di Enrico Cisnetto
Tra protezionismo e spinte localiste l’influenza del partito di Bossi sul governo si farà sentire
Dopo l’effetto pendolo che l’infondata attesa del “più grande recupero elettorale della storia repubblicana” e i soliti exit-poll sbagliati hanno generato – con sbrigativi giudizi titolati “la straordinaria vittoria di Berlusconi”, che hanno persino portato qualcuno a parlare di “fase nuova” o addirittura di “Terza Repubblica” – ora finalmente si comincia ad analizzare il voto del 13 e 14 aprile per quello che è: un suicidio per la sinistra, una sostanziale stabilità di Pdl (50 mila voti in meno di Fi+An nel 2006) e Pd (160 mila voti in più dell’Ulivo) – alla faccia dell’irreversibile scelta a favore del bipartitismo – e un marcato successo per i due campioni dell’anti-politica, il Bossi dei fucili e il Di Pietro delle manette.
In particolare, l’attenzione si è spostata sulla Lega, e sull’influenza che essa potrà avere sul profilo e sull’agenda del governo per via del fatto che i suoi 60 deputati e 25 senatori risultano determinanti per fare maggioranza in entrambi i rami del parlamento. Attenzione, questa, che mostra un doppio registro molto pericoloso. Da un lato, sono spuntate come funghi analisi sociologiche da quattro soldi sui sentimenti che animerebbero gli italiani del Nord e sulla capacità della Lega, partito radicato, di intercettarli e rappresentarli. Che poi questo “comune sentire” – descritto come nobile solo perchè vero – sia intriso di chiusure, particolarismi, corporativismi e localismi, e dunque non sia molto diverso, quantomeno dal punto di vista degli effetti, da quello dei “no Tav” di sinistra o dei “tassisti” di destra, poco importa. Dall’altro lato, è subito partita l’altrettanto inaccettabile opera di demonizzazione preventiva, nonostante che nella sua forma di antiberlusconismo tanto danno abbia provocato in chi l’ha praticata (e al Paese) in questi 15 anni.
Una cosa, però, è certa: per il Cavaliere, che credeva di essersi tolto tutti i problemi chiudendo la porta in faccia a Casini e annettendosi Fini, non sarà facile domare un partito “di lotta e di governo” come quello di Bossi. E’ ragionevole pensare che le spinte localiste – poi sciaguratamente aggravate dalla riforma del titolo V della Costituzione da parte del centro-sinistra – si moltiplicheranno, che il protezionismo sarà la cifra della linea economica leghista, che il riassetto istituzionale sia spinto lungo la pericolosa direttrice dell’asse Lombardia-Sicilia, tesa a configurare l’Italia come una somma di regioni a statuto molto speciale. Detto questo, è inutile oltre che scorretto imbarcarsi in un processo alle intenzioni. Vedremo e giudicheremo.
Tuttavia, una cosa mi permetto di suggerire al prossimo presidente del Consiglio, un’idea che mi è venuta in mente ieri mattina ascoltando uno stimolante (di pro e contro) intervento di Giulio Tremonti all’assemblea della Confcooperative. Parlando della crisi dell’Europa, egli ha involontariamente evocato la necessità di un federalismo verso l’alto, teso a unire ciò che è diviso. Il suo era un atto d’accusa per l’esistenza di troppa Europa (quella delle normative burocratiche e invasive) e dunque un mettere le mani avanti – come nel caso dei presunti effetti negativi della globalizzazione – rispetto ai limiti e ai vincoli che avrà il governo in cui si accinge ad essere nuovamente ministro dell’Economia. Ma anche la constatazione – Tremonti è troppo intelligente per limitarsi solo alla parte destruens – di come un parlamento e un governo veri sarebbero necessari per affrontare gli effetti della mondializzazione. Dunque, caro Cavaliere, prenda sul serio – almeno per questo aspetto – il discorso che fa Tremonti, e che in qualche modo rappresenta l’unico “pensiero” di cui la Lega dispone al di fuori delle indubbie capacità tattiche del suo capo e delle “sparate” del resto della truppa. La Lega vuole il federalismo? Bene, ma anziché insistere sul municipalismo sgangherato che in questi anni ha moltiplicato i costi (con la duplicazione delle funzioni) e i diritti di veto (pensi alle infrastrutture bloccate dall’effetto nimby), si sposti sul terreno ben più utile del federalismo europeo. Spieghi perchè ci vuole una politica europea integrata, sia sul fronte della politica estera e di sicurezza, sia su quello della politica economica, industriale ed energetica. E dica che il superamento degli interessi e degli egoismi nazionali non può che esserci solo con la creazione di uno stato europeo federale, sul modello degli Usa. E convinca, caro Presidente, i Sarkozy, i Brown e le Merkel – che tanto e lei non le manca la favella – dell’estrema necessità ed urgenza di questa scelta. In un colpo solo metterà in riga la Lega e riuscirà nel suo intento di passare alla storia.(Terza Repubblica)