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Quando Pasolini non capì Pavese o non lesse la sua opera nonostante il suo giudizio

Pierfranco Bruni

Pasolini non capì che uno scrittore vero e un maestro non può, aggiungo: non dovrebbe,  dare “giudizi” sulla scrittura e sul linguaggio del dolore, della parola di chi ha dedicato la vita a scrivere. Scrittura come morte!
Un maestro ascolta e osserva e diventa testimonianza di tempo, e non registratore di umori, con la pazienza diverosa del silenzio, senza farsi catturare dal pettegolezzo delle ideologie che non sono Pensiero. Ma schieramento.
Lo scrittore maestro scava nella Ragione e nel Mistero. Lascia lezione di memoria e di vita.
Pasolini è il testimone di una temperie rabbiosa che ha tentato di umiliare la tradizione cercando di recuperare la tradizione stessa nello sperimentalismo di un trasumanar da Commedia fallita.
Anche il mio è un giudizio? No. È un leggere i documenti. Non la storia bugiarda o la clientela effimera della “storia siamo noi”. Non può esistere una “storia siamo noi” perché la storia è menzogna scritta, nell’immediato, con una documentazione dimezzata senza il sentimento della verità della memoria.
Pasolini è un progetto fallito dal punto di vista dell’innovatore. Lo è come scrittore e poeta nella complessità, tranne sprazzi di episodicita. La mia non è ribellione. È leggere a distanza di decenni pagine e verifiche.
Sciascia è un’altra statura. È un maestro. Anche perché Leonardo ha avuto il coraggio di ripensare e di scavare nelle eresie. Il punto tra i due dove sta? Pasolini resta dentro l’ipocrisia cattolica arrogante della non tolleranza dogmatica e non conosce la pazienza.
Leonardo è dentro l’enigma e la Ragione di “Candido” e di Montesquieu oltre che in Pirandello e il “cavaliere” di Dürer. Si è riconsiderato su Tomasi di Lampedusa. Questo è una singolare lezione che va oltre la misura storica della critica.
Pasolini oltre i versi dedicati alla madre e “Casarsa”, che resta un “riferimento”, al quale ho dedicato un libro, tra i tanti della poesia volgare da Trilussa a Marin, da Belli a Noventa, resta un giornalista, anzi il giornalista delle “lucciole” con una incompleta meditazione su Medea, San Paolo e Cristo.
I suoi versi sui “figli di papà” di Valle Giulia sono residui di un interrotto discorso. Salò, nel cinema, è solo volgarità di immagini.
Se l’arte deve essere anche volgarità sarebbe inutile parlare di estetica, perché se la “passione” si lascia aggredire dalla “ideologia” non solo si decreta l’ecce omo, ma anche la morte dell’arte stessa. La mia non è una preclusione nei confronti di Pasolini. Bensì una visione sia di arte che di vita. Ognuno pensi quello che vuole ma i documenti restano e firmano il tempo e l’arte nella sua contrapposizione delle conoscenze e formazione.
Le parole di Pasolini pronunciate per attaccare duramente Cesare Pavese sono il Pasolini che si autodefinisce in una cattiveria senza pensiero e mediazione o meditazione antro – religiosa. Un giudizio marcatamente fuori dalle esperienze estetiche desanctiasiane: il grande poeta della critica al quale resto legato per serenità di sguardo.
Pasolini infarcito di cattolicesimo comunista si erge a giudizi inquisitori, come erano in uso negli anni Cinquanta, ma ancora oggi. Invito ad ascoltare le parole pronunciate per aggredire Pavese, considerandolo uno scrittore marcatamente provinciale e senza universalismo poetico.
Il resto è cronaca. Ovvero è giornalismo dal corto respiro. La scuderia Moravia – Pasolini è stata la “tavola” di un processo inquisitorio che, comunque, non lascia alcun segno. Un esercizio che si è concluso nel reportage e non nell’opera mondo come in Pavese o D’Annunzio o Sciascia.
Pavese è un gigante. Un anticipatore. Un maestro. Ha interloquito con il mito di Leucò per definire la memoria omerica di un mediterraneo che è estetica e filosofia oltre ad essere antropologia.
È stato un tempo terribile quello del post anni Cinquanta del Novecento. Dopo il suicidio di Pavese sono emersi quelli che Pavese non “giudicava” perché non meritavano alcun giudizio. Da Pasolini a Calvino, il post Pavese, la letteratura h aespresso il relativo, non l’esuberanza dell’assoluto ma la cifra del mito.
Il mio è un giudizio?
Le civiltà letterarie vanno lette con la forza delle contraddizioni, delle comparazioni, delle contaminazioni. Delle provocazioni senza polemica dubbia.
Pavese, nel 1950  aveva scritto già tutto, detto tutto, pubblicato tutto compreso il rapporto tra lingua e dialetto con la vera forza del “volgare eloquentia”. Perché? La pazienza è grandezza. La pazienza è consapevolezza.  L’intolleranza è nell’intelligenza di non farsi aggredire dalla incapacità altrui. Il giudizio su Pavese, sottolineanato con la crudezza di Pasolini,  inficia un’intera ricerca sia essa letteraria che estetica e della passione rimane soltanto l’ideologia. Semplicemente. Pasolini non capì Pavese o non lesse Pavese nella complessità dei suoi scritti e della sua opera.

 

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