Gli armeni fra Bush e Turchia

di ENZO BETTIZA

I due tormentoni che continuano a insidiare l’immagine e la stabilità della Turchia moderna, post-ottomana, nata 84 anni fa dalla rivoluzione kemalista, sono un passato che non passa e un presente che incombe e incalza. Il passato che ciclicamente ritorna, gettando la sua ombra sinistra su Ankara, è il massacro subito dalle nutrite minoranze armene durante la prima guerra mondiale. L’incalzante presente è legato invece alla ribelle e combattiva minoranza curda: da quando nel contiguo Iraq è sorto un Kurdistan pressoché autonomo, essa, rifornita di mezzi e protetta da santuari, ha alzato la cresta costituendo una minaccia diuturna ai confini meridionali turchi.

Quel truce passato e questo minaccioso presente tendono, come vedremo, a congiungersi, formando un focolaio di crisi tale da mettere a repentaglio anzitutto il tradizionale legame strategico della Turchia con l’America e la Nato. In linea subordinata, lo screzio in atto di Ankara con Washington, sommandosi ai contrasti con la Francia di Sarkozy, potrebbe interrompere disastrosamente il già difficoltoso cammino di Ankara verso l’Unione Europea.

Breve: tra l’Occidente e l’occidentalizzante Turchia, lambita dopo le recenti elezioni parlamentari e presidenziali da tentazioni islamiche e pulsioni nazionaliste, si va formando ormai un’esplosiva massa critica. A monte troviamo una parola, una sola parola, secondo i turchi impronunciabile e calunniosa. Genocidio. La tremenda parola è riecheggiata in questi giorni tal quale, per la prima volta, come un’irredimibile condanna storica, nel Parlamento americano a maggioranza democratica.

Ufficializzata in una proposta di legge dalla commissione Esteri della Camera dei deputati, essa si riferisce alle lugubri «marce della morte», dal Nordest anatolico ai deserti siriani, inflitte a centinaia di migliaia di armeni tra il 1915 e il 1918. Non vennero risparmiati bambini, donne, vecchi. Coronarono e spiegarono l’immane sterminio documenti storiografici, referti statistici, testimonianze di sopravvissuti, romanzi come quello famoso di Franz Werfel, film recentissimi come quello dei fratelli Taviani.

Per molti storici fu il primo genocidio di massa del Novecento. Ma di che natura era lo Stato turco che aveva programmato a freddo quella prima implacabile «pulizia etnica» novecentesca? Formalmente era uno Stato ottomano seppure in agonia, uno Stato ancora islamico, diverso e opposto alla cristianità delle vittime; però, nella sostanza, era già dominato dalla casta militare laica, ultranazionalista, dei «giovani turchi» dai quali, dopo la guerra perduta al fianco della Germania, sarebbe emerso Kemal Pascià, l’Ataturk «padre della patria».

Ecco forse perché uno sterminio che aveva coinvolto i «giovani turchi», riformatori radicali e patrioti, non è stato in seguito mai riconosciuto dai loro potenti eredi in grigioverde e dai governi secolari da essi controllati. Hanno sempre negato sia l’orrenda parola che l’agghiacciante cifra dei morti, circa un milione e ottocentomila secondo calcoli internazionali, soffermandosi tuttalpiù su una cifra minima di duecentomila attribuita ai disagi e alle confusioni del marasma bellico del tempo. A partire da allora il negazionismo di Stato è stato sempre applicato al calvario armeno da tutte le laicissime autorità turche. Non fanno differenza quelle islamiche attuali, che con Erdogan hanno in pugno il governo e con Gul la presidenza della repubblica.

Non a caso Abdullah Gul ha definito «inaccettabile» la risoluzione parlamentare americana sul «genocidio», e non a caso Tayyip Erdogan ha tempestato di telefonate bollenti il presidente George Bush. È insomma scoppiata fra la Turchia e la sua più stretta alleata occidentale una crisi che potrà ripercuotersi a breve, non solo in seno alla Nato, dove i turchi occupano una posizione di punta, ma anche sui vulnerabili confini iracheni. È qui che il passato armeno si salda al presente curdo, giacché Ankara indignata, ferita dall’accusa di «genocidio», minaccia «ritorsioni» serie contro Washington se le aule del Congresso dovessero approvare l’offesa che essa respinge con forza come sleale e ignominiosa. Il rischio per gli americani, soprattutto per Bush, che cerca di bloccare il percorso della proposta di legge verso l’aula, è che i turchi aprano per ripicca e pressione politica un nuovo fronte in Iraq attaccando la limitrofa regione autonoma dei curdi. Qui potrebbe verificarsi altresì la più pericolosa delle saldature immaginabili: una rappacificazione patriottarda, nel nome della dignità e dell’interesse nazionale, tra i militari laici e i governanti islamici.

In caso di una nuova guerra, che vedrebbe i turchi invadere il Kurdistan iracheno e chiudere basi e spazi aerei di cui finora si servono gli americani, il quadro mediorientale e mondiale cambierebbe di brutto. Assisteremmo alla deriva antioccidentale, dentro l’Iraq già in preda al terrorismo endemico, di quello che per numero e per forza era il secondo esercito dell’Alleanza atlantica.

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