Inizio o fine di un’epoca?

Inizio o fine di un’epoca?

di lorenzo merlo

 

 

L’idea predatorio-capitalistica volge alla fine? Il plinto positivista che la sorregge si sta sgretolando sotto le intemperie di crescenti consapevolezze? La matrice razionalistico-illuminista, resa impura e arrogante dallo scientismo, potrà ora confortare l’umanesimo, potrà cessare di escluderlo dal mondo? La sua intelligente missione potrà ora agevolare l’evoluzione, invece di costringerla e castrarla dentro le misere stanze del materialismo?

 

Chi ancora non li vede è preso a braccetto da quelli che fanno finta non ci siano e insieme fanno gruppo con quelli che cercano di nasconderli. Eppure, ci sono segni di decadenza economica, istituzionale, infrastrutturale, morale, valoriale. Ci sono sintomi di abbandono. L’idea salvifica del comandante che lascia per ultimo la nave che affonda non contiene più alcun conforto. La ciurma, che lungamente non aveva voluto dubitare del capitano, ora è costretta a ricredersi. Sta accadendo il contrario della purezza, della bellezza, della verità. I solidi piani su cui poggiavamo i piedi sono ora instabili. Avevamo eretto le nostre vite, sulla base di quelli, avevamo traguardato verso il futuro e fatto progetti. Rimarrà in piedi solo una parte di noi e ancora una volta saranno quelli che potranno permettersi di pagare il biglietto per la scialuppa di salvataggio. Gli altri, alla faccia della politica migratoria delle braccia aperte del Pd e dei suoi occulti soci, scivoleranno in mare. Secondo le sfacciate regole d’ingaggio della protodemocrazia, niente più che danno collaterale. Una definizione che nel vocabolario dei tecnocrati non compare, sostituita da costo del grand reset.

 

Il profitto, il consumo, la produzione, il costo del lavoro avevano esaurito i mercati tradizionali, e con essi, il potere egemonico economico-militare che ne derivava. Sebbene in vantaggio, gli americani vedevano ridursi le lunghezze che avevano sempre avuto sui diretti neoinseguitori: la Russia si era rimessa in piedi, diversi Paesi disponevano di armamenti di cui preoccuparsi, l’avanguardia tecnologica non risiedeva più solo negli Usa e il formicolare confuciano cinese in permanente ed impressionante crescita, da terzo mondo – leggi innocuo – divenne in tempi brevi, forse non previsti dagli algoritmi nostrani, argomento di cui occuparsi. A maggior ragione per la sua politica estera, di stampo estraneo a quella colonialista e neocolonialista di casa nostra. Ben accetta dai residenti, ancora memori del sanguinoso passato patito in cambio di un pugno di riso, e ancora destinatari di falsi aiuti umanitari e di vere guerre. Politica estera cinese che al momento pare in grado di offrire evoluzione economica alle società in cui è penetrata a suon di garanzie strutturali, in un certo progetto di estensione del proprio dominio politico-territoriale-commerciale. Oltre a buona porzione dell’Asia, parte dell’Africa e del Sud America sono braccio attivo al lavoro della mente pensante di Pechino. La protoautarchia paventata da Trump non appare più come la boutade di uno sprovveduto. I tempi erano cambiati, aveva capito che la gestione del vecchio registro avrebbe svenato il paese, che la politica delle guerre/vendita, armi/gestione, ricostruzione/creazione di gruppi terroristici era giunta al termine. Il suo motto, America first, non alludeva al dominio mondiale, ma alla salvaguardia degli americani in patria. Una politica protettiva che sarebbe venuta meno seguendo le esose modalità del vecchio registro.

Tra l’altro, guerre che, tanto per citare l’afghana, l’irachena e la siriana, hanno questi morti, anzi no, questi numeri, meglio, questi effetti collaterali: 400 mila civili, 7000 militari americani. Ma forse si tratta di effetti necessari, più che collaterali. Considerati indispensabili nel progetto di piazzare basi militari via via più a est, via via più utili al controllo del nuovo nemico.

Ma, Trump a parte – pubblicamente (ma non privatamente) ucciso dal suo stesso guasconismo, facile bersaglio dei detentori dei media occidentali e sicuro prodotto al mercato dell’audience dell’uomo comune, quello che si crede arguto, progressista e intelligente – l’intento globalista, Donald-precedente, fu l’idea giusta, al momento giusto. Generato dalla necessità di fare mercato, quale carbon-umano della macchina capitalista, non poteva che avanzare a qualunque costo come un elefante in cristalleria, consapevole della forza di se stesso, nonostante la crisi dei subprime, e ricco dei valori individualisti, che gli avrebbero garantito lunga vita.

Il globalismo, nondimeno indotto e permesso dalla digitalizzazione di denaro, dati e comunicazione, è forse il penultimo tentativo di far fronte al decadimento del sistema fondato dal capitalismo storico. Quello finanziario ha definitivamente spinto fuori dal nascondiglio le politiche ordoliberiste, divenute necessarie per ridurre i costi, le piccole imprese, la popolazione improduttiva, nonché i valori, le tradizioni e i confini locali, quindi le molteplici identità, quali punti d’appoggio di società e stati. Di intere identità, così rese squilibrate. Tutti elementi per ontologia in contrasto con l’esigenza di uniformizzazione dei costumi e delle amministrazioni, di industrializzazione delle menti e dei comportamenti. Esigenze contemporaneamente caldeggiate dal mito tecnologico e opportunamente salvifico del mondo del lavoro robotico e on line.

Quindi il Covid, indipendentemente dalla sua fuga accidentale o strumentale, è stato sfruttato per accelerare il processo di sopravvivenza dello status quo occidentale. Un’accelerazione a sua volta facilitata dal liscio asfalto mentale sulla quale è stata fatta correre a mezzo della semina di terrore di morte. Passo di tipo indispensabile per l’eventuale intento di riduzione della popolazione mondiale, sola sorgente eliminabile per gestire il problema ambientale nelle mani, e negli interessi, dei voraci produttivisti. Ma con la paura, altri fantasmi nanoscopici non sono da sottovalutare. Il capitalismo della sorveglianza non ha troppe linee programmatiche per continuare a riconoscersi nella primigenia identità.

Il recente G20 drago-italico non è che il gran pavese sulla grande torta dell’egemonia mondiale. Come il Pd si interessa dei diritti civili e butta a mare quelli sociali, così i grandi del mondo si impossessano del problema ambientale pur di buggerare ancora qualcuno. E ci riusciranno. La generazione che ora comprende come stanno le cose, che ha visto il messaggio diffuso dal gobbo teatrale, a breve lascerà la scena a novelli umani, ignari del recente passato, vergini sacrificali sull’altare di bromurici valori adatti a controllarli, con reciproca soddisfazione.

Dentro tutto ciò, la Nato: sempre più vuoto spauracchio, sempre meno temuto dal nemico, sempre più politico per l’Europa, sempre più vischioso tessuto dal quale non ci si riesce a liberare. Non ci si vuole liberare. Non si può liberarsi. Quante scialuppe di salvataggio avranno garantito all’Italia progressista-liberista per saldare il conto delle sue basi militari sul nostro territorio? E quante per avere appoggio non solo logistico ma anche militare? Forse il D’Alema – e non solo lui, naturalmente – può darci risposta di quanto denaro ognuno di noi spende per la Nato. Siamo cuciti a filo doppio per mantenerci culo (noi) e camicia (lei) con una struttura che ha perduto il senso originale, che si arrabatta per sostituirlo con uno adeguato ad un’egemonia mondiale ormai traballante.

 

L’opulenza distribuita a piene mani a mezzo di una cultura consumistica ha mercificato tutto, compresi sentimenti e immaginario. I padroni della comunicazione non hanno faticato ad imporre, con strategia omeopatica, il riempimento di case e pensieri. Contemporaneamente, hanno dimostrato quanto il coraggio umano possa essere ridotto a pusillanimità. Pure lei sul banco del mercato, venduta con l’etichetta della sicurezza e del buon senso. La resa di noi tutti è stata così ampia che si può definire totale.

Chi resiste non ha neanche più da doversela vedere con il cosiddetto potere. Prima di questo viene la moltitudine dei suoi simili. La marea di forza che questi esprimono corrisponde ad un’unità di grandezza nuova, non più analogica. Non si può immaginare di arrestarla, scomporla o abbatterla secondo l’emblematico esempio di Gavrilo Princip, di Thích Quảng Ðức, del Rivoltoso sconosciuto. Non c’è più l’amalgama per la rivoluzione e non c’è nemmeno più il palazzo da abbattere. Il potere risiede in stanze di case private, di stanze d’albergo, di sale riunioni. Grani di sabbia sparpagliati nel deserto del mondo.

La moltitudine ha un segno matematico insuperabile dai pochi che vorrebbero farsi ascoltare. Un dibattito civile non è e non è stato possibile, parlamentari bulgari hanno evitato anche quello politico. Nessuno dei resistenti ha potuto essere riconosciuto di dignità, né ha potuto porre domande; in compenso è stato soverchiato di affermazioni che si sono rivelate contraddizioni e menzogne, prese in giro, strategie di dominio. La stagione del Covid è emblematica del tentativo di controllo sociale a mezzo modalità protomonarchiche, possibili solo e soltanto con l’accondiscendenza di tutti. Lo zoccolo duro, fondamenta delle diffuse stanze dei pochi, non è protetto da fossi con caimani, concertine laceranti e garitte con feritoie. Placidamente alloggia nelle menti molli dei benpensanti, sostenuto da pensieri perbenisti, difeso da schiere votanti.

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