La deriva plebiscitaria

Di Stefano De Luca

Berlusconi col suo colpo di teatro ha dato, ancora una volta, una lezione politica agli avversari e agli alleati. Il suo modesto imitatore, Walter Veltroni, dovrà studiare ancora a lungo per poterne emulare la bravura. Ha dimostrato che un pugile forte, anche se momentaneamente messo all’angolo, può essere in grado di trovare le risorse per reagire e stendere al tappeto gli avversari interni ed esterni. L’inventore della politica – spettacolo, con una semplice esternazione di piazza ha sciolto il partito di maggioranza relativo e ne ha fatto un altro. Questa non è la vera politica, che ha proprie regole, basate sulla partecipazione attiva, il coinvolgimento, il voto. Le scorciatoie plebiscitarie sono tipiche dei regimi autoritari sudamericani. Dopo la fiction veltroniana del Pd di stampo ‘chavista’, Berlusconi ha rilanciato con la sua formazione di ispirazione ‘peronista’. La partita si combatte sulle cifre delle risposte rispettive riposte alle chiamate plebiscitarie. Una ben orchestrata manovra aveva enfatizzato il risultato, sia pure di misura e pieno di compromessi e riserve del Governo, in una sorta di trionfo, presentandolo come la plateale sconfitta del leader dell’opposizione, che imprudentemente aveva preannunciato la spallata ed era stata smentito. Alla luce di quanto è avvenuto dopo, c’è da chiedersi se, anche questo, non facesse parte della strategia mediatica ‘berlusconiana’. Il forcing sulla spallata, forse, era stato soltanto il modo per accendere i riflettori sulla legge finanziaria e costringere la componente moderata del centro – sinistra a fare dei distinguo, in vista di una prossima mossa per fare cadere il Governo più avanti. Infatti l’interesse di Berlusconi non era quello di fare dimettere Prodi adesso, col rischio di un governo dalle larghe intese, che avrebbe potuto solo indebolire la sua leadership nella CdL, ma di provocare la crisi all’inizio dell’anno per andare subito alle urne. I suoi alleati, soprattutto Fini, hanno commesso una grave ingenuità nel prendere subito le distanze e cercare di isolarlo, mossi dal risentimento per l’aperto e attivo sostegno di Berlusconi alle iniziative dei dissidenti di An, Storace, Santanchè e Buontempo, come a quelli del mondo democristiano, con l’appoggio all’iniziativa di Giovanardi e l’invito a tutti i delusi dell’area ex Dc a convergere verso il partito di Rotondi. In politica il piatto della vendetta va mangiato freddo e, principalmente, prima di fare una mossa, bisogna misurare le proprie forze. Anche senza inventare nulla di nuovo Berlusconi, rilanciando il progetto del Partito del Popolo delle Libertà, mediaticamente, in modo magistrale, è riuscito a riaccendere su di sé i riflettori. An difficilmente potrà sostenere il percorso di autonomia che aveva avviato, finirà invece col convergere con un ruolo subalterno verso l’ipotesi del nuovo soggetto politico unitario, pena la marginalizzazione. Allo stesso tempo, dopo avere scaraventato i circoli della Brambilla contro i colonnelli di Forza Italia recalcitranti, ha dimostrato loro che non intende permettere manovre di palazzo, perché, nella nuova formazione, i giochi cambieranno completamente e sarà lui a deciderli. Casini potrà anche non aderire al progetto, ma dovrà limitarsi alla navigazione di piccolo cabotaggio nel mondo cattolico, riconfermando l’alleanza di centro – destra e la leadership di Berlusconi. D’altronde dopo la costituzione, a sinistra, del partito democratico, la destra non poteva che fare altrettanto, ma l’ex presidente del Consiglio ha voluto scegliere tempi e circostanze, in modo da dettare l’agenda dell’attuazione del progetto per guidarlo saldamente. Al Senato si è palesata una sinistra divisa, oggi. E anche la destra si presenta in pezzi. Questo è il risultato che discende inevitabilmente dal “bipolarismo all’italiana”, che non produce coalizioni omogenee, ma aggregazioni muscolari e che hanno completamente estromesso il popolo sovrano da ogni processo partecipativo reale alla vita politica. Occorrerebbe quindi una riforma elettorale, maggioritaria o proporzionale che sia, in grado di produrre coalizioni tra forze omogenee. C’è il rischio invece che avvenga il contrario. Quanto è avvenuto domenica potrebbe rappresentare una opportunità per l’area liberale. Infatti la nuova formazione di Berlusconi non potrà che avere un profilo conservatore e popolare ed identificarsi come componente italiana del Partito popolare europeo. Tale scelta obbligata farà definitivamente tramontare, per i pochi che ci credevano ancora, l’utopia di Forza Italia come il partito liberale di massa. Sarà quindi inevitabile che il mondo liberale dia nuovo e più forte impulso a quella costituzione di un unico soggetto organizzato dai liberali italiani, democratico e partecipativo, che al seminario, promosso a Fiuggi nei giorni scorsi dal Pli, con tale tema all’ordine del giorno, sembrava avere segnato il passo. Oggi è evidente la necessità di contrapporsi alla deriva autoritaria del Paese. Aree liberale, repubblicana, democratica, cattolico – liberale non possono non capire che devono riunirsi per fare sentire la propria voce e prepararsi a raggiungere una massa critica di consensi, tale da potere superare gli sbarramenti elettorali esistenti o quelli ancora più alti che potrebbero derivare dalla inevitabile riforma. Una tale aggregazione potrebbe rappresentare il soggetto politico di riferimento per il mondo produttivo delle piccole e medie imprese, delle professioni, del commercio, della cultura liberale. Potrebbe raccogliere i fermenti di libertà che si registrano nell’Università, nei rami alti della amministrazione pubblica e del mondo manageriale e in quella vasta area di laureati più ambiziosi, che vogliono evitare una nuova ondata di emigrazione intellettuale dalle aree meridionali e che intendono scommettere sulla capacità, sul merito, sul gusto del rischio. La delusione di un partito democratico, nato in laboratorio, all’insegna del centralismo burocratico e della lottizzazione non ha convinto tali ceti, che lo vedono come un soggetto ‘vetero – statalista’, che non ha avviato alcun processo critico di revisione del proprio passato. Per analoghe ragioni non potranno riconoscersi in un movimento populista, clericale e conservatore, come quello lanciato da Berlusconi. Troveranno i liberali il coraggio di essere se stessi, o preferiranno, ancora una volta, l’Aventino o un qualche ruolo subalterno in partiti che nulla hanno a che vedere con la loro tradizione culturale? Il Partito liberale italiano, come hanno fatto i socialisti, intende caparbiamente perseguire la strada dell’unificazione e dell’autonomia.(Laici.it)

Segretario nazionale del Partito liberale italiano
(articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 21 novembre 2007)

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