Informazione pubblica e privata

di Tommaso Merlo

Che senso ha un'informazione pubblica non libera o peggio ancora succube del potere? Per i cittadini nessuno, per i potenti invece ne ha molto. L'assurdità sta nel fatto che i potenti usano i soldi dei cittadini per mantenere una cosa che serve solo a loro. Non è quindi che l'informazione serva del potere non debba esistere, siamo in democrazia e tutti hanno diritto di parola, il punto è che se la devono pagare loro. I soldi pubblici devono invece essere spesi per servizi pubblici e non per quelli privati di questa o quella lobby politica. Sta tutta qui la grande ipocrisia del mondo dell'informazione italiota: vendere l'informazione faziosa come bene pubblico per tenerla in vita artificialmente a spese del contribuente.

Le caste giornalistiche mantenute con i soldi pubblici in giornali che non legge nessuno sostengono di non essere parassiti ma di arricchire il panorama politico e culturale nazionale. Peccato che avvenga esattamente l'opposto. I finanziamenti pubblici tengono in vita redazioni che hanno il solo fine di sprecare tonnellate di carta e inchiostro, e di sostenere artificialmente lobby politicamente morte (come dimostrano anche le ultime elezioni). In altre parole, tali caste giornalistiche non rappresentano il panorama politico culturale del paese, ma quello partitocratico da cui dipendono. E contro gli interessi di una democrazia sana, contribuiscono alla loro sopravvivenza.

I finanziamenti pubblici, e quindi la dipendenza dai partiti, ha fatto emergere schiere di giornalisti collusi e vittime del mondo partitocratico. Il risultato è duplice.
Da una parte i potenti, essendo circondati da maggiordomi, possono continuare a nascondere lo sporco sotto il tappeto e sopravvivere a se stessi. Dall'altra i cittadini sono costretti a bersi una realtà filtrata faziosamente da giornalisti compiacenti.
Situazione che alimenta quella bieca faziosità politica che ostacola lo sviluppo politico culturale di una società. I finanziamenti pubblici all'editoria, inoltre, impediscono ai cittadini di selezionare i progetti editoriali migliori e quindi di favorire un ricambio e una dinamicità culturale nella società.

Insomma, oltre ad essere sbagliato, i finanziamenti pubblici all'editoria sono profondamenti dannosi per la democrazia. Se poi un Paese decidesse di avere spazi di servizio pubblico, come dovrebbe essere la Rai, allora che lo siano veramente. In Rai gli spettatori dovrebbero usufruire di un informazione libera e indipendente, dovrebbero contare su giornalisti impegnati a cercare la verità e indaghare senza distinzioni di parte. Su giornalisti che in virtù della loro posizione di privilegio aiutino i cittadini a comprendere fatti e dinamiche complesse senza sconti a nessuno, senza ipocriti filtraggi. E invece da sempre la Rai è una porcilaia partitocratica mantenuta a spese dei contribuenti.

Chissà, forse si tratta di un passaggio evolutivo ancora incompiuto nel mondo dell'informazione, e della democrazia. E cioè la distinzione netta tra giornalista puro e giornalista politicizzato. Due mestieri legittimi ma totalmente diversi. Il primo lavora rispettando alla lettera il codice deontologico e come tale può svolgere un ruolo anche di servizio pubblico (nel caso uno Stato decidesse giustamente di averne uno). Il giornalista politicizzato, invece, decidendo di rappresentare idee e interessi particolari (di partito, di lobby, ecc) rientra nella categoria dell'informazione privata e come tale deve accettare le regole del mercato. Una distinzione destinata ad arricchire culturalmente la società italiana, e la nostra democrazia

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