Di Federico Nicolaci
La politica è innanzitutto il luogo delle decisioni collettive; in quanto tale ad essa è richiesto di percepire le dinamiche storiche, sociali ed economiche, e di guidarle secondo i migliori modelli possibili. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla perdita progressiva della capacità di comprensione della realtà da parte del maggiore partito della sinistra italiana. Prigioniero di un mondo ovattato in cui i “rumori della città” sono echi lontani e incerti, il partito dei Democratici di Sinistra ha gradualmente, ma inesorabilmente, perso la capacità di “vedere” una realtà mutevole che si apriva a nuove sfide, a nuove difficoltà e a un indebolimento generale della classe media. Guidato da paradigmi interpretativi ideologici, incapaci per definizione di comprendere i fenomeni sociali e i mutamenti economici, e assuefatto a una perenne condizione di privilegio, ha smarrito la voglia e la capacità di elaborare scenari complessi per problemi complessi, creando un modo inesistente “giù in strada” ma funzionale all’applicazione meccanica di schemi ripetitivi e semplicistici; ha lasciato dunque che la realtà fosse perduta di vista; ha guardato alle forze produttive come un nemico da combattere più che un tesoro prezioso da tutelare e aiutare; ha soprattassato i redditi delle famiglie medie, considerando i tremila euro al mese la soglia della ricchezza; ha sbandierato un laicismo anticlericale etimologicamente “idiota” che ha allontanato il centro e compattato le estreme. E nonostante questo si stupiva di perdere le elezioni regionali, di non raggiungere il quorum nel referendum sulla fecondazione assistita; e si stupiva, soprattutto, di perdere il Nord. Un partito cioè incapace di sviluppare e produrre modelli per interpretare il presente e guidare il futuro.
Ma la stessa malattia della sinistra affligge anche il resto del panorama politico italiano. Totalmente immersa nel proprio particolarismo, preoccupata senza sosta di mantenere il proprio consenso e dunque la propria legittimità, questa classe politica è incapace di guidare il cambiamento e di prendere le decisioni; ma in questo modo è anche pericolosa: perché il più grande pericolo in democrazia è la perdita della capacità decisionale.
Quando il gruppo dirigente minimizza la protesta democratica e non risponde alla pressione normativa esercitata dagli ideali richiamati a viva voce dai cittadini esasperati; quando l’elite politica non riesce più a prendere le decisioni che il processo storico ed economico richiede perché troppo frantumata e timorosa di perdere il privilegio; e quando, a fronte delle decisioni (non) prese ieri, lo scenario che si realizza oggi è il peggiore, allora la fiducia degli onesti cittadini verso la politica viene meno. Fenomeni latenti di ritiro della delega sono già operanti in alcuni settori della società (in altri lo sono permanentemente). Bisogna assolutamente impedire che diventino attuali e pervasivi. Non è un segreto che una società si regge sulla fiducia tra le sue parti, e tra le parti e l’elite politica. Questa fiducia si oggettiva nel tessuto morale che costituisce la trama di una società. Se questa va perduta, la società, e con essa la democrazia, muore.
Rinnovare la classe politica di questo paese è dunque non solo preferibile, ma necessario. Compito di questo rinnovamento è di riconquistare la fiducia dei cittadini nella politica: e ciò è possibile solo se la comunicazione tra il vertice e la base è ristabilita e la politica torna ad assumersi le responsabilità decisionali che il processo di rappresentanza le delega.
Il partito democratico sta nascendo dalla fusione dei due maggiori partiti dell’Ulivo. Ma non nasce per un idealismo interno, bensì per una necessità esterna: lasciati alla loro sorte, questi partiti malati sarebbero morti in pochissimo tempo. Se si vuole davvero porre in essere un partito “nuovo” e non solo un nuovo partito, allora bisogna evitare che il partito democratico diventi un partito che giustapponga eredità contrapposte e identità diverse. Ciò ricalcherebbe i limiti del modello che si vorrebbe superare. Ma se il Pd sta nascendo significa che il sistema precedente non funzionava. È necessario cambiare. Cambiare la classe dirigente, prima di tutto. Formala, e selezionarla. E poi cambiare l’asseto partitico. Non un partito centralizzato, sordo e pesante, ma regionale, pluralista e leggero.
Enrico Letta è l’interprete migliore di queste esigenze, quello che le sostiene con maggiore forza e senza compromessi. Prima di tutto ha compiuto una piccola rivoluzione: è il primo politico italiano dopo moltissimo tempo ad affrontare i problemi in modo nuovo, utilizzando prospettive nuove e offrendo soluzioni nuove. Non è un caso che il titolo del suo ultimo libro suoni “In questo momento sta nascendo un bambino”. Il titolo non si riferisce al Pd, come si potrebbe immediatamente pensare. Ma al bambino in carne ed ossa che in questo momento sta nascendo in qualche ospedale italiano. È a lui che la politica deve rivolgersi se non vuole tradire il suo compito. È al mondo in cui quel bambino si troverà a vivere cui la politica di oggi deve guardare. Quale scuola lo accoglierà nel 2013? Quali possibilità gli aprirà l’università nel 2025 In che società si troverà a vivere? In una società ghettizzata e costituita da identità irriducibilmente contrapposte o in una società multietnica ma armonica e italiana? Sono queste alcune delle domande che una politica degna di questo nome dovrebbe porre al centro della sua attenzione, invece di accontentarsi di navigare a vista tra il consenso e il bisogno di mantenere il potere. Compito di una vera leadership è di farsi carico di accompagnare con saggezza i grandi cambiamenti. È per questo che Enrico Letta sceglie di raccontare l’Italia attraverso la prospettiva del bambino che sta nascendo oggi. Solo una politica che smette di guardare all’oggi e al contingente ma scruta con attenzione e saggezza l’orizzonte può sperare di non essere travolta dalla forza del processo storico. Solo comprendendo che gli scenari futuri dipendono dalle scelte che facciamo oggi possiamo liberare la politica dalla zavorra dell’immediato e sottrarla ad un destino di impotenza nei confronti della contemporaneità. Solo attraverso questa rivoluzione di paradigma può nascere una politica che possa mettere in essere una netta e profonda opera riformatrice.
Chi scende in piazza, chi s’indigna per questa classe dirigente e invoca un rinnovamento della politica dovrebbe dunque fare molta attenzione al tipo di leader a cui il 14 ottobre darà il suo voto. Perché il giorno delle primarie del PD non si sceglie solo il segretario, ma anche l’assetto del futuro primo partito italiano. Ed è noto che la volontà di potere ama nascondersi e assume molte maschere, anche quella del riformismo. Ma le maschere tradiscono quello che nascondono: le pressioni denunciate da Enrico Letta e da molti candidati regionali per il PD rivelano tentativi molto forti di una classe politica incapace e ambiziosa di superare indenne anche quest’onda. Chi si batte perchè la politica sia il luogo delle decisioni efficaci e coraggiose, non delle decisioni di compromesso partorite da un sistema politico polverizzato tra gli aventi rendita; chi si batte per “aprire” il mercato politico e combattere le endemiche tendenze oligopolistiche: ebbene costui dovrebbe guardarsi dal consacrare con ammirazione la nomenklatura espressa dal “partito”.