Contemporaneita’ come ibridazione tra culture

Articolo tratto dall’incontro con il Prof. Ugo Fabietti, Docente di Antropologia culturale- Università degli Studi Milano Bicocca- presso la CASA DELLA CULTURA, Febbraio 2001

Nella società attuale risulta quasi impossibile e difficile pensare, da sempre, le convivenze ed il contatto, il confronto di diverse culture.
La contemporaneità come ibridazione tra culture appare come un evento e risuona come un paradigma effettivamente trasparente, ma esige profonde precisazioni.
Il termine “contemporaneità” non consiste nell’indicare solo l’”oggi”, l’orizzonte del mondo attuale. Sappiamo quanto veloci siano i tempi ed i mondi attuali, quanto il presente sia sempre in tempo reale come la televisione, uno spazio in cui confluiscono immagini in una sorprendente rapidità spesso disorientante. Internet diventa uno spazio virtuale in cui il mondo intero vi confluisce in una dimensione istantanea. La civiltà contemporanea dei consumi, delle mode, delle new economy soggette ad abusi e sperequazioni, degli status symbol non rappresenta, non coincide con il mondo dell’oggi, l’orizzonte della nostra più elementare quotidianità attuale, ma è anche qualcosa che fa riferimento, volendo adottare una prospettiva di tipo fenomenologico, a tutto ciò che ragionevolmente si pensa nello stesso tempo di vita, la consapevolezza che esista, sussista, consista un evento nello stesso momento in cui ogni individuo è, agisce, esiste, pensa, che, senza poterlo vedere o toccare, sia significante nello stesso orizzonte di pratiche, pensieri, concetti, valori, norme: è l’idea che altri condividano pratiche e pensieri nello stesso momento in cui ogni individuo agisce e pensa. “Contemporaneo” quindi è tutto ciò che coesiste con l’”io” anche se è lontano e non risulta possibile immediatamente percepirlo. Allora in questo senso la contemporaneità è anche una simultaneità di eventi, di vissuti, di immagini che in qualche modo restituiscono l’idea di un mondo in cui tutto ha un’incidenza potenziale su tutto il resto: è la dimensione della simultaneità. E’ proprio questa “contemporaneità” del mondo attuale a far concepire la nostra civiltà come sottoposta ad un processo di ibridazione culturale. In che senso possiamo intendere “ibridazione”? E’ sostanzialmente un’emozione pervenuta dalle scienze naturali, ma che possiede una connotazione fortemente ambigua se utilizzata nell’ambito delle scienze umane, perché pare che se si intenda “ibridazione” a proposito di culture, diamo per scontato che esistano “culture pure”, non ibride. In realtà tutte le culture risultano ibride, non pure. Quindi il termine “ibridazione” serve a denotare nel quadro delle scienze umane, specialmente dell’antropologia, soprattutto una qualità intrinseca alle culture altre, una dinamica di incontro che le caratterizza e si configura come scambio, trasmissione che non avviene mai in un ambito caratterizzato da rapporti neutri, ma da interazioni di forza. Quindi ibridazione intesa come riformulazione continua delle “identità culturali” che sono tipiche del mondo contemporaneo, sia attuale che di un mondo virtuale, dove eventi e immagini abbiano la possibilità e capacità di risultare simultaneamente in ambiti globali. Quindi l’espressione “ibridazione di culture” si riferisce alla natura intenta e rapida del portato culturale e questa idea non rinvia a quella per cui fino a un certo momento le culture sono sempre risultate “pure” ed hanno cominciato ad ibridarsi nel mondo contemporaneo, facendo pensare che le culture possono essere pure, autentiche, autoctone, sui generis. Se ci facessimo trascinare dall’idea di ibridazione come meticciamento di culture diverse, altre, ma soprattutto come novità nel mondo contemporaneo, saremmo portati a conferire a questa nozione di ibridazione, di meticciamento, un’accezione, un connotato, senso e significato negativi. Perché parlare di ibridità culturale non significa automaticamente dinamizzare e finalizzare la comprensione del nostro mondo contemporaneo, perché se contrapponiamo “ibrido” a “puro”, rischiamo di introdurre un tentativo di “dominazione coloniale”, almeno nei confronti delle “culture altre”.
Per esempio in campo artistico si discute spesso, soprattutto in relazione ad opere che provengono da artisti originari del terzo mondo, di “arte ibrida”, ma questa ibridità non è da intendersi semplicemente come la risultante, il frutto statico di un semplice incontro, incrocio di tradizioni diverse, ma piuttosto il prodotto di un flusso continuo che ha le proprie radici in un contesto locale, sicuramente, ma che si svolge come in un processo di interscambio in un andirivieni di culture diverse. Come ha detto un giovane artista africano ”io non sono tra due mondi, non sono un ibrido, io sono una parte di me, e rappresento solo me stesso, non lascerò in occidente, come in prigione, me stesso, in un piccolo ghetto: quello dell’ibridità”
Parlare di culture ibride quindi non dovrebbe coincidere con un’idea di contaminazione che produce un soggetto ibrido e che è stato nella sua essenza. Ma piuttosto il concetto, la nozione di ibridità o ibridazione dovrebbero far intendere come tutte le emergenze, le presenze culturali, siano frutto, risultato di un processo di tipo negoziale tra le culture, le istanze etniche che interagiscono, entrando in dialogo, prodotto di una dinamica processuale di negoziazione di significati culturali. Ibridazione è anche una nozione per cogliere tutte quelle strategie di riformulazione identitaria che si presentano attualmente nel mondo contemporaneo. Queste strategie non costituiscono una novità, ma sono semplicemente solo più frequenti. Si tratta di forme di appropriazione di codici appresi, di appartenenze a culture diverse per potersi disporre in maniera attiva di fronte all’alterità, all’altruità. Come il turismo risulta una forma di colonizzazione, così si crea una convergenza di interessi tra le popolazioni “esogene”, esotiche dal contesto occidentale, che, nell’interazione, interscambio con il viaggiatore occasionale, producono, creano, lavorano, impostano la loro forma di sussistenza creativa basata su forme di artigianato locale, in funzione del turismo e dei desideri dei turisti, che sono quelli di appropriarsi delle culture originali, autoctone, locali, in cui il prodotto artigianale diventa parte identitaria di riproposizioni di antiche forme di culto religioso della cultura autoctona, al fine di estrapolarne codici interpretativi, simboli immaginari mitologici e cosmogonici per appropriarsene in termini di fruizione estetica a livello mentale ed autopoietico, spesso imitativo, dove la mimesis sconfina con la poiesis dell’arte occidentale.
Gli elementi artistici raffiguranti e rappresentanti mitografie cosmogoniche tradizionali appartenenti, prodotte, create da alcune “civiltà altre”, vengono riplasmate in funzioni di comunicazione con una differente cultura, quella, appunto, del turismo occidentale e che per poter funzionare, adattarsi, adeguarsi, attuare l’interscambio, necessita di registrare i gusti del turista che in realtà rappresentano i suoi codici di comprensione culturale “altra” e cioè le scene di vita, le danze, i riti di caccia dipinti o scolpiti, l’inventario di iconologie ed iconografie, insomma tutto ciò che fa credere al turista di essersi appropriato in qualche modo della cultura “altra” autoctona, esogena al suo mondo d’appartenenza. Quindi possiamo trattare di ibridazione dei manufatti artigianali, prodotto di meticciamenti tra culture, delle popolazioni esotiche, perché rappresentano, in qualche modo, il precipitato di diverse interazioni tra culture, di differenti codici interpretativi etnici sia occidentali sia “altri”. Ma non per questo costituiscono prodotti che rimangono in stato di cristallizzazione, di stasi perché vengono interpretati diversamente dalle popolazioni autoctone, prima come prodotto da attribuire alla modernità ed in un secondo tempo come oggetti partoriti dalla tradizione locale.
Un altro esempio diverso di ibridazione fa riferimento all’emergenza in Asia del movimento nazionalista. Molti paesi nati dopo la seconda guerra mondiale sono stati caratterizzati dalla presenza all’interno degli stati nazionali di comunità e minoranze etniche linguistiche e culturali che da un certo momento in avanti hanno cominciato a reclamare la costituzione di uno stato indipendente nazionale. Per esempio il caso dei Kurdi in Iraq, in Siria, i Baluci in Iran, in Afghanistan e soprattutto in Pakistan. Se osserviamo come il movimento nazionalista Baluci in Pakistan ha articolato il discorso di rivendicazione, di autonomia di indipendenza dal governo centrale, troviamo che questo discorso è stato possibile grazie alla ripresa, all’incontro, all’assunzione di alcuni elementi della teoria storica linguistica ed etnologica, elaborati in occidente tra la fine delll’800 e i primi del ‘900. I Baluci pur di dimostrare di essere diversi, in qualche modo, dal resto degli abitanti del Pakistan, hanno ripreso le teorie dell’origine degli Indoeuropei ed hanno in questo modo resi propri gli assunti di un paradigma scientifico, per potersi proclamare diversi, differenti dagli altri abitanti e così suffragare la propria aspirazione all’indipendenza ed all’autonomia. Anche in questo caso siamo di fronte ad un esempio di ibridazione di culture dove nella tradizione degli “altri”, in questo caso “occidentale”, vi è un segmento della cultura degli altri, preso, ripreso, refuso in un discorso finalizzato alla produzione di una forma di identità, quindi un tentativo di riformulare la stessa, grazie ad elementi ibridi provenienti da altri contesti culturali. Il mondo contemporaneo, come percorso da immagini, messaggi in cui gli eventi si ripercuotono con una simultaneità istantanea, impone la necessità di adottare uno sguardo sostanzialmente nuovo, svincolato dalla concezione delle “culture” come entità chiuse, isolate, identificabili con un territorio. Lo stesso concetto di “acculturazione”, molto in voga negli anni ’50 e ’60 è stato utilizzato proprio per descrivere gli influssi, i riflessi che la presenza della cultura più forte presso un’altra “cultura più debole” poteva generare, non sembra essere tutt’altro pertinente nel mondo contemporaneo soprattutto perché se intendiamo contatti di etnie e portati ibridi come processi di sostituzioni di elementi identitari culturali, di sommazione e sostituzione, tali processi e fenomeni in realtà devono essere piuttosto lenti come dinamiche processuali di ibridazione. Dobbiamo quindi partire sempre dalla considerazione di fatto che il locus diventa sempre in un certo modo il ricettore del globus nel senso ed accezione che ogni particolarità, specificità, località, territorialità è sottoposta a forze che non appartengono soltanto all’individualità autoctona. In diverse situazioni si causano ibridazioni concepite dall’utilizzo di logiche causative moderne, ma ricollegate a rappresentazioni di tipo arcaico. Pensare le culture identitarie come localizzate, come qualcosa di definibile, di circoscrivibile all’interno di un determinato territorio, di uno specifico spazio, di conseguenza avrebbe problemi di definizione relativamente all’incontro di queste culture. Considerare le civiltà in questo modo non è più produttivo come in passato. Per esempio nozioni quali quelle di “origine” o “autoctonia” o metafore come “mosaico culturale” o “mosaico etnico” ed altre ancora, sono sempre meno capaci di restituire la realtà contemporanea per la cui comprensione necessitiamo di altre nozioni e prospettive e paradigmi. Per quanto riguarda nuovi concetti e accezioni per interpretare la realtà contemporanea dobbiamo considerare che i contesti di riferimento della nostra riflessione, quanto di quella di altri addetti ai lavori, delle persone ed operatori che si trovano confrontate, in interazione diretta con le esigenze del traffico culturale interetnico attuale del mondo contemporaneo, questi contesti di riferimento non costituiscono ormai spazi entro cui collocare altre tradizioni ed identità plurietniche, pluriappartenenti ad esogeni modelli e codici culturali. Per esempio risulta significativo il tentativo di produrre orizzonti ermeneutici, interpretativi di senso e significato entro cui collocare le nuove configurazioni identitarie ibride contemporanee. Un antropologo americano attuale nel suo ultimo libro rivolge l’attenzione ad un paradigma interpretativo di “paesaggio etnico”: il panorama di persone che costituiscono in modo notevole la civiltà plurietnica in cui viviamo. Turisti, immigrati, profughi, esiliati politici e non, lavoratori stagionali ed altri gruppi e categorie di persone e “personaggi” in movimento che affrontano la realtà con la fantasia del doversi muovere, di interpretare una parte, un ruolo sul palcoscenico del mondo, della vita…Così il concetto di cultura come lo abbiamo sempre inteso viene meno perché queste chiavi interpretative di lettura ermeneutica dei territori, dei paesaggi etnici umani risulta un imbroglio, un impiccio, un intrigo in cui siamo impigliati, imbrigliati circoscritti in un ruolo, perché da un lato crediamo di poter qualificare delle entità, a che punto sono le culture come identità sussistenti ed entità definite, delimitate, circoscrivibili a dei determinati confini, sottoposte a leggi e norme di trasformazione proprie, implicite, intrinseche, dall’altro restiamo in imbarazzo quando dobbiamo definire tali culture nel contatto, nel substrato, nel confronto ed incontro pluriculturale: dove comincia, dove finisce, quali elementi la costituiscono davvero e la determinano, la definiscono? Questo concetto è stato funzionale per molti decenni ad un certo tipo di discorso relativo alla nozione di alterità culturale, ma che attualmente, in realtà, non è più praticabile negli stessi termini, assunti ed istanze di matrici interpretative.
Oggi si parla di culture in maniera molto diversa rispetto a qualche decennio fa. La cultura tradizionalmente intesa dall’antropologia (studio di Taylor nel 1871) è la definizione di “insieme completo che comprende tutto ciò che è acquisito dall’uomo in quanto membro della società”, già un grande passo in avanti, un notevole progresso dall’epoca precedente…Ma questo tipo di nozione implicava il grosso rischio di produrre l’idea di cultura come “scatolone”, come entità chiusa, definita dai suoi rituali, usi e costumi, norme e leggi. In realtà questo concetto è stato profondamente trasformato nel tempo ed attualmente, per esempio, si considerano le culture come strutture di significato, archetipi ermeneutici, interpretativi che viaggiano su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori, ma in movimento, in interazione tra diversità plurime, in complessità poliedriche, pluriversi di senso interpretativo.. Quindi sussiste differenza tra una concezione della cultura identificabile territorialmente e invece quella che ne fa reti e strutture di significato in viaggio, in movimento, in trasformazione, in transizione ed interazione….
Attualmente risulta decaduta, desueta, obsoleta l’equazione tecnica ed analitica in chiave antropologica definibile nell’equazione cultura-territorio-identità. In sostanza si è giunti alla fine di un’idea, appunto, di cultura come identità organizzata in modo coerente e sottoposta a regole di trasformazione. E’ molto eloquente come la letteratura abbia accolto tale realtà per esempio con opere di scrittori stranieri che risultano il prodotto di ibridazioni culturali.
Come far valere, attribuire valore e senso ad un’ idea di cultura quale complesso di elementi integrati, in equilibrio, sottoposti a regole di trasformazione?
Forse il passaggio etnico sembra cogliere meglio lo sfondo di questi eventi ed anche la concezione di cultura come struttura di significato in viaggio sembra essere più perspicua rispetto a quella tradizionale. Ora il fatto che si possa parlare di ibridazione di culture, rappresentate come strutture di senso e significato “in viaggio” come non si possa più identificarla con il territorio e l’identità con la cultura, non significa che il desiderio di possedere un luogo a cui ancorare la propria individualità e personalità identitaria ed il desiderio di essere riconosciuti, siano fenomeni obsoleti e desueti, ma al contrario, le localizzazioni culturali costituiscono potenti fattori di rafforzamento dell’anelito d’identità e della persuasione che quest’ultima debba possedere un locus in cui rappresentarsi entro cui poter essere riconosciuta. Sembra emblematica la poesia di un’adolescente senegalese scritta sui muri della sua città: ”A volte invento canti molto antichi in una lingua che non esiste e cammino per le vie con il mio canto ed allora guardo tutto come se si trattasse di un vecchio “altrove” dove avrò il mio posto e dove sarò riconosciuta da tutti”. In questa poesia il “qui” e l’”altrove”, futuro e passato si confondono, si interscambiano, ma resta comunque presente il desiderio di questa giovane di tornare, come riferimento ad un luogo dove potersi identificare essere riconosciuti. Concludendo, come potrà conciliarsi questo duplice desiderio di luogo e di riconoscimento con la palese ed evidente contrapposizione di qui ed altrove, di passato e futuro, prodotti certamente di quello che l’antropologia recente considera un “restringimento dello spazio”, “difficoltà di pensare la storia”, ed “individualizzazione dei destini, fenomeni tipici della contemporaneità e che sono frutto di un eccesso di eventi e del declino di quelli ideatori istituzionali come le grandi ideologie, i partiti, le fedi, le religioni, ma anche il mondo della scuola, che sono stati capaci di costituire un ponte tra generazioni, tra individui e dei progetti di vita rappresentabili nel corso della storia.
La trilogia identità-cultura-territorio è ormai in accezione desueta, quasi obsoleta, ma comunque in questo periodo di omologazione e globalizzazione delle civiltà si avverte sempre più l’esigenza di un ritorno al senso d’identità, di comunità, di recupero attraverso un “filo rosso” di memoria anche storica legata a particolari eventi di cui appunto il territorio, per citare Sciama, è stato “paesaggio e memoria”, della memoria; quindi eventi storici, i segni tipici antropici, dal tempo sedimentati sui territori teatro delle storie, della Storia e dei vissuti, dei momenti infinitesimali del quotidiano di cui essa si intesse. Per questo reinsorgere di volontà di allestire musei ed ecomusei per il recupero della memoria passata, degli eventi storici miseri o grandiosi dei popoli, delle etnie, in teatri di sobborghi quotidiani o di distese desertiche di campi di battaglia, in radure steppose o ghiacciate di guerre…Attraverso queste istituzioni cardine della memoria, per esempio di ecomusei che improntino il loro essere, giustifichino l’essenza ontologica di recupero e conservazione del passato, basandosi sulla valorizzazione in primis del territorio, della preservazione dell’ambiente, i fattori antropici caratterizzanti l’ecosistema stesso e le interazioni esosistemiche, si è generata una vasta eco di diffusione, partendo dai paesi scandinavi, a loro volta dalle Americhe, poi in Francia, fino ad approdare in Italia con progetti di ecomusei, precisamente in Piemonte, regione che possiede un definito statuto relativo a tali istituzioni ecomuseali, che vengono sovvenzionati a livello governativo come istituti ed enti culturali militanti a livello fattivo in ambito territoriale e paesaggistico. Tramite associazioni ambientali a livello nazionale questo tipo di legislazione e quadro generale di norme riguardanti enti ed istituzioni ecomuseali, tutelanti i reperti storici e la memoria degli eventi anche in ambiti localistici, vuole essere esteso a livello nazionale, in Italia, così che tutte le regioni peninsulari possano essere tutelate da norme e leggi e sovvenzionate circa queste forme di attività culturali. Dunque è molto sentito il ritorno di un’esigenza, di un bisogno e desiderio di territorialità. Il desiderio d’identità riconoscibile e circoscrivibile ad un territorio d’appartenenza è molto forte e potente. Sarebbe però errato poter pensare alle culture come entità statiche e livello localistico, determinate nell’ambito di uno specifico territorio. Comunque la memoria è importante: ma qui sorge il problema! Come si può recuperare nella contemporaneità la dimensione di memoria del passato quando in effetti abbiamo difficoltà a leggere la storia perché siamo debordati dagli eventi e siamo usurpati e turbati da immagini che provengono da tutto il pianeta. E’ una sfida difficile quella della conservazione della memoria, ma essa è il prodotto di una volontà, di una selezione, di un filtro della volontà di ricordare un qualcosa, eventi… Qui sorge il problema. Come possiamo ricordare quando siamo fuori dai parametri che ci hanno assicurato più facilmente la possibilità di conservare il ricordo, la memoria. La volontà di appartenenza al territorio, di ricerca di identità, può assumere anche forme, aspetti, sembianze esagerati esclusivisti, sciovinisti, imperialisti che a volte non corrispondono affatto ad un rispetto, a forme di affetto legittime di una tradizione e di una memoria storica reale, ma sono l’esclusivo prodotto , appunto, spesso di costruzioni ideologico-politiche orientate verso il sostegno di interessi particolaristici ed esclusivistici. E’ anche vero che se non si riconosce una propria identità a livello culturale, locale, legata a degli affetti, a tradizioni, norme, rituali, legate ad un luogo, non ci si può aprire all’altrui differenza, all’incontro con il diverso da sé portatore anche involontario di altre norme, credenze, tradizioni, insomma di un contesto e substrato culturale in sé e per sé differente da quello con cui si incontra ed interagisce. Se un individuo deriva da un’origine, un locus in cui riconoscersi, subentra la difficoltà, in teoria, dell’accettazione dell’altrui diversità, come interscambio proficuo, per accettare il diverso da sé, anche se comunque sussistono forme di convinzioni di centralità di identità che non si aprono affatto all’altruità, nonostante tutto.

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