UNA LEZIONE DI ANTICLERICALISMO

di Filomena Santarella

Era il 4 marzo 1957 quando, pochi mesi prima di morire, Gaetano Salvemini dettò queste parole: «Questo è il mio testamento. Mi dorrebbe se, negli ultimi momenti della mia vita, un oscuramento del mio pensiero permettesse a qualcuno di farmi passare come ritornato a una fede religiosa qualsiasi. Se ammirare e cercare di seguire gli insegnamenti morali di Gesù Cristo, senza curarsi se Gesù Cristo sia stato figlio di Dio o no, o abbia designato dei suoi successori, è essere cristiano, intendo morire da cristiano, come cercai di vivere, senza purtroppo esserci riuscito.

Ma cessai di essere cattolico quando avevo diciotto anni e intendo morire fuori dalla chiesa cattolica, senza equivoci di sorta» (Dal testamento olografo di Gaetano Salvemini, Sorrento 4 marzo 1957). Parole bellissime, di una chiarezza e di un nitore che non dovrebbero lasciare spazio a dubbi di sorta sulla posizione che Salvemini assunse nei confronti della Chiesa cattolica almeno sin dagli inizi del Novecento. Diciamo non dovrebbero, perché c’è stato chi, come Gaetano Quagliariello, tanto ha rimescolato le parole di Salvemini da stravolgerne il significato originario. Quagliariello infatti nel suo saggio Gaetano Salvemini, edito dal Mulino, arriva addirittura a parlare di «presunto (sic!) anticlericalismo di Salvemini» (p. 209), individuando nel 1929 l’anno che «determinò in Salvemini una vera e propria frattura nelle analisi e nei comportamenti fin lì assunti nei confronti dei cattolici» (p. 229).

E Quagliariello argomenta così la sua tesi: «Nella sua personalità rimase sempre centrale il problema morale – declinato in termini sia individuali sia collettivi – al quale fino alla fine egli ritenne che avesse dato una risposta definitiva il messaggio evangelico. Questa permanente convinzione lo spinse a guardare sempre con estrema attenzione al mondo cattolico, deprecando l’anticlericalismo massonico imperante nel Partito socialista, e a farsi osservatore attento, e persino storico, delle vicende del movimento cattolico in Italia e della politica vaticana. Salvemini passò a un anticlericalismo militante soltanto dopo i Patti lateranensi» (p. 10). A leggere Quagliariello Salvemini non fu «un anticlericale impenitente» e il suo anticlericalismo «fu solo il portato obbligatorio della sua opposizione al regime di Mussolini» (p. 209). Sennonché a smentire l’interpretazione di Quagliariello sono ancora una volta le parole di Salvemini. Nel 1951 Salvemini raccolse una serie di saggi sotto il titolo Il programma scolastico dei clericali, in cui spiegava quanto gli insegnanti fossero insidiati dalla «coltura ecclesiastica-dogmatica», poiché per il clericale «esiste solo la certezza che, se non accettate i suoi dogmi, siete un’anima perduta. Essendo sicuro che la sua anima si salverà, si occupa di salvare le anime degli altri, presuntuoso, arrogante, invadente» (Gaetano Salvemini, Il programma scolastico dei clericali, p. XIII). Parole forti, che poco si addicono a un anticlericale di deboli convinzioni e che sono come un colpo secco alle argomentazioni di Quagliariello. Le quali argomentazioni, poi, si sciolgono come neve al sole quando, nella prefazione al medesimo testo Salvemini chiarisce: «Sono scritti vecchi di trenta ed anche più che quarant’anni, meno il secondo che appartiene al 1948: l’ho aggiunto agli altri, quasi che continuasse lo scritto precedente, non solo perché aiuterà, spero, a chiarire meglio il mio pensiero, ma perché dimostra che le posizioni ideali di oggi sono quelle stesse del 1909». Proprio così: «sono quelle stesse del 1909». Dispiace (dispiace per Quagliariello, si capisce) ma l’anticlericalismo di Salvemini affonda le sue radici in anni ben più remoti del 1929. Chi lo dimentica, sbaglia e inganna gli altri (oltre che se stesso).

Per questo, anche per questa incontaminata fedeltà agli ideali della prima giovinezza, anche per questo Gaetano Salvemini ha rappresentato “l’altra Italia”, quella laica e liberale, illuminista e occidentale, dove il rigore morale e la tolleranza, la fede nella libertà e nel laicismo, hanno animato le battaglie per i diritti civili, la critica del costume, il senso della vita e della dignità umana. E proprio la sua rigorosa coscienza morale e la sua concezione tragica della vita come un dovere da assolvere lo avevano spesso reso straniero in un Paese da melodramma come il nostro. La stima di cui aveva goduto, infatti, non di rado era stata accompagnata da un certo fastidio soprattutto di coloro che si sottomettevano al «potere radicato e penetrante, di quel governo segreto, sacerdotale, che conquistava amici ed avversari e tendeva a snervare ogni iniziativa ed ogni resistenza » (Pannunzio). Salvemini invece, non si prostrò mai al potere dominante né mai assecondò la logica dell’interesse personale, anzi soleva ripetere: «Per conto mio, non cederei un solo millimetro di terreno su questo punto, dovessi anche rimanere tutta l’eternità ‘Orazio sol contro Toscana tutta» (Stato e Chiesa in Italia, Feltrinelli, Milano 1969, cit., p. 420). Egli infatti, riteneva che l’Italia avesse bisogno di uomini nuovi forniti di una solida cultura politica e di un’alta coscienza morale, capace di accendere «innanzi agli spiriti perduti nel buio, la fiaccola della giustizia e della verità» (ivi, p. 368); ma soprattutto di uomini che avessero un cuore nobile e puro, poiché «il cuore – ripeteva instancabilmente – è ciò che più importa». E proprio la purezza dei sentimenti e l’alto senso del giusto fecero sì che in lui gli ideali non andassero mai disgiunti dalla dirittura dei comportamenti. Il suo agire intemerato infatti gli impedì sempre di accettare ogni sorta di compromesso.

E riguardo alla condotta di Salvemini c’è un episodio che la dice lunga sulla fermezza delle sue convinzioni. Negli anni Cinquanta quando era vivo il ricordo della disastrosa esperienza fascista, quando inquietava il pericolo dell’avvento di un regime comunista e smisurata era l’ingerenza politica della Chiesa cattolica – i gruppi protestanti, specie quelli minori come i pentecostali o “tremolanti”, non avevano facile vita nel nostro Paese. Sicché di fronte al pericolo imminente di un’alleanza delle moltitudini democristiane col fascismo, c’era chi consigliava a Salvemini di non rendere la vita difficile a personaggi come Scelba e De Gasperi col chiedere loro ciò che la Costituzione certamente garantiva, ma che gerarchie cattoliche in nessun modo erano disposte a tollerare: nientemeno che la propaganda protestante in Italia. «Se fossi un deputato liberale raccomandava un amico a Salvemini – non oserei porre un aut aut per l’adesione al governo del mio gruppo». «Tristissimi tempi – commentava amaramente Salvemini – in cui occorre sacrificare le cose più care, nella speranza di salvare un pochino di libertà» (G. Salvemini, Clericali e laici, Parenti, Firenze 1957, p. 75). Sennonché Salvemini non rivendicava «un po’ di libertà», che poi era una libertà fittizia, apparente, perché menomata nella sua essenza; egli rivendicava la “libertà di tutti”. Ed infatti di ferma coerenza ed esemplare intransigenza fu la sua risposta al consiglio dell’amico:

«Io non riesco a capire che cosa si salverebbe della libertà, se si cominciasse col sacrificare proprio quella cosa più cara, che dovrebbe essere il contenuto della libertà. Dico il diritto non solo nostro, ma anche degli altri: ché se si nega ai ‘tremolanti’ il diritto di tremolare, dove va a finire il mio diritto di non tremolare?» (Clericali e laici, cit., p. 89). Dunque la libertà, la vera libertà, era «la libertà di tutti, specialmente di coloro che la pensano diversamente »; mentre – constatava Salvemini – «la libertà di troppi comunisti (preti rossi) e di troppi clericali (preti neri) è la libertà dei soli comunisti e dei soli clericali di conquistare il governo e allora sopprimere la libertà di tutti gli altri» (Stato e Chiesa in Italia, cit., p. 471). La maggior parte dei liberali, dei repubblicani e dei socialdemocratici, paralizzati dalla paura del comunismo subivano passivamente l’intromissione del Papa negli affari dello Stato, tanto che – come notava sarcasticamente Salvemini «in Italia essere ‘laico’ vuol dire non avere la sottana visibile intorno alle gambe, ma averla intorno al cervello» (ivi, p. 463).

Salvemini dunque avversava la formazione di uno Stato clericale – ossia di uno Stato favorevole all’intervento diretto e/o indiretto del potere ecclesiastico nella vita politica –, ma il suo anticlericalismo non aveva nulla a che vedere con l’anticlericalismo prodecchianomassonico-mussoliniano che discuteva nei comizi l’esistenza di Dio, decapitava le madonne, bastonava i preti e che egli considerò sempre una vergogna dello spirito. «L’anticlericalismo massonico prodecchiano – spiegava –non ha nessun legame logico con l’ideale ‘laico di una società non dominata da nessuna clerocrazia – né vaticanesca, né massonica, né moscovita » (Stato e Chiesa in Italia, cit., p. 468).

Dunque egli non discuteva il «cattolicismo astratto» né la politica cattolica, «quella – cioè che ciascuno può costruire in un sistema teorico, con il solo aiuto della ragione ragionante » (ivi, p. 378), ma la politica dei papi, dei prelati del vaticano, dell’alto clero; insomma contestava la politica ufficiale della Chiesa cattolica, teorizzata dalle supreme autorità ecclesiastiche e scolpita nelle encicliche papali.

Ora, chiediamoci: perché Salvemini non mancò mai di fustigare il potere papale e la politica di quanti lo assecondavano con il loro servilismo? Le ragioni di questa severa critica si trovano spiegate in Clericali e laici, lì dove Salvemini – senza la baldanza degli “Infallibili” né la sterile retorica degli “Azzeccagarbugli” della politica italiana, – affermò l’inconciliabilità della politica ufficiale della Chiesa cattolica con la politica democratica. Intanto –come si diceva in precedenza – egli non acconsentì mai a discorrere di “cattolicismo” poiché detestava le parole che finiscono in ismo quali causa di confusione e di inganno, anzi –come spesso ribadiva – odiava le stesse parole astratte, mentre accettava di discutere di “politica cattolica”. Ora, proprio una analisi “empirica” della questione cattolica esigeva la distinzione tra l’alto clero – fedele sempre e comunque alla politica adottata e teorizzata da tutti i papi – e il basso clero, poiché proprio al basso clero appartenevano coloro (non molti, per la verità) che non approvavano la politica ufficiale della Chiesa cattolica e che qualche volta (qualche volta!) avevano cercato di far prevalere una politica democratica. E tutte quelle volte furono o esplicitamente condannati (Lammenais, Democratici cristiani 1901-1904, Sillon) o slealmente stroncati (don Sturzo) o abilmente pervertiti (Motta). E dunque? Dunque – come notava Salvemini – «l’insegnamento morale impartito dai papi e dall’alto clero sviluppa i lati vili della natura umana, avvezzandola a non sentire le proprie responsabilità, ma a mettere le decisioni finali nelle mani di un sacerdozio, che non dà il consiglio dell’amico, ma dà l’assoluzione o la condanna del giudice». E aggiungeva: «È solo dopo essere vissuto in paesi protestanti, che io ho capito pienamente quale disastro morale sia per il nostro paese non il ‘cattolicismo’ astratto, che comprende 6666 forme di possibili cattolicismi, fra cui quelle di san Francesco e di Gasparone, di Savonarola e di Molina, di santa Caterina e di Alessandro VI, ma quella forma di ‘educazione morale’, che il clero cattolico italiano dà al popolo italiano e che i papi vogliono sia sempre data al popolo italiano».

Se morirò – concludeva con parole di fuoco – avendo distrutto nel cuore di un solo italiano la fede nella Chiesa cattolica, se avrò educato un solo italiano a vedere nella chiesa cattolica la pervertitrice sistematica della dignità umana, non sarò vissuto invano”(ivi, p.381). Questo confronto con le alte gerarchie non solo consentiva a Salvemini di rilevare la pochezza morale del cattolicesimo ufficiale, ma – come nota Norberto Bobbio nel suo Maestri e compagni – gli forniva l’occasione di confermare e di definire meglio gli ideali democratici, come per effetto di contrasto col magistero della Chiesa cattolica. La Chiesa, infatti, riteneva – e tutt’ora ritiene – di detenere essa sola la Verità universale, e riteneva altresì che gli uomini dovessero seguire questa Verità (che conduce alla salvezza); se non vi riuscivano, per incapacità intellettuale o malvagità di animo, toccava agli illuminati dalla grazia celeste impedire loro di cadere vittime delle insidie del Maligno. La Chiesa quindi, spiegava sì le insegne della libertà, ma della libertà intesa come diritto di impedire la diffusione dell’errore; sosteneva dunque la libertà della Chiesa o meglio ancora la libertà dall’Errore. Si dà il caso, però, come spiegava Salvemini che «la libertà dell’errore per chi non è totalitario, è un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino. Libertà, badiamo bene, giuridica, non libertà intellettuale. Intellettualmente nessuno ha il diritto di proclamare la libertà dell’errore: sarebbe come se dicesse che intende liberarsi dalla ragione, che non gli importa quel che è e quel che non è verità; che si sente libero di cambiare opinione ogni volta che vi si trovi un profitto, distinguendo non fra verità ed errore, ma fra proprio utile e proprio danno. Ma chi si riconosce intellettualmente a rifiutare la libertà dell’errore, non passa con questo ad affermare il proprio diritto giuridico a violare negli altri la libertà dell’errore» (Clericali e laici, cit., p. 41). Ne viene che il liberale ha le sue convinzioni e ritiene che le convinzioni opposte alle sue siano false, e non concede ad esse alcun diritto ad essere accettate come vere, ma non si sente autorizzato ad obbligare gli altri ad inghiottire le sue verità. Egli, quindi, difende la tolleranza giuridica ma non necessariamente quella intellettuale (specie, poi, se la tolleranza intellettuale fa schermo all’assenza di credenze ferme e radicate). «La Chiesa invece – sono parole di Salvemini – non consente né la tolleranza intellettuale (e qui coincide con la dottrina liberale) né quella giuridica (e qui si scontra coi liberali)». Ed è un punto, questo della distinzione fra tolleranza giuridica e tolleranza intellettuale, che Salvemini tenne sempre fermo e dal quale non decampò mai.

A farne le spese fu anche l’arcigno cardinale Ottaviani che su “l’Avvenire d’Italia” aveva affermato: «Gli uomini che si sentono nel sicuro possesso della verità e della giustizia non vengono a transazione. Esigono il pieno rispetto dei loro diritti». «Sul terreno ideologico replicava Salvemini – il cardinale ha ragione: nessuno che sia convinto di possedere la verità e la giustizia deve venire a transazione, deve rivendicare il rispetto al proprio diritto di affermare quella verità e quella giustizia. Ma non ha il diritto di mettere il bavaglio agli altri. (…). Quando noi affermiamo che gli stessi diritti di libertà debbono essere rispettati per tutti, affermiamo, senza compromessi, un principio di verità e di giustizia su cui non intendiamo transigere (…). In sede ideologica né noi ab cardinale, né il cardinale di transigere con noi. Ma in sede politica né il cardinale né noi abbiamo alcun diritto di decidere di questioni di religione, di filosofia, poesia, musica, amore, moda, sport, cucina e via dicendo. Perciò tanto il cardinale quanto noi dobbiamo rimanere liberi di pensarla come sappiamo e possiamo, su quei soggetti. Finché il cardinale si limita ad affermare in sede ideologica che noi abbiamo torto, noi non abbiamo nulla da opporre. Guai, però, se pretende affermare anche in sede politica che abbiamo torto, cioè se chiama un carabiniere perché ci metta in prigione. Allora si aspetti di essere combattuto da noi in sede politica senza esclusione di mezzi» (Clericali e laici, cit., p.170). Ma da dove la Chiesa deriva il “diritto” di insignorirsi del potere e di dominare, non solo moralmente ma anche giuridicamente, sulla totalità dei cittadini? Essa fonda tale pretesa sul fatto che il popolo italiano è in maggioranza cattolico. Ma «anche se tutti gli italiani – obiettava Salvemini – fossero cattolici consapevoli, convinti, coerenti e praticanti, e un solo italiano non fosse tale, quell’unico italiano dovrebbe avere di fronte alla legge gli stessi identici diritti dei suoi concittadini cattolici, e non dovrebbero godere di nessun privilegio legale nei suoi confronti». E subito dopo precisava: «Sta inoltre il fatto che solo poco più del 25 per cento della popolazione italiana è cattolica convinta praticante, il resto è più o meno indifferente, anche se si battezza, si posa e in punto di morte mette in regola i passaporti per l’altro mondo secondo il rito cattolico » (Stato e chiesa in Italia, cit., p. 421 e p. 436).

Salvemini insomma, non negava alle autorità ecclesiastiche il diritto di applicare quella tale sanzione “morale” che esse avessero giudicato opportuno, ma negava loro il diritto di irrogare qualunque sanzione “giuridica”: la religione non si impone agli uomini con la forza, ma nasce – quando nasce – spontanea negli animi e si coltiva nel tempo per intima convinzione. In questo senso quello di Salvemini fu veramente «il cristianesimo della libertà per tutti, della giustizia per i deboli e della carità per gli uomini compagni di dolore nella vita» (ivi, p. 368).(Italia Laica)

Da Critica liberale n.145-146

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