”, portavoce dell’ebraismo emancipato, prendeva posizione contro il sionismo e il Rabbino Eude Lolli dichiarava sul Corriere israelitico: «Ogni idea di nazionalità politica deve essere da noi abbandonata perché non risponde né al sentimento né al bisogno nostro e solo minaccia di farci perdere la giusta via». Sia Menuhin che gli altri ebrei contrari al sionismo erano persone profondamente religiose per le quali il sionismo significava il ritorno a Sion (la collina dove si erge Gerusalemme) per mantenervi vivi i valori essenziali del giudaismo.
Contro il progetto sionista di “Eretz Israel”, il Grande Israele, si espressero altresì degli esponenti politici di comunità ebraiche europee (ricordo che il sionismo politico nasce in Europa in risposta alle persecuzioni che avevano colpito gli ebrei nei secoli) con dichiarazioni di una lungimiranza impressionante. E' il caso di David Alexander, presidente del Consiglio dei parlamentari ebrei britannici e di Claude Montefiore, presidente dell’Associazione anglo-ebraica, i quali, a proposito della dichiarazione del ministro degli esteri Lord Balfour che dava il pieno appoggio del Regno Unito al progetto sionista della creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina, affermano a nome del loro Comitato Congiunto: “Dagli albori della loro emancipazione in Europa, il reinsediamento della comunità ebraica in Terra Santa ha rappresentato per gli ebrei una delle loro preoccupazioni maggiori e hanno sempre coltivato la speranza che il loro impegno potesse rigenerare sulla terra di Palestina una comunità ebraica degna delle loro grandi memorie e fonte di ispirazione spirituale per tutti gli ebrei».
Ciò premesso, però, Alexander e Montefiore spiegano il duplice motivo della loro opposizione: «Il primo riguarda la rivendicazione che sia riconosciuto un carattere nazionale in senso politico agli insediamenti ebraici in Palestina. Se si fosse trattato di una questione prettamente locale, la si sarebbe potuta regolare nel quadro delle esigenze politiche generali legate alla riorganizzazione del paese da parte di un nuovo potere sovrano… Ma la rivendicazione attuale … fa parte integrante di una teoria sionista più ampia la quale considera che tutte le comunità ebraiche del mondo costituiscono un’unica nazionalità priva di una patria (homeless), incapace di identificarsi completamente sul piano sociale e politico con le nazioni in cui vivono, e viene sostenuto che questa nazione senza patria abbia bisogno di disporre sempre di un centro politico e di una patria in Palestina. Con forza e con impegno (protestiamo) contro questa teoria. Gli ebrei emancipati di questo paese si considerano innanzi tutto una comunità religiosa e hanno sempre fondato la loro richiesta di uguaglianza politica con i concittadini di altri credi su tale assunto e sul suo corollario – ovvero che non hanno altre aspirazioni nazionali in senso politico. Considerano il giudaismo un sistema religioso che non ha niente a che fare con il loro status politico e affermano che, in quanto cittadini dello stato nel quale vivono, si identificano pienamente e sinceramente con lo spirito e gli interessi nazionali dei loro paesi. Ne consegue che lo stabilimento in Palestina di una nazionalità ebraica fondata su tale teoria di assenza di una patria ebraica conduce immancabilmente a marchiare gli ebrei come stranieri nei loro paesi natii e a compromettere la loro posizione faticosamente raggiunta di cittadini e sudditi di quei paesi. Inoltre, una nazionalità politica ebraica portata alla sua conclusione logica non è altro, nelle attuali circostanze mondiali, che un anacronismo. Essendo la religione ebraica la sola prova certa di ebraicità, la nazionalità ebraica si dovrà fondare sulla religione ed essere da questa circoscritta. E' inconcepibile supporre per un solo istante che qualsiasi gruppo di ebrei possa volere un commonwealth governato da prove religiose e limitativo della libertà di coscienza; ma può una nazionalità religiosa esprimersi in qualsivoglia altro modo? La sola alternativa sarebbe una nazionalità ebraica secolare, reclutata in base a qualche vago e oscuro principio di razza o di particolarità etnografica; ma ciò non sarebbe ebraico in nessun senso spirituale e il suo insediamento in Palestina sarebbe la negazione di tutti gli ideali e di tutte le speranze grazie ai quali la rinascita di una vita ebraica in quel paese alimenta la coscienza ebraica e la simpatia verso gli ebrei… Il secondo punto del programma sionista che ha suscitato le apprensioni del Comitato congiunto riguarda la proposta di attribuire ai coloni ebrei in Palestina determinati diritti speciali in aggiunta a quelli di cui gode il resto della popolazione; …non è certo auspicabile che degli ebrei richiedano o accettino tale concessione basata su privilegi politici e preferenze economiche. Questa situazione si tradurrebbe in una vera e propria calamità per tutti gli ebrei. Nei paesi nei quali vivono per essi è vitale il principio di uguali diritti per tutte le comunità religiose. Qualora in Palestina dessero l’esempio di trascurare questo principio si dimostrerebbero colpevoli di averci fatto ricorso per ragioni puramente egoistiche. Nei paesi dove essi lottano ancora per l’uguaglianza si troverebbero irrimediabilmente compromessi, mentre in altri paesi dove questi diritti sono loro garantiti avrebbero grandi difficoltà a difenderli. La proposta è tanto più inammissibile perché gli ebrei sono e probabilmente per molto tempo rimarranno una minoranza della popolazione palestinese e perché verrebbero così coinvolti nelle dispute più aspre con i loro vicini di altre razze e religioni il che ritarderebbe il loro progresso e avrebbe echi deplorevoli in tutto l’Oriente. Né tale schema è necessario per gli stessi sionisti. Se gli ebrei prevarranno in una competizione basata su diritti e possibilità perfettamente uguali, essi stabiliranno la loro preponderanza nel paese nel corso del tempo e lo faranno su una base molto più solida che non su quella resa possibile da privilegi e monopoli».
Eravamo nel 1917. Da allora la storia europea e mediorientale è stata segnata da grandi e orribili eventi: la seconda guerra mondiale, il nazismo che massacrò milioni di polacchi, di russi, di ungheresi, di francesi, di italiani perché di religione o di origine ebraica, ma anche zingari, oppositori politici (comunisti e non), omosessuali, disabili; la cacciata dei palestinesi dalla loro terra ad opera delle formazioni sioniste fra le quali l’Irgun capeggiato da Livni, padre dell’attuale ministro degli esteri israeliano.
Nel 1948 fu proclamata unilateralmente la fondazione dello stato d’Israele che per legge riconosceva a tutti gli ebrei del mondo il “diritto al ritorno” ma rifiutava lo stesso diritto ai palestinesi che vi erano vissuti da sempre, fino a pochi giorni o pochi mesi prima. Dunque il carattere sionista del nuovo stato veniva chiaramente definito dall’inizio. Israele nasceva come stato ebraico e non come lo stato dei cittadini che vi vivevano. E nasceva altresì come stato di tutti gli ebrei del mondo i quali avevano il diritto di stabilirvisi e di ottenerne la cittadinanza. La definizione di chi era ebreo fu delegata ai rabbini i quali sentenziarono che ebreo è chi nasce da madre ebraica, condizione tutt’ora valida per ottenere la cittadinanza israeliana. Le apprensioni dei due esponenti britannici sopra citati venivano così avverate.
Nel 1962 nasce in Israele un partito antisionista, il Matzpen la cui storia e raccontata nel dvd “Zionism or Peace: it’s your choice” e lo si può richiedere all’indirizzo: (aki_orr@netvision.net.il). Uno dei suoi fondatori, Akiva Orr, vive tutt’ora a Tel Aviv e continua la sua battaglia nonostante gli anni e una salute cagionevole. Ma forse l’esponente più autorevole e tenace dell’antisionismo israeliano è stato Israel Shahak, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, professore universitario e presidente della lega israeliana per i diritti dell’uomo. Shahak denunciò le discriminazioni cui erano sottoposti per legge i cittadini palestinesi di Israele spiegando come ciò fosse la conseguenza inevitabile della natura stessa dell’ideologia sionista ispirata al mito biblico del “popolo eletto” e della “terra promessa”. Shahak distingueva nettamente le critiche al sionismo provenienti dall’occidente dall’antisionismo che talvolta copriva un antisemitismo sempre vivo in paesi come la Russia e la Polonia. In quanto all’antisionismo degli arabi e a quello dei palestinesi in particolare, asseriva che altro non era se non la reazione naturale di quelle popolazioni alla fondazione dello stato di Israele nonché al terrorismo sionista che l’aveva preceduta. Non era il solo a pensarla a questo modo.
Lo stesso Moshe Dayan aveva affermato: «Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Ci considerano, con ragione dal loro punto di vista, degli occidentali, degli estranei, degli invasori che si sono impossessati di un paese arabo per trasformarlo in uno stato ebraico».
Due anni fa durante la guerra del Libano il quotidiano israeliano Yediot Aharonot scriveva: «Vincere o morire. Israele deve affrontare una dichiarazione di guerra lanciata da due organizzazioni terroristiche: Hamas, sunnita, a sud, ed Hezbollah, sciita, a nord. Entrambe non riconoscono ad Israele il diritto di esistere; entrambe sono radicate in territori da cui le truppe israeliane si sono ritirate unilateralmente; entrambe sollevano le folle e mettono a dura prova l’esercito e la popolazione israeliani. Se dovessero uscire a testa alta da questa guerra e sventolare il vessillo della vittoria, significherebbe la fine del progetto sionista». Ed è vero poiché tranne il piccolo partito comunista nessun partito o uomo politico israeliano si è mai dissociato dal progetto sionista del Grande Israele, né ha mai dichiarato quali dovessero essere i confini definitivi di questo stato. Anzi va rilevato che parole tanto chiarificatrici quanto pericolose a questo proposito sono state pronunciate da Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri di Israele. Riferendosi a suo padre ha dichiarato: «Sulla lapide della sua tomba si legge: “Qui giace il capo delle operazioni dell'Irgun” e sulla lapide compare anche una mappa del Grande Israele, di cui fanno parte entrambe le sponde della Valle del Giordano. Molti mi chiedono se il compromesso dei Territori non sia contrario all'ideologia di mio padre, e io rispondo che egli mi ha insegnato a credere in un Israele democratico, patria del popolo ebraico, dove tutti possono godere di pari diritti. Sono però giunta alla conclusione che si deve effettuare una scelta e io ho deciso di creare una patria per il popolo ebraico, ma soltanto in una parte della terra di Israele… Israele è nato come patria per il popolo ebraico. Questo dovrebbe essere l'autentico significato anche del futuro Stato palestinese. Dovrebbe essere la risposta per tutti i palestinesi, ovunque essi siano, quelli che vivono nei Territori e quelli che sono trattati come pedine politiche nei campi profughi. In altre parole, quindi, la nascita dello Stato palestinese dovrebbe risolvere quello che i palestinesi chiamano “il diritto al ritorno”».
Dunque il progetto sionista rimane in piedi, leggermente ridimensionato dal punto di vista territoriale ma intatto in suo esclusivismo che preferisco non qualificare. (Come vogliamo chiamare la condizione “ebraica” da soddisfare per diventare cittadini dello “stato ebraico”?) Inoltre il diritto dei profughi al ritorno nelle loro case, sancito dal diritto internazionale, non verrà riconosciuto ai palestinesi che sono stati «messi in condizione di fuggire» come diceva Begin.
In questo scritto ho evitato ogni considerazione riguardante la situazione mediorientale odierna per concentrarmi su ciò che ha significato il sionismo in passato e sull’ostacolo alla composizione del conflitto che continua a costituire oggi anche se, nei 60 anni trascorsi dalla fondazione dello stato d’Israele, sono andati emergendo innumerevoli altri problemi che hanno complicato la realtà. Il principale fra questi è la capacità di resistenza del popolo palestinese che ha preso i sionisti in contropiede; d’altronde il disprezzo dell’occupato da parte dell’occupante che lo considera incapace di anelare alla libertà è una costante della storia. Ho ricordato le voci ebraiche critiche del sionismo, pochissimo note grazie al lavoro paziente e talvolta spietato svolto da ciò che Menuhim chiamava «la macchina sionista che diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori», la quale non esita ad accusare di antisemitismo chiunque (in particolare se di ascendenza ebraica) osi criticare il progetto sionista; accusa talmente infamante da chiudere la bocca ai più. Ed è anche per dimostrare la strumentalità di tale accuse che ho riferito unicamente voci ebraiche critiche del sionismo.
Tuttavia il sionismo non riguarda solamente gli ebrei. Riguarda chiunque abbia a cuore i diritti umani, la legalità internazionale e la pace, ma anche la sicurezza dello stato di Israele, sicurezza che può essere garantita solo ponendo fine alle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal sionismo crudele e da chi lo appoggia e ne copre gli intenti. Il titolo del dvd del Matzpen: “Sionismo o pace, la scelta è vostra” e tutt’ora valido.