Psicologia della cultura. Fattori culturali ed invarianti biologiche

Incontro alla Casa della Cultura Maggio 2004 in occasione della presentazione del libro PSICOLOGIA E CULTURA di Luigi Anolli. Ne discutono insieme all’autore Paolo Legrenzi e Telmo Pievani.

Il volume di Luigi Anolli, Psicologia della cultura, costituisce la prima opera sistematica che affronta in modo innovativo il vasto, affascinante e attuale tema della cultura da un punto di vista psicologico. Un libro che fa il punto sui vari settori della psicologia della cultura, uno degli ambiti più strategici della psicologia perché è la cerniera tra lo studio della mente individuale e le indagini sulle collettività quali culture, tradizioni e costumi. Nel 1954 quando Banfi e Musatti discussero se era possibile attuare una scienza della psicologia, entrambi, ugualmente di tendenze politiche progressiste dell’area di sinistra, valutarono la questione, ma Banfi decise che della psicologia non si poteva realizzare una scienza, perché molto arduo e difficile fare scienza dell’individuo, se non delle sue basi biologiche.
Invece il punto di vista di Musatti era opposto, tale per cui si poteva costruire la psicologia in quanto sapere scientifico. Coloro che hanno manifestato dubbi su tale questione, li hanno molto spesso corroborati proprio con un tema di psicologia della cultura, nel senso che era difficile trovare leggi del comportamento individuale. Il livello di spiegazione del comportamento di una persona doveva essere ancorato al contesto storico, culturale in cui questa persona pensava, agiva, si comportava. Questo era un livello di spiegazione che si poteva affiancare al livello biologico, ossia alla spiegazione delle basi materiali del comportamento, che da sempre era un argomento cardine ed un cavallo di battaglia anche nell’ambito della sinistra.
Se si volesse tornare indietro al dibattito sulle riviste “Società”, “Rinascita” ed altre ancora, troveremmo l’eco di un dibattito che è sullo sfondo del trattato di Anolli, perché la psicologia della cultura cerca di rispondere al quesito: i fattori culturali influenzano i meccanismi psicologici e individuali? Oppure: è legittimo studiare i fattori psicologici individuali sia come processi cognitivi, ma poi nel caso di Musatti e Banfi soprattutto i fattori di tipo clinico, psicanalitico, indipendentemente dal contesto culturale in cui l’individuo agisce? E’ una questione plurisecolare della psicologia. Il punto di vista allora prevalente era che l’uomo tolto dalla sua cultura e collettività risultava astratto, per cui le scoperte, studiandolo, non erano trasferibili fuori dal laboratorio d’azione. Questa contrapposizione in psicologia, che segna tutto il secolo scorso, il Novecento, vede scontri non solo di tipo psicologico, ma anche filosofico, giocati su questo punto saliente: si potevano presupporre delle invarianti del comportamento umano, solo se queste avessero avuto un’origine biologica, ossia i tempi della storia naturale.
Se invece ci si spostava dalla storia naturale a quella culturale, risultava difficile studiare l’individuo isolato dal suo contesto sociale e culturale. Il dibattito atavico su tali questioni: la psicanalisi è una scienza della Vienna di fine 800, o la lettura della mente intrapresa da Freud con vari livelli di consapevolezza? È qualcosa che vale indipendentemente dal contesto studiato da Freud?
Tutti gli studi e i lavori di antropologia si sono scontrati e confrontati con tali punti di vista, per vedere se esistono delle varianti o invarianti che prescindono la cultura e fin dove ci si può spingere nello studio di queste variabili. Il punto di vista degli autori e dei divulgatori in auge negli Stati Uniti, grazie agli studi condotti da Chomsky, è oscillato in altra direzione, portando ad un’assunzione, diffusa anche nella divulgazione culturale italiana, tale per cui le invarianti di origine naturale, persino il linguaggio, grande cavallo di battaglia del relativismo culturale, e le invarianti di natura biologica sono molto più vincolanti di quanto il senso comune non ritenga.
Negli ultimi quindici anni, quando ci si è messi nel dettaglio a studiare queste problematiche, non abbandonando il punto di vista ideologico, ossia il relativismo culturale da un lato, il punto di vista di invarianti biologiche dall’altro, la dimensione di uno storicismo relativistico, a fronte del fatto che l’uomo adulto era il prodotto di tutti gli stimoli, dei meccanismi, dei condizionamenti della sua vita. Quando si sono abbandonati questi punti di vista ideologici che però non erano di puro dibattito filosofico, sono emersi argomenti molto importanti nel secolo scorso, perché l’idea di poter costruire un uomo nuovo era basata sulla deduzione che le invarianti vincolanti la specie umana erano molto modeste. Questo concetto risulta molto forte e pregnante con Pavlov in Unione Sovietica e con Watson negli Stati Uniti: l’idea che l’uomo fosse plasmabile se ovviamente è prodotto del suo contesto storico culturale, per cui se quest’ultimo cambia, muta anche il soggetto.

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