La Fiat e la Lex Marchionne

Ha detto qualcuno che il dramma dell'esistenza umana è che tutti hanno ragione. Ciò è tanto più vero per la Fiat in cui a Mirafiori si sono fronteggiate le ragioni del Sì, che ha vinto di stretta misura, e quelle del No.
Per il No era chi non voleva perdere per il ricatto del “padrone” più di un secolo di conquiste sociali e sindacali che hanno accompagnato e reso possibile il livello di civiltà del lavoro che oggi viviamo. Chi era per il Sì voleva semplicemente continuare a mantenersi il proprio posto di lavoro. Dietro i primi vi erano ragioni soprattutto filosofiche, mentre i secondi, che alla fine hanno prevalso, intendevano solo tutelare la propria esistenza, la propria famiglia e mettersi al riparo da un futuro incerto.
Ma anche in filosofia, come ci ha insegnato Kant, a un certo punto deve prevalere la “ragione pratica”. È vero che la battaglia per mantenere i diritti sindacali è una linea del Piave. Se cede quella il “nemico” (lo sfruttamento del lavoro, l'annullamento dei diritti, l'arbitrio padronale, l'incertezza retributiva, ecc.) potrà dilagare in modo incontenibile. Ma è anche vero che dietro il fiume non c'è una vasta distesa nella quale correre e avere il tempo di ripararsi, bensì il baratro.
Oggi l'economia globale ha dato un punto in più al “padrone” Marchionne. In Italia, secondo le stime che girano questi giorni, almeno mezzo milione di posti di lavoro sono stati delocalizzati all'estero da varie imprese. La Fiat è in testa tra le industrie che aprono fabbriche in Brasile, Polonia, Usa, ecc. e il fenomeno potrebbe accentuarsi se il paese – che non acquista peraltro automobili Fiat – si mostrasse ostile alla sua politica aziendale. All'inizio degli anni '80 Mirafiori occupava 60mila lavoratori e lavoratrici, ora sono poco più di 5mila, con un indotto che interessa altri 10mila posti di lavoro. All'inizio degli anni '80 Torino contava tra le grandi capitali dell'auto, e non vi erano i nuovi produttori – Corea, India, Cina, ecc. – che hanno reso la competizione estremamente più dura.
D'altro canto, ci dice il New York Times del 13 gennaio, mentre Ford e GM stanno conoscendo progressi nelle vendite in Usa per la Chrysler, nonostante l'ottimismo in borsa per il titolo Fiat, nulla di tutto si vede ancora. La Fiat, in qualche modo ha ancora bisogno dell'Italia come rifugio per un ipotetico fallimento internazione, laddove questo mercato non potesse essere più riconquistato. Probabilmente gli strateghi del Sì, conoscendo questo punto debole di Fabbrica Italia, si aspettavano dopo una vittoria del No una fase di rinegoziazione con il loro potere contrattuale accresciuto.
Non possiamo giocare più queste partite sul tavolo verde. I sindacati americani, nella fase di debolezza del mercato del lavoro non si sono impuntati a difendere ideologicamente l'occupazione, ma si sono seduti al tavolo con i “padroni” e col governo. Il risultato è stato che i sindacati sono proprietari della Chrysler al 62%, che le rivendicazioni sindacali hanno conosciuto una pausa e tutti gli sforzi sono concentrati sulla ripresa produttiva. Poi si vedrà.
Analoga cosa va fatta in Italia. Tutti sappiamo che la crisi economica attuale è stata provocata dalle centrali finanziarie che hanno ben poco a che fare con l'economia reale e che a tutti è piaciuto assai poco quando i governi occidentali, Usa in testa, hanno dovuto usare i soldi dei contribuenti per coprire i debiti di queste. Egualmente tutti ci rendiamo conto che, mentre si allarga sempre più il divario tra i ricchi e poveri, molti grandi imprenditori dietro il pretesto della crisi economica accrescono i profitti personali. E neanche questo ci piace. Ci sono però momenti in cui è necessario assecondare il gioco dell'avversario e attendere il momento opportuno per volgerlo a proprio favore. Cedere quando si hanno le spalle al muro non è viltà, bensì sagacia se si ha la capacità di sfruttare il momento opportuno per riprendersi il vantaggio.
Come i Presidenti americani, democratici e repubblicani, non hanno voluto correre il rischio di perdere un comparto industriale in nome della libertà economica e della globalizzazione e sono intervenuti come potere pubblico, egualmente noi non ci possiamo permettere di perdere la nostra maggiore azienda metalmeccanica, perché è il tessuto industriale che regge un Paese, non l'effimera economia finanziaria o quella turistica, che possono si aiutare ma non costituiscono base economica per eccellenza.
Dopo la vittoria del Sì al referendum di Mirafiori occorre riallacciare con pazienza il filo del confronto e del negoziato e cominciare a discutere di ritorno economico e di partecipazione agli utili, che poi è il compito autentico del sindacato. Alla Fiat è stata data l'opportunità che voleva per non affondare l'auto italiana e per non far deragliare anche quello americano, dove è in gioco il pieno controllo della Chrysler. A Marchionne spetta ora un compito fondamentale, quello di riconquistare quote di mercato aumentando le vendite precipitate in questi ultimi mesi, dimostrando così che oltre a padroneggiare i meccanismi della finanza è in grado di incidere anche sul successo del prodotto. Ma anche il compito di non tirare troppo la corda, riconoscendo che anche al 46% che ha votato No spetta una rappresentanza sindacale.

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