ASSERGI E LA REGINA D’UNGHERIA (TRA STORIA E LEGGENDA)

ASSERGI E LA REGINA D’UNGHERIA (TRA STORIA E LEGGENDA)

 

di Giuseppe Lalli

 

 

L’AQUILA – Il 17 novembre la Chiesa Cattolica fa memoria di Santa Elisabetta d’Ungheria. Si tratta di una delle figure più affascinanti del medioevo cristiano. Ad Assergi (L’Aquila), paese abbarbicato sulle pendici meridionali del Gran Sasso d’Italia dove lo scrivente è nato e cresciuto, nella vetusta cripta sotterranea della bellissima chiesa parrocchiale si ammira una gotica statua lignea raffigurante una misteriosa donna coronata, dolcemente sdraiata sopra il coperchio di una cassapanca contenente le reliquie di San Franco, il principale protettore dell’antico borgo. Il viso della statua presenta lineamenti assai raffinati e un garbo espressivo di rara bellezza, frutto maturo, quanto a stile, di quella scuola che, denominata “Île de France”, prende il nome dalla regione francese da cui ha avuto origine. Si tratta, con tutta probabilità, di un pezzo di una Natività raffigurante la Vergine dopo il parto, ma da sempre la voce popolare la identifica non nella regina del Cielo ma in una regina della terra: Santa Elisabetta d’Ungheria.

Una secolare leggenda vuole inoltre che la santa ungherese, quando era ancora in vita, per grazia ricevuta abbia fatto dono alla chiesa di Assergi di una quantità di argento necessaria a fabbricare l’urna che avrebbe dovuto accogliere le ossa di San Franco, la cui fama di santità sarebbe stata nota alla grande principessa. Da qui la statua, fatta fare dagli abitanti del borgo in segno di devozione e di riconoscenza. Le donne anziane del paese, come lo scrivente udiva quando era ragazzo, con la certezza che dava loro una notizia a lungo tramandata, indicando la singolare figura, sempre ripetevano all’ignaro visitatore: “È Santa Elisabetta, la regina d’Ungheria!”, e pronunciavano il nome con una inflessione della voce da cui traspariva rispetto e ammirazione.

 

Don Demetrio Gianfrancesco (1922-2004), sacerdote e storico che di Assergi fu parroco dal 1954 al 1976, nel suo libro ci ricorda che una “Santa Elisabetta” figurava alla fine del XVII secolo in una parete affrescata dell’antica e da tempo diruta chiesa rupestre assergese di “Santa Maria della Croce” (D. Gianfrancesco, Assergi e S. Franco, Roma 1980, p. 238). Ma chi era questa donna dalla vita a dir poco fiabesca la cui fama attraversa i secoli e non accenna a scemare?

Elisabetta nacque nel 1207 (il luogo preciso della nascita è tuttora incerto). Suo padre era Andrea II (1177-1235), potente sovrano d’Ungheria che per rafforzare i suoi legami politici aveva sposato la contessa tedesca Gertrude di Andechs-Merania (1185-1213), sorella di Santa Edvige (1174-1243), consorte del duca di Slesia. Elisabetta visse alla corte ungherese insieme ai suoi fratelli solo i primi quattro anni della sua infanzia. Era di carattere assai vivace, prediligeva la musica e la danza e si mostrava sempre premurosa nei confronti dei poveri, per i quali aveva non solo doni ma anche parole e gesti affettuosi.

 

La sua fanciullezza trascorse felice, fino a quando dalla lontana terra di Turingia, nella Germania centrale, vennero dei cavalieri per portarla via, dal momento che il padre l’aveva destinata ad essere sposa del figlio del langravio di Turingia (in età medievale, in Germania ‘langravio’ era titolo nobiliare attribuito a feudatari di particolare importanza), il conte Hermann, (ca. 1155-1217), uomo assai ricco e potente che in quell’inizio del XIII secolo aveva fatto del suo castello uno dei più rinomati centri di cultura in Europa. Il fidanzamento del figlio Ludovico (1200-1227) con la principessa ungherese portava lustro al suo feudo, oltre ad una ricca dote. Elisabetta lasciò la sua patria con un nutrito seguito, di cui facevano parte due ancelle che le rimarranno sempre fedeli e che saranno le migliori testimoni, dopo la sua morte, delle sue virtù eroiche.

 

Dopo un lungo viaggio giunsero a Eisenach, per salire alla fortezza di Wartburg, un massiccio castello sopra la città dove fu celebrata la festa del fidanzamento tra i due nobili rampolli. Dopo il matrimonio, avvenuto quando Elisabetta aveva solo quindici anni, mentre Ludovico imparava il mestiere delle armi, la sua giovane consorte e le sue dame di compagnia, oltre ad apprendere la letteratura e l’arte del ricamo, studiavano la lingua tedesca, quella francese e quella latina. Nonostante si fosse trattato di un matrimonio combinato dalle loro famiglie per motivi di prestigio e di potere, secondo il costume in vigore in quel tempo nelle classi gentilizie e massimamente in quelle governanti, tra i due giovani nacque e si consolidò un amore sincero, alimentato ogni giorno da un intenso sentimento cristiano.

 

Ludovico, dopo la morte del padre, alla giovane età di diciotto anni, prese a regnare sulla Turingia. Elisabetta fu presto fatta segno a qualche sommessa critica, giacché il suo stile di vita non corrispondeva esattamente ai modelli di comportamento in auge al tempo nelle corti. Profondamente sensibile qual era al richiamo evangelico, cominciò ad avvertire nel suo animo un contrasto sempre più stridente tra il suo ideale di vita e la pratica quotidiana del governo. Aveva sempre verso i sudditi lo stesso tratto che aveva nei confronti di Dio, essendo convinta che l’esercizio dell’autorità, ad ogni livello, dovesse essere vissuto come servizio alla giustizia e alla carità, nella costante ricerca del bene comune. Aliena da ogni compromesso, mal sopportava i soprusi e le ingiustizie commessi a danno dei poveri. Un giorno, come ebbero poi a riferire le sue ancelle, entrando in chiesa nella festa dell’Assunzione, si tolse la corona da regina che indossava e la depose ai piedi di una croce. Alla suocera che le rimproverava l’inusuale gesto rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”

 

Elisabetta praticava quotidianamente le opere di misericordia: dava da bere e da mangiare ai poveri che bussavano alla porta del suo castello, procurava loro i vestiti, pagava i debiti di chi non aveva il denaro sufficiente, si prendeva amorevole cura degli infermi e seppelliva piamente i morti. Uscendo dalla sua sontuosa dimora, si recava spesso con le sue ancelle a visitare i poveri nei loro miseri tuguri, portando loro pane, carne, farina e ogni genere di alimenti. È in questo contesto di radicalità evangelica che si colloca il miracolo del pane trasformato in rose: mentre Elisabetta andava per strada recando nel suo grembiule del pane da dare ai poveri, s’imbatté nel marito, che le domandò che cosa tenesse nel grembiule. Essa lo aprì e, al posto del pane, comparvero delle magnifiche rose, simbolo di carità che ricorre spesso nelle raffigurazioni della santa.

 

Il suo matrimonio, come dianzi accennato, fu dei più felici. Ma l’attendeva una grande avversità. Ludovico (che succedendo al defunto padre era divenuto Ludovico IV) nel giugno del 1227, in omaggio a quella che era una tradizione per i sovrani della Turingia, volle partecipare alla VI crociata, indetta da papa Gregorio IX (1170 ca-1241) con l’assenso dell’imperatore Federico II (1194-1250). Ma la febbre decimò le truppe che si apprestavano a partire per la Terra Santa e lo stesso Ludovico, ammalatosi mentre si accingeva a imbarcarsi ad Otranto, morì nel settembre del 1227, a soli 27 anni. Elisabetta, appresa la tristissima notizia e rimastane atterrita, dapprima si ritirò in solitudine; poi, fortificata dalla preghiera e consolata dalla speranza di riabbracciare l’amato consorte in Cielo, prese ad occuparsi degli affari di stato. Senonché, un’altra dura prova l’attendeva. Suo cognato, usurpando il governo della Turingia, si proclamò il vero erede del fratello morto e accusò la vedova di essere solo una donnetta pia e incompetente nell’arte del governo.

 

Scacciata insieme ai suoi figli dal castello che l’aveva vista sposa felice, privata della sua regalità terrena, essa si rivestì di un’altra immarcescibile regalità, quella del Cristo crocefisso, e lo fece abbracciando la spiritualità di San Francesco d’Assisi (1181/82-1226), divenendo terziaria, entrando cioè a far parte di quell’ordine francescano secolare che il genio del fondatore aveva previsto per tutti coloro che, pur rimanendo nel mondo e non facendo alcuna particolare professione religiosa, avessero voluto adottare nel loro cammino di perfezione cristiana lo stile del Poverello d’Assisi, formando così un’avanguardia cosciente di quell’immenso esercito senza armi che attraverso i secoli ha costituito la spina dorsale del cattolicesimo popolare. Da uno di quei Frati Minori che già dal 1222 si erano diffusi in Turingia essa aveva appreso la vicenda di quel giovane figlio di un ricco mercante che aveva sposato “Madonna Povertà” e di quella nobile fanciulla, Chiara d’Assisi (1194-1253), che aveva radunato attorno a sé tante ragazze assetate di assoluto, ciò da cui la vocazione alla santità di Elisabetta aveva ricevuto ulteriore conferma e più forte entusiasmo.

 

Peregrinando attraverso i villaggi della sua terra in compagnia delle sue fide ancelle diventate ormai amiche e compagne d’avventura, e dopo aver ricoverato i suoi bambini in casa di amici del marito, Elisabetta, dimentica di essere stata una regina, prese a lavorare dovunque venisse accolta, assistendo i malati e tutto sopportando con grande pazienza e immensa fede. Essendo stata poi stata riabilitata per iniziativa di alcuni parenti che consideravano illegittimo il governo di suo cognato, le fecero ottenere un reddito col quale fu in grado di ritirarsi a Marburgo, nel castello di famiglia, dove abitava anche il suo direttore spirituale, il frate minore padre Corrado, e dove il venerdì santo del 1228, quando aveva solo 21 anni di età ma già molta esperienza di vita alle spalle, alla presenza di alcuni frati e familiari, fece atto di rinuncia “alla propria volontà e a tutte le vanità del mondo”, come si legge in una lettera spedita da padre Corrado a Gregorio IX, il papa che nel 1235, a pochi anni dalla sua morte, l’avrebbe elevata agli onori degli altari.

 

Elisabetta trascorse gli ultimi tre anni della sua vita a Marburgo, nell’ospedale da lei fondato, di cui fu direttrice e ultima tra le infermiere, animatrice carismatica e infaticabile inserviente, svolgendo i servizi più umili e curando i malati più ripugnanti alla vista, quelli che nessuna infermiera aveva il coraggio di assistere e nei quali essa vedeva il volto di Gesù sofferente. Nel novembre del 1231, colpita da forti febbri, dopo una decina di giorni di malattia, chiese di poter rimanere da sola con Dio, e nella notte del 17 novembre si addormentò dolcemente nel Signore. Sembra una bella favola, e invece è un pezzo di storia vera di quel medioevo dalle forti tinte, sanguigno e luminoso a un tempo.

 

C’è ragione di credere che i nomi di “Elisabetta”, “Betta”, “Betty”, nascano tutti dall’immensa popolarità di questa gigantessa della pietà cristiana, la cui fama si diffuse assai presto in tutta l’Europa.

Per tornare alla devozione degli assergesi per questa originale sovrana che avrebbe donato alla comunità dell’argento per far realizzare un’artistica cassa in cui riporre le spoglie mortali di San Franco, c’è da osservare che il racconto, pur suscitando forti perplessità in ordine alla sua fondatezza storica (come poteva Elisabetta, che non risulta aver mai visitato l’Italia, essere venuta a conoscenza di un eremita suo coevo che viveva o che era morto da poco in una sperduta spelonca dell’Appennino abruzzese? Ma, soprattutto, perché mai l’urna d’argento fu realizzata nel 1480-81, come risulta da documento inoppugnabile, a ben 250 anni di distanza dalla presunta donazione?) spiega il grande prestigio di cui godette nei secoli passati presso il popolo cristiano questa giovane e singolare santa della carità.

 

L’improbabile storia dimostra, in ogni caso, quanto sia pervasiva e contagiosa la carità, quanta ammirazione desti in ogni tempo e in ogni luogo la pratica di questa virtù teologale, la sola che rimarrà attuale nell’avvento del regno di Cristo, quando le altre due virtù, la fede e la speranza, saranno superate, come insegna l’apostolo Paolo. La leggenda assergese, se non è documento storico, è pur sempre testimonianza delle ragioni del cuore, legame misterioso con quella comunione dei santi che attraversa come un fiume carsico tutta la storia dell’Europa cristiana, dall’Irlanda alla Sicilia, da Lisbona a San Pietroburgo. È storia che si ammanta di poesia, è colore attinto alla grande tavolozza dell’anima cristiana. Forse gli assergesi delle passate stagioni della storia, con quella felice intuizione che ha spesso accompagnato il popolo cristiano attraverso i secoli e che è istinto infallibile (ciò che la sapienza cattolica chiama “sensum fidei”), hanno voluto a loro modo rendere omaggio alla straordinaria testimonianza cristiana di una donna fuori del comune, immortalata nelle tele di tanti pittori, in Italia e in Europa: vero capolavoro della Grazia Divina da riproporre a un continente che sembra aver smarrito la sua vera anima.

 

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