di Enrico Cisnetto
Come direbbe il suo avversario nella corsa a Palazzo Chigi, sulla questione Alitalia Silvio Berlusconi ha ragione “ma anche” torto. Non è certo per cavalcare gli umori e soddisfare gli appetiti del popolo leghista che è necessario salvare Alitalia, anche perché si capisce benissimo che la “battaglia” ingaggiata dal popolo padano è chiaramente pro domo propria.
Serve infatti a salvare Malpensa, che però è stata messa in difficoltà non tanto – o meglio, non solo – dalla nostra compagnia di bandiera, ma a causa di quel “federalismo aeroportuale”, che ha portato alla proliferazioni di una serie di scali nelle zone vicine (solo in Lombardia ve ne sono 4), con il risultato finale di strozzare l’hub del Nord. E in ogni caso la strategia del “doppio hub” era sbagliata sin dall’inizio: se non ce l’hanno la Germania e la Francia – che pure sono realtà superiori all’Italia per quanto riguarda il traffico aereo – perché dovevamo essere in grado di mantenerle noi, due strutture costose come Malpensa e Fiumicino?
Ma, detto questo, l’Italia ha la necessità strategica di avere una compagnia di bandiera forte. Chi, come D’Alema, sostiene invece che “bisogna lasciar fare al mercato”, in un sussulto tardivo di liberismo “scolastico”, dimentica che questo non è un simbolo o un feticcio da difendere a tutti i costi: il ruolo dello Stato nell’economia, da esplicarsi attraverso le scelte di politica industriale e non nella titolarità dei pacchetti azionari di controllo, è quello di inserire elementi di interesse generale laddove il gioco degli interessi privati può nuocere al sistema economico nel suo complesso. Nessun paese serio, nessun paese liberale – Stati Uniti in testa – si affida solo al libero gioco del mercato quando ci sono in ballo gli interessi strategici nazionali.
Nel caso di Alitalia, invece, la politica (bipartisan) ha fatto tutto il contrario di quello che occorreva: ha mantenuto la proprietà ma non si è assunta la responsabilità delle grandi scelte. Come non ricordare la gestione fallimentare del 2001-2006 (con Berlusconi al governo), quando – dopo la crisi generalizzata che ha investito le compagnie in seguito all’11 settembre – si è persa l’occasione per trattare da condizioni di forza quell’alleanza con la stessa Air France cui ora la si vuole svendere? Ed è allo stesso modo difficile dimenticare lo scaricabarile dell’esecutivo Prodi, il quale prima ha sbagliato nello scegliere il sistema dell’asta – in ossequio al formalismo mercatista – e poi ha preteso di lasciare sui manager di Alitalia l’onere di una decisione che doveva invece essere presa dal proprietario delle azioni (cioè il Tesoro) e non dal gestore. Adesso si pretende di sanare gli errori del passato con un salvataggio-svendita travestito da privatizzazione. Due cose ben diverse: a casa mia privatizzare significa vendere al massimo prezzo un asset solido e risanato. Qui, invece, si sceglie il peggior offerente per evitare di fare i conti con una compagnia non più in grado di funzionare (e non da oggi).
Eppure un’Alitalia diversa è possibile: non certo ripianando le perdite senza se e senza ma (cosa tra l’altro non più possibile in sede comunitaria), ma al contrario facendosi carico della necessità che una compagnia italiana, magari inserita in un network internazionale, funzionale agli interessi della prima industria nostrana, il turismo. In più, dopo che lo Stato vi ha investito miliardi di euro negli ultimi anni, l’idea di regalarla ad Air France vorrebbe dire “buttarla via”, visto che finirebbe per essere una “succursale” del più grande vettore mondiale, l’ultima delle province dell’impero franco-olandese. Molto meglio allora l’ipotesi AirOne: non solo per l’italianità, ma anche per la solidità di un piano industriale a lungo termine, e per l’appoggio di un grande partner finanziario come Intesa-Sanpaolo. Una sfida difficile, certo. Ma una delle tante che è necessario affrontare se si vuole seriamente fronteggiare il declino del Paese.(Terza Repubblica)