Le cose restano, noi ce ne andiamo.

Le cose restano, noi ce ne andiamo.

 

 

Di Pasquale D’Aiuto

 

Qualche giorno fa, ho ceduto la mia gloriosa tastiera al mio compariello. Lui suona la chitarra, è portato per la musica. La reclamava con determinazione da una settimana ma non ero mai riuscito a montargliela e a spiegargli i rudimenti per suonarla. Io non la uso più, i miei figli ed io suoniamo il mio santissimo Petrof che ho, di recente, rimesso a nuovo.

La mia (?) tastiera è gloriosa perché ha 25 anni, perché funziona ancora benissimo, perché credo di averla utilizzata in un centinaio di occasioni irripetibili e belle: piano-bar, concerti, ricorrenze, il matrimonio di mia sorella Isabella… Io la adoro, è un oggetto importante. Mio nipote seienne, giustamente, adesso la ritiene sua e io ne sono lieto, perché magari lo faccio convertire al pianoforte: quale migliore destino per una tastiera gloriosa, che quello di salvare dalla chitarra un bambino dotato?!

“Tu trattala bene e divertitici: in questo modo, per me è tua”, gli ho detto. Spero abbia capito che ho apposto una condizione risolutiva (o un onere, fate voi) ma ne dubito. Me la presterà, se serve. Quel che è certo è che, nelle intenzioni, la mia tastiera continua ad essere usata in modo irripetibile e bello. Che si scassi pure.

(Oh, naturalmente il fatto di essere causa di inquinamento acustico potenzialmente molesto in casa dei miei cognati è stato di grande incoraggiamento, beninteso.)

Passiamo ad altro: sto bevendo l’acqua, con autentico piacere, da bicchieri di quelli pesanti, quelli buoni, di una cinquantina di anni fa, con le immagini biancastre stilizzate in rilievo. Giusto pochi giorni fa sono entrati in casa, provenendo dal patrimonio personale di una cara defunta che credo mai avrebbe immaginato sarebbero stati utilizzati da un tizio cilentano che avrebbe sposato la sua congiunta molti anni dopo la sua scomparsa. Tra l’altro, benedico questa persona a me sconosciuta ogni volta che bevo.

Per non parlare della coperta fatta a mano da nonna Wanda-rock, capolavoro che ora giganteggia sul mio letto – la coperta, non la nonna ma è come se ci fosse pure lei – invece di essere conservata in qualche armadio. Ce ne sta un’altra, da qualche parte, di gran valore, che ora è riposta e rischia di essere dimenticata, se non mangiata dalle tarme. Per non parlare del quadro meraviglioso conservato non-dico-dove e che, invece, dovrebbe essere ammirato ogni giorno.

E il denaro? Che sia speso per quando siamo vivi ed in salute. Quel che ho, lo utilizzo. Con giudizio, certo; ma non intendo aspettare che venga mangiato da qualche nuova imposta oppure, peggio, conservarlo per il caso di malanni: in quel caso, i soldi escono comunque. Conosco tante storie di persone che hanno vissuto come disagiati pur con conti correnti a molti zeri: credo siano afflitte da qualche patologia, non vi è altra spiegazione. Perdoniamole.

Chiedo venia se torno ai bicchieri: chi beve lo spumante nei bicchieri di carta oppure in quelli da acqua? Io uso i calici oppure, se sono nostalgico, la coppa, quella che dovrebbe garantire la perfezione del seno femminile, per intenderci. Pure se sto da solo (il che non vuol dire che beva da solo ma ci siamo capiti). I gioielli? Mia moglie li indossa. Sennò, a che servono? I mobili di pregio: si restaurano e poi si utilizzano. Ci si poggiano gli oggetti sopra, i bambini possono usarli come basi per le loro costruzioni; se una sedia ci sbatte, pazienza.

Noi siamo vivi ora. Non sappiamo che sarà il futuro. La vita è brevissima e matrigna. Gli oggetti camperanno molto oltre noi: non voglio dar loro la soddisfazione di non avermi adeguatamente servito, come devono fare le cose. Perché, fatalmente, le cose restano e noi ce ne andiamo.

 

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