Come colloca la Sua storia di formazione rispetto al personale impegno politico e culturale?
La mia formazione è quella di una persona che è stata giovane in Italia all’inizio degli anni ’70, assorbendo così il clima culturale di quel periodo dominato fondamentalmente dal tentativo di portare il nostro Paese ad un’apertura verso una dimensione internazionale e un ampliamento di costumi e di pensiero meno provinciali e meno chiusi rispetto alla mentalità del Paese basato su dettami esistenziali più rigidi. In un articolo di Merlo ho recentemente letto la descrizione dell’Italia della guerra e del dopoguerra, come Paese fortemente chiuso in se stesso, molto provinciale, insignito di valori tradizionali, con una fortissima influenza della presenza ecclesiastica, nel suo lato forse più oscurantista.
Così nel ’68 l’Italia viene attraversata da una ventata di innovazione che non ha riguardato solo il nostro Paese, ma tutto l’Occidente, investito, per esempio, dalla rivoluzione civile degli Stati Uniti d’America, quindi è stato naturale, per la mia generazione, guardare verso quella che allora sembrava la parte più all’avanguardia e aperta del nostro Paese, ossia “la sinistra storica”, anche se, osservando le cose ad anni di distanza, mi rendo conto di quanto di dogmatico e irreale per certi aspetti emergesse dalle idee della Sinistra di quegli anni, che tuttavia per la maggioranza del Paese appariva come una nuova forza di avventura.
Come può il centro sinistra far fronte alle nuove ed incombenti sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?
La Sinistra corre vari rischi, soprattutto, paradossalmente, presenti nelle frange alternative più rivoluzionarie, come il rischio di diventare il difensore della tradizione di una parte della conservazione, anziché di un movimento di progresso o comunque di comprensione del mondo nelle sue dinamiche reali. Per esempio, nel movimento antiglobalizzazione compare sicuramente una preoccupazione seria e fondata circa le conseguenze che la globalizzazione può innescare negli assetti sociali, nell’aumento della disuguaglianza, anche nell’omologazione di alcuni modelli culturali.
In tutto questo, personalmente, trovo una grande paura e difesa di se stessi, dei propri confini, perché, fondamentalmente, i processi di globalizzazione sono positivi, in quanto mettono in comunicazione varie parti del mondo e costringono ciascun individuo a scegliere tra diversi comportamenti culturali, differenti modelli di consumo ed il mondo, infatti, ha cominciato a diventare una realtà in progresso, con la scoperta dell’America, con lo sviluppo dei commerci internazionali, con le grandi immigrazioni: un modello contagioso.
Naturalmente le resistenze alla globalizzazione sono molte, come si nota sia in alcune frange e fasi della Sinistra, sia nel problema con il mondo musulmano, che deriva sicuramente anche da una reazione di difesa dell’identità islamica rispetto a modelli occidentali.
La Sinistra dovrebbe comunque restare fedele alla sua idea fondante, ossia di essere un movimento aperto, che fa uso della politica nelle sue diverse articolazioni e sfaccettature per governare e controllare i processi, per trarre il meglio da queste dinamiche, anziché condannarli e opporre resistenza.
Le ultime guerre in medioriente hanno fatto intravedere due diverse tipologie di dittatura capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?
Non penso che il governo Saddam e il governo Bush siano stati dittature.
Penso che il governo Saddam appartenesse ad un modello inerente la categoria delle grandi satrapie orientali e non a quello che si intende in termini moderni “dittatura”.
Il governo Bush presenta al proprio interno tutte quelle articolazioni fatte di pesi e contrappesi, tipiche di una società democratica, come la distinzione dei poteri: l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario.
Questa suddivisione non era presente nella politica Saddamita. Il mondo islamico sembra impenetrabile alle idee fondamentali della democrazia, così come noi occidentali le abbiamo elaborate, per esempio la separazione completa tra lo Stato e la Chiesa da una parte e dall’altra la cittadinanza, ossia il cittadino che da solo si confronta con le istituzioni democratiche e viene da esse anche protetto.
Invece nei paesi islamici, per esempio, in Iraq, in Iran, nell’Arabia Saudita e in molti altri paesi non sussistono queste distinzioni e separazioni tra istituzioni, in quanto prevalgono così categorie di comando e di dominio appartenenti alla religione, alle tribù, alle etnie.
La Shoah ha precipitato l’umanità verso un abietto declino. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio, stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno del tessuto sociale? Esistono strategie politiche certe e determinate da parte dei partiti progressisti per far fronte a queste terribili evenienze?
La strada da perseguire è comunque sempre quella dell’apertura e del dialogo. Lo scontro tra civiltà, quale categoria di guerra di religione è un evento nocivo, perché, prima di tutto non descrive la realtà, in quanto non è vero che esistono queste barriere tra mondo musulmano, mondo ebraico, mondo occidentale, compatti ed uniti l’uno contro l’altro, invece siamo noi molto spesso che rafforziamo quest’immagine, pensandoci in contrapposizione totale, non tanto come eurocentrismo, ma come costruzione di categoria mentale di guerra tra i popoli, nell’ottica di una profezia che si autorealizza e si autodetermina: mentre la realtà è molto più articolata e variegata ed è solo mantenendo continuamente vivi i canali della comunicazione, del dialogo, della comprensione che si esorcizza lo spettro dello sterminio e dell’annientamento dell’”Altro”.