Gobetti ci perdoni

dI PAOLO BAGNOLI

Non è certo una novità che, in occasione delle elezioni, i partiti vadano a cercare figure caratterizzanti da mettere in lista. Il partito comunista, per dimostrare la propria capacità di attrazione nella società, per esempio, apriva le proprie liste a candidati che sarebbero stati sicuramente eletti i quali, successivamente, non avrebbero fatto parte dei gruppi parlamentari del Pci, ma avrebbero dato vita ai gruppi della Sinistra Indipendente che, sia detto, annoverava intellettuali di tutto rispetto. Tutti i partiti hanno praticato l’apertura a personalità esterne alle strutture organizzative e portato in Parlamento nomi di rilievo; altra cosa è il risultato dell’operazione, ma questo è un altro discorso. Di cosa si trattava? Semplicemente di dimostrare la capacità attrattiva che questo o quel partito avevano nei confronti di personalità per lo più fino ad allora impegnate in tutt’altro che nella politica; il partito dimostrava che la propria offerta ideologica e programmatica raccoglieva consensi che si riteneva essere, da un lato, fortificanti la proposta complessiva e, dall’altro, capace di drenare nuovo elettorato. Il cardine di tutto il processo, tuttavia, ruotava sulla capacità attrattiva del partito; come replica positiva all’idea d’Italia che questo offriva all’elettorato e, quindi comportava, più o meno esplicitamente, un’adesione identitaria.
Non è quanto avviene oggi. Il reclutamento dei generali, degli operai, degli industriali, degli artigiani – e chi più ne ha più ne metta – non si motiva per l’adesione all’idea del paese che una tale forza politica esprime, ma per far vedere che questa è capace di rappresentare quanto la singola candidatura esprime. Non vige nessun criterio di minimo comun denominatore per cui non c’è da stupirsi se, fra candidati di una medesima lista, si registrano posizioni assolutamente divaricanti e nel vuoto di un pensiero politico compiuto la sintesi spetta solo al leader; il “ma anche” di Veltroni lo dimostra bene. Il luogo di attestazione, vale a dire il partito contenitore, surroga il dato identitario; un vuoto ideologico totale riduce la politica alla sola questione del governo. L’appartenenza smarrita produce quel singolare duetto per cui il Pd, nel caso proprio non piacesse, invita a votare il PdL e viceversa.
Altro che Europa; per quanto ci abbiamo provato non siamo riusciti a trovare nessun paese del mondo ove avvenga una cosa del genere! Tale pratica è stata denominata “voto utile” e certo lo è se si vuol continuare sulla strada della democrazia del nulla. E’ evidente che, una volta al governo, un partito senza identità faticherà a conciliare le spinte presenti al proprio interno; insomma, la democrazia del nulla incuba in sé l’ingovernabilità e, con ciò, la crisi aumenta e con essa la sfiducia e la speranza di farcela a venirne fuori. Chissà se rimpiangeremo i tempi “dei nani e delle ballerine”, per riprendere un’espressione felice di Rino Formica.
La questione, tuttavia, non segna una crisi fisiologica della democrazia italiana, bensì una vera e propria patologia di cui la riduzione della campagna elettorale ad un qualcosa che ha il sapore della kermesse pubblicitaria non è solo un effetto mediatico, ma la sostanza stessa della malridotta politica democratica italiana. Si può, infatti, ritenere che l’Italia possa riprendersi dalle pesanti difficoltà in cui si trova se la politica non esprime un’idea di come essa si rappresenta il Paese? E come si chiama la riflessione sulla rappresentazione del Paese se non ideologia, una parola derivata dal greco ove “idea” significa “rappresentazione”. La tanto sbandierata “politica del fare”, che si erge a frontiera innovativa contro la vecchia politica ideologica, altro non è se non la negazione della politica medesima la quale non può assolvere al proprio compito se non si rappresenta il Paese e, quindi, non assume gli interessi che vuole tutelare e le posizioni che vuole combattere; se non esprime, nel complesso, un’intenzione culturale di ordine generale che permette di affrontare con barra valoriale la criticità del reale e, quindi, l’operatività del fare.
Nessuno contesta che in uno stesso partito possano convivere generali, operai, commercianti, sindacalisti ed industriali, ma se ognuno di essi esprime una sua propria linea politica lo stesso “fare” si troverà dilaniato da spinte diverse visto che il partito – quello democratico nella fattispecie – si vanta di essere post-ideologico essendo nato sul presupposto che il socialismo appartiene al museo della storia e che la sinistra è anch’essa superata. Gli effetti di tutto ciò già si vedono in questi primi giorni di campagna elettorale, ma ciò che deprime il senso comune dell’intelligenza è il ritenere che la politica, di qualunque segno o colore essa sia, possa prescindere da un ragionamento compiuto della realtà su cui deve agire e, quindi, da una ideologia. Ed in effetti ciò che Veltroni offre è una recita continua di problemismo non certo dei problemi. La destra fa eguale anche se appare meno spumeggiante rispetto al passato.
Tale vuoto è ammantato di progettualità che non è tale, ma solo progettiamo e, per dirla con Piero Gobetti, ”Il progettismo è una delle malattie d’infanzia politica”. Il caro Gobetti, tuttavia, ci perdonerà se correggiamo “infanzia” con “decadenza”.

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