SORPRESE AMARE PER I LAVORATORI DAL PROGRAMMA PD

di MASSIMO ROCCELLA

Lavoro, salari, precarietà sembrano apparentemente sempre più al centro delle preoccupazioni dei leaders che si confrontano in questa campagna elettorale. Vale la pena, allora, di provare a scoprire le carte, cercando di capire che cosa si nasconda dietro le vaghe promesse dei comizi elettorali e il linguaggio, spesso ermetico, dei programmi. Sul Corriere del 4 marzo scorso il prof. Francesco Giavazzi ha sollecitato il PD a superare incertezze e ambiguità: per l’egregio bocconiano, infatti, non bisognerebbe perdere l’occasione della campagna elettorale per mettere a fuoco con chiarezza l’obiettivo di “abolire lo Statuto dei lavoratori … tutto, non solo l’articolo 18, e sostituirlo con regole moderne”. Il suggerimento, accolto con molta attenzione dalla destra, ha suscitato qualche reazione dalle parti del PD, che ne era il vero destinatario (si sa, Giavazzi è un liberista di “sinistra”)? Non sembra di ricordarne alcuna: né di dissenso, né di imbarazzo, men che meno di sdegnata ripulsa: come in fondo ci si sarebbe potuto aspettare da un partito che, pur nella sua proclamata equidistanza fra capitale e lavoro, vanta ancora solidi legami con il mondo sindacale. Fatto è che quelle mancate reazioni hanno tutta l’aria di un inconfessabile silenzio-assenso. Il “liberismo di sinistra”, à la Giavazzi, non può infatti essere davvero contestato da un partito che sceglie di candidare, assegnandogli poi un ruolo di rilievo nella messa a punto delle proprie iniziative programmatiche, un giuslavorista, il cui impegno di studioso è stato legato soprattutto al tentativo di argomentare la necessità di liberalizzare il mercato del lavoro, restituendo agli imprenditori il potere di licenziare senza giustificato motivo. Per accontentare il prof. Giavazzi, infatti, la cancellazione dell’art. 18 sarebbe più che sufficiente: essendo ben noto (perlomeno a qualsiasi sindacalista e ai giuslavoristi non formalisti) che senza la protezione offerta dall’art. 18 i lavoratori si troverebbero nell’impossibilità sostanziale di esercitare qualsiasi altro diritto garantito dallo Statuto e i sindacati vedrebbero ridotta al lumicino la propria capacità di operare nei luoghi di lavoro.
Non sono, com’è ovvio, le idee che Pietro Ichino, con tenacia e del tutto legittimamente, da tempo sostiene a rappresentare un problema: il problema piuttosto sta proprio nelle idee del PD. A quanti hanno aderito a questo partito, o pensano di votarlo, ritenendo che si tratti di una forza politica di sinistra, sia pure moderata, o almeno di centro-sinistra, e che cercano di esorcizzare il disagio causato dalla contiguità con posizioni di schietta impronta neo-liberista rifugiandosi in corner (ripetendo a se stessi che “il PD è un grande partito dove convivono posizioni diverse” e che, comunque, “quelle non sono le posizioni ufficiali del PD”), la lettura del programma elettorale del PD è destinata a riservare amare sorprese. Si consideri proprio la questione della flessibilità in uscita (della disciplina dei licenziamenti in parole più comprensibili), che il PD intende affrontare ispirandosi all’idea “europea” della flexicurity. Nel medesimo contesto programmatico, peraltro, ci si ripromette di “riqualificare e ridurre la spesa pubblica”, quantificando l’obiettivo in “mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo”; di raggiungere un “sostanziale pareggio di bilancio”; di procedere ad una graduale riduzione delle aliquote IRPEF (per tutti, senza distinzione fra chi le imposte le paga e chi evade) in misura pari ad “un punto in meno all’anno per tre anni”. Come si concilia quest’insieme di proposte con la prospettiva della flexicurity? La risposta è semplice: non si concilia affatto, dal momento che i documenti ufficiali della Commissione europea (qualcuno dalle parti del PD dovrebbe pur averci dato un’occhiata) non si stancano di ricordare che le politiche di flexicurity sono molto costose e, di conseguenza, comportano necessariamente un rilevante impiego di risorse pubbliche, tanto più ingente per un paese come il nostro, ove la spesa sociale si attesta attualmente su livelli inferiori alla media europea. Si aggiunga che, a meno di non volerla ridurre ad una formula passepartout funzionale a politiche di mera deregolazione del mercato del lavoro, la flexicurity è finanziabile solo in sistemi ove la fedeltà fiscale media è particolarmente elevata e l’imposizione, fortemente progressiva, si spinge sino a fissare aliquote marginali superiori al 50% (come in Danimarca). Può darsi che qualcuna delle teste pensanti del PD, più che all’Europa, abbia pensato di ispirarsi al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Trattandosi peraltro di questioni terrene, che è giusto giudicare con criteri strettamente umani, non si può fare a meno di concludere che nel programma del PD sia stata incorporata, senza farne esplicita menzione, la versione giavazziana del modello danese: una micidiale mistura fatta di tanta flexy e pochissima security. Con quelle indicazioni di politica economica, invero, anziché finanziare la flexicurity, si renderebbe piuttosto inevitabile incidere sulle partite fondamentali del bilancio pubblico (pensioni, stipendi degli addetti alle pubbliche amministrazioni, scuola, università, ricerca, ecc.): il che, del resto, traspare fra le pieghe del programma democratico, ove si allude quasi di sfuggita, come se si trattasse di un dettaglio, alla prospettiva di rimpiazzare il turnover nelle pubbliche amministrazioni in maniera parziale e selettiva (al 50%). Si vuole, insomma, risparmiare sulla spesa per stipendi, diminuendo il numero degli impiegati pubblici: quand’è ben noto che essi sono sicuramente mal distribuiti, ma non sono affatto troppi, risultando anzi il loro numero complessivo assai inferiore a quello dei più sviluppati paesi europei (una voce molto autorevole, ma forse poco ascoltata nel PD, come quella di Franco Bassanini ha, ancora di recente, ricordato che l’ Italia ha un milione e mezzo di dipendenti pubblici in meno rispetto alla Gran Bretagna, due milioni in meno rispetto alla Francia; quanto alla spesa per stipendi, essa è inferiore di quasi 4 punti di PIL rispetto a quella francese, 5 punti in meno rispetto alla Danimarca, 6 punti in meno rispetto alla Svezia).
Il tandem Veltroni-Franceschini, tuttavia, quanto più si avvicina la scadenza di aprile, tanto più insiste sulle questioni della precarietà del lavoro e dell’emergenza salariale: peccato che, per essere creduti, occorra essere credibili oppure sperare nella memoria corta di chi ti ascolta.
Si prenda, ad esempio, la questione dei contratti a termine, nei confronti dei quali il programma del PD leva un grido di dolore, facendo seguire la proposta che “i contratti temporanei dovrebbero essere utilizzati soltanto per prestazioni lavorative veramente a termine, riducendone la durata massima a due anni”. Domanda: che cosa ha impedito al PD di contrastare l’abuso dei contratti a termine nella legislatura che è ormai alle nostre spalle? E’ stata forse la Sinistra (dalla quale il tandem non cessa, ad ogni piè sospinto, di ricordare di essersi felicemente separato) ad impedire il varo di una normativa rigorosa in linea con gli impegni assunti nel programma di governo dell’Unione? O non è forse stato il PD a comportarsi, giorno per giorno, come se quel programma fosse stato scritto con inchiostro simpatico, in particolare imponendo, nel contesto del Protocollo welfare e nonostante l’aperta contrarietà della Cgil, quelle regole che consentono oggi di prolungare l’impiego in forma precaria di un lavoratore, mediamente, per un’ottantina di mesi?
Quanto a quell’altro aspetto della precarietà, costituito dal fenomeno del falso lavoro autonomo, la proposta PD di riconoscere ai lavoratori a progetto un compenso minimo senza incidere sulla loro condizione giuridica (ovvero lasciandoli nella condizione di falsi lavoratori autonomi) si rivela più arretrata persino rispetto alle posizioni che emergono dalla parte più aperta del mondo delle imprese. E’ di pochi giorni fa la richiesta della multinazionale francese Teleperformance (attiva anche in Italia con oltre 3.000 addetti) di superare la ben nota circolare Damiano sui call center (quella che distingue, del tutto artificiosamente, fra lavoratori inbound, che ricevono le telefonate, e lavoratori outbound, che le telefonate le fanno), previo riconoscimento che tutti gli operatori del settore, outbound compresi, sono lavoratori subordinati. La proposta contenuta nel programma della Sinistra l’Arcobaleno va proprio in questa direzione nel momento stesso in cui sostiene la necessità di ricondurre tutto il falso lavoro autonomo all’area di quello subordinato e delle relative tutele. E’ del tutto evidente che proposte del genere non hanno nulla di estremista o di massimalista: purtroppo – spiace doverlo constatare – tanto basta per rendere evidente la distanza che separa il “riformismo” pallido ed esangue del PD dall’impegno per una nuova stagione di diritti sociali e del lavoro, che costituisce il tratto unificante delle proposte della Sinistra l’Arcobaleno.
E che dire della condizione salariale disastrosa di gran parte del lavoro dipendente? Il dato inconfutabile è avvertito anche dai dirigenti del PD: i quali peraltro, programma alla mano, si propongono di farvi fronte incentivando sul piano fiscale la contrattazione di secondo livello: ovvero con un rimedio che per un verso si tradurrebbe in un’indebita forma di pressione su scelte, quali quelle sulla struttura della contrattazione collettiva e i rapporti fra livelli della stessa, che dovrebbero sempre essere lasciate alla più piena autonomia di valutazione dei sindacati; per l’altro, nelle concrete condizioni economico-produttive del nostro paese, comporterebbe, per ragioni fin troppo note, un aumento delle disuguaglianze e un’ulteriore perdita di funzione del sindacato come autorità salariale.
La verità è che, anche grazie a certe dichiarazioni (come quella di Veltroni sull’impegno del PD a correre da solo alle elezioni), il governo Prodi è stato consapevolmente affossato proprio quando, dopo un biennio dominato in maniera pressoché esclusiva dalle politiche di risanamento finanziario, stavano aprendosi spazi per intervenire in maniera più incisiva sulla condizione economica dei lavoratori a reddito fisso. Ancora una volta la politica dei due tempi ha mostrato soltanto il primo: e il PD ne porta la responsabilità primaria, per come ha governato (controllando la gran parte della compagine ministeriale e tutti i dicasteri rilevanti per le scelte di politica economica) e per essersi poi ritratto, correndo verso le elezioni anticipate, nel momento in cui potevano attuarsi scelte di riequilibrio sociale: salvo poi versare in campagna elettorale lacrime di coccodrillo sulla condizione dei lavoratori.
*Giuslavorista, Università di Torino, componente il Comitato promotore di Sinistra Democratica

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