di Massimo Peri*
Lo stereotipo della bontà
Il libro Ebrei di Salonicco. I documenti dell’umanità italiana (Ambasciata d’Italia in Atene, 2006), raccoglie una quarantina di telespressi e telegrammi intercorsi fra il Ministero degli Esteri e le nostre autorità consolari di Salonicco, le quali seppero gestire fra mille difficoltà l'organizzazione del “treno della salvezza”. I curatori attingono tacitamente il materiale al volume Italian Diplomatic Documents on the History of the Holocaust in Greece (1941-1943), edited by Daniel Carpi, Tel Aviv University 1999. Essi non offrono né l'edizione diplomatica né la riproduzione fotografica dei testi, ma preferiscono adottare un tipo di fotomontaggio che somiglia a quello che s'impiega per confezionare i “papiri” di laurea. I testi sono stati passati al computer con qualche errore di battitura, e quindi adagiati su finti fogli slabbrati e ingialliti dal tempo. Una volta sottoposti al lavaggio e all'invecchiamento informatico, questi sconvolgenti resoconti dello sterminio e del dolore sono stati “incollati” qua e là, preferibilmente a sghimbescio, sulle vaste pagine patinate del lussuoso volume. Ora piegano a destra, ora propendono a sinistra, ora oscillano incerti sul da farsi come foglie birichine mosse da un refolo di vento. I curatori non spiegano le ragioni di questa manipolazione. Fatto sta che a vedere documenti di vicende strazianti ridotti a patacche di modernariato uno si strazia due volte.
Il sottotitolo – I documenti dell'umanità italiana – lascia un po' interdetti perché il concetto di “umanità” non sopporta qualifiche di bandiera: l'aveva detto Kant quando parlava di fine e non di mezzo, lo ribadisce l'Ambasciatore Scarante quando parla di “un valore assoluto”. Bisogna tuttavia riconoscere che questo sottotitolo “tremagliano” ha il pregio della sincerità perché riassume fedelmente la tesi del libro. Tesi tutt'altro che nuova secondo cui al di là o al di qua del fascismo, gli italiani furono contrari alle persecuzioni razziali e nutrirono sentimenti di umana pietà per gli ebrei. Il limite più preoccupante di questo libro non è tuttavia quello di difendere una tesi indifendibile. È che manca una qualche analisi, una qualche argomentazione capace di circoscrivere le zone d'ombra e di graduare i problemi, manca una bibliografia, manca un commentario ai testi, manca insomma quel minimo di preoccupazione documentaria che sarebbe lecito aspettarsi dai curatori di una silloge di documenti.
Nel libro, ad esempio, si sottolinea la gratitudine che gli scampati di Salonicco nutrono tuttora per gli italiani: «Gratitudine reiterata, che si respira ancor oggi e che lenisce le ferite ancora aperte nella Comunità ebraica di Salonicco, provocate dall'atteggiamento del capo-rabbino Koresh, che diede ai tedeschi l'elenco di tutti i correligionari della città ». In verità il “tradimento” di Zwi Hirsh Koretz è tutto da dimostrare. Perché allora dare per scontato il suo tradimento? Perché, in assenza di prove, non sospendere il giudizio? Sempre a proposito di gratitudine leggiamo che: «Le lettere di ringraziamento degli ebrei [italiani], molti dei quali sinceramente affascinati dal fascismo, sono la prova dell'eroico atteggiamento di Zamboni, del suo successore Castruccio, del capitano Lucillo Merci […]». Che molti Ebrei fossero sinceramente affascinati dal fascismo è affermazione grave, tutta da dimostrare. Qualunque cosa dicano queste lettere bisogna tener conto del fatto che furono scritte da gente terrorizzata, che aveva perso tutto e su cui pendeva la minaccia delle tradotte per Auschwitz. In contesti del genere le proteste di fedeltà al regime e di gratitudine all'Italia suonano piuttosto come atti di accusa.
Circa 350 Ebrei italiani furono salvati a Salonicco dalle autorità consolari italiane che seppero far valere, pur nella sudditanza allo strapotere tedesco, il principio della “zona d'influenza italiana”. Domanda: perché? Perché gli Italiani, che pure avevano gravi responsabilità nella persecuzione antiebraica, si adoprarono con tanta abnegazione per salvare gli ebrei di Salonicco? La risposta fornita da questo libro è una risposta per modo di dire. Gli italiani, ci viene detto, si comportarono così perché erano costituzionalmente incapaci di crudeltà (p. 18 «Non siamo mai stati un Paese crudele») e anzi a Salonicco diedero prova di «eroico atteggiamento» (p.19). Effettivamente nel fraseggio burocratico di questi testi si coglie talora una viva preoccupazione per la sorte degli ebrei, persino un senso di sgomento. Tuttavia accanto a quella umanitaria insorgono vistosamente preoccupazioni d'altro genere. Le principali mi sembrano due. La prima è d'ordine economico. La comunità ebraica di Salonicco era ricchissima e gli ebrei furono protetti per proteggere gli interessi economici italiani. La seconda preoccupazione è d'ordine politico-diplomatico. Fino al settembre 1943 il condominio di italiani e tedeschi era governato da questo patto non scritto: gli italiani dovevano adeguarsi alla supremazia de facto della Germania, i tedeschi dovevano rispettare la precedenza de iure che l'Italia aveva in Grecia. Il comportamento delle autorità italiane era ispirato dunque all'esigenza di marcare la propria autonomia; tuttavia, data la sperequazione delle forze, tale principio poteva venire realizzato più in termini di immagine che di reale incidenza. Perciò è soprattutto sulle forme, sui simboli che gli italiani si sforzarono di resistere. È per esempio il caso del bracciale. Il bracciale che serviva a identificare gli ebrei aveva in realtà scarsa utilità ai fini polizieschi, dato che gli ebrei erano già schedati e strettamente controllati. L'obbligo del bracciale era piuttosto un'umiliazione, una misura tesa a spezzare eventuali resistenze psicologiche. Lanza d'Ajeta, il Capo di Gabinetto di Ciano, lo sa benissimo e fa presente una serie di ragioni per opporsi alla richiesta tedesca Tuttavia il suo telegramma si conclude così: «È ovvio che qualora da parte tedesca si ritenesse nonostante le considerazioni sopra esposte di attuare il provvedimento, dovremo da parte nostra seguire la stessa linea di condotta» (p. 34).
La preoccupazione di salvare qualche prestigio senza urtare la suscettibilità del potente alleato è un motivo ricorrente in tutto il carteggio. Il principio che gli Ebrei italiani dipendono solo dall'Italia viene difeso a oltranza, anche a costo di abbandonare cinicamente al loro destino gli Ebrei non italiani. Può darsi che il Console Zamboni presentasse la difesa degli ebrei italiani come difesa degli interessi e del prestigio italiano perché era l'unica strada percorribile. Tuttavia postulare una effettiva preoccupazione umanitaria sotto le motivazioni diplomatiche e mercantili di queste missive è difficile, perché tra l'altro in nessun documento pubblicato si legge una parola di “umanità” per gli altri ebrei, quelli greci. In realtà le nostre autorità consolari si attennero scrupolosamente alle direttive del ministro Ciano, che recitavano: «Rimpatrio delle famiglie italiane non ariane costà residenti non può essere impedito. Però non contiene che esso venga facilitato. Ritengo invece che codesta Legazione debba svolgere nei loro confronti una azione di difesa non in quanto ebrei, ma semplicemente perché essi costituiscono degli interessi italiani all'estero».
Che fra “non impedito” e “non facilitato” si apra un dramma nella coscienza di Ciano? È altamente improbabile perché anche in altri Paesi, come ha mostrato Davide Rodogno, la condotta italiana fu identica. È comunque senza fondamento pensare che Zamboni o Castruccio o altri abbiano salvato gli Ebrei italiani «contravvenendo agli ordini». Essi hanno sempre obbedito agli ordini, hanno sempre agito dietro superiore autorizzazione ed è davvero difficile considerare Zamboni un “eroe”, come fa anche Sergio Luzzato (Corriere della Sera, 12/01/2007). In base ai documenti qui pubblicati si può dire solo che egli fu un buon impiegato, capace di gestire con professionalità una situazione difficile. In definitiva si sarebbe desiderato che i curatori del volume avessero esercitato un pochino la pratica filologica del dubbio anziché abbracciare senza esitazioni la tesi della “umanità italiana”.
Comunque bisogna riconoscere che questo libro un merito ce l'ha, quello di farci riflettere sull'inesauribile potenza dello stereotipo. Perché lo stereotipo è tanto forte, tanto longevo da apparire fisiologico come l'errore? Probabilmente perché è uno strumento di rimozione e dunque di sopravvivenza. Lo stereotipo “Italiani brava gente” è stato una risorsa preziosa per la coscienza italiana: ha aiutato a minimizzare le colpe; ha contribuito a scindere le responsabilità del fascismo da quelle del popolo italiano; è servito al tavolo delle trattative per evitare una pace punitiva. Tuttavia, una volta fatto fino in fondo questo discorso, lo stereotipo continua a dilagare imperterrito. Sicuramente per molte ragioni. Mi limito a indicarne tre, che probabilmente non sono le più importanti ma solo le più evidenti.
La prima è che lo stereotipo contiene una parte di verità. In qualche misura “Italiani brava gente” è vero, perché è assodato che le autorità civili e militari italiane, a Salonicco e altrove, difesero e salvarono numerosi Ebrei (italiani) dai campi di sterminio nazisti. Anche se questa difesa non fu ispirata da ragioni umanitarie ma da interessi meno trasparenti, difesa fu. Ed è naturalmente qui, su questa porzione di verità non contestualizzata, che si abbarbica lo stereotipo. La seconda ragione è che lo stereotipo non può essere smentito. Se lo nego, se lo dichiaro falso, lo rafforzo, poiché la negazione è anch'essa una pratica stereotipica. La terza ragione, conseguente alla precedente, è che gli stereotipi intrattengono relazioni di mutuo soccorso con altri stereotipi: per questo sono tanto resistenti da attraversare indenni i secoli e addirittura i millenni (com'è il caso del pregiudizio antiebraico). L'immagine positiva di noi stessi come vittime della “barbarie” germanica e della guerra “voluta dal duce” è stereotipica proprio perché può funzionare solo in rapporto a un'altra immagine, quella negativa del “fascista infame” e soprattutto quella del “cattivo Tedesco”, carnefice spietato capace di compiere come un automa i più orrendi misfatti. Anche questo libro può accreditare l'umanità italiana solo nella misura in cui fa appello alla disumanità germanica, che resta sullo sfondo come una presenza diabolica o folle. Eppure, ed è qui il dramma di Primo Levi, non possiamo liquidare il comportamento dei Tedeschi a Salonicco e altrove come un'operazione demoniaca o come pura follia criminale, perché così facendo esso resta fuori dall'orizzonte della ragione e non è più suscettibile di analisi. Se rinunciamo a capire le motivazioni soggettive e oggettive del comportamento tedesco, se lo percepiamo come qualcosa di indifferenziato, come un oggetto senza spigoli repellente a qualunque sforzo di comprensione, tutto si farà buio e a quel punto potrà sembrare ragionevole trastullarci con un altro oggetto senza spigoli, l'umanità italiana.
*Professore di lingua e letteratura neo-greca, Università di Padova