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Lettera di più di 300 iraniani-americani chiede sostegno al popolo dell’Iran, nessuna agevolazione per il regime

Mercoledì è stata inviata una lettera al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che portava le firme di oltre 300 accademici, professionisti e imprenditori iraniano-americani. La lettera ha salutato con favore la decisione della Casa Bianca di rifiutare l’esenzione dalle sanzioni al regime iraniano in attesa del suo pieno ritorno al rispetto dell’accordo nucleare del 2015, ma ha anche esortato l’Amministrazione ad adattare la sua politica iraniana a una serie di priorità molto più ampia.

Nel notare che la posizione di Biden sui negoziati sul nucleare “dà speranza”, i firmatari lo hanno anche messo in guardia dal ripetere gli errori che ritengono si siano verificati più volte nei circoli politici occidentali durante tutti i quattro decenni di storia del regime iraniano. La lettera ha suggerito che innumerevoli responsabili politici hanno accettato una “favola” riguardante le fazioni politiche nel regime iraniano e che questo li ha portati a fornire concessioni non meritate nella speranza di favorire funzionari “moderati” che potessero sovrintendere a serie riforme del sistema teocratico.

Questo fenomeno è stato messo chiaramente in evidenza nel 2013 con l’elezione del presidente del regime Hassan Rouhani.

Alcuni politici occidentali espressero effettivamente grandi speranze per il programma di riforme di Rouhani, e questo apparentemente contribuì a motivare il perseguimento americano ed europeo dei negoziati sul nucleare che avrebbero portato, nel 2015, al Piano d’Azione Globale Congiunto. Ma le aspettative di una riforma ampia sono state rapidamente temprate dalle notizie delle continue repressioni del dissenso all’interno dell’Iran e dalla persistente belligeranza nella politica estera del regime, che prende di mira tutti gli alleati tradizionali degli Stati occidentali sia nel mondo arabo che in Occidente.

Per i firmatari della lettera di mercoledì, queste attività maligne non sono solo la prova che il sostegno occidentale ai “moderati” dell’Iran è infondato; sono conseguenze dirette di quel sostegno. Le politiche conciliative – dice la lettera – hanno “portato a perdita di opportunità, risultati devastanti e enormi sofferenze per la popolazione in Iran e nella regione”.

Quella sofferenza è stata particolarmente visibile agli osservatori più attenti degli affari iraniani negli ultimi anni, poiché gli attivisti iraniani in tutto il Paese hanno affrontato una reazione sempre più violenta contro le loro sfide al sistema teocratico. Negli ultimi giorni del 2017, una protesta nella città di Mashhad fornì la scintilla per una rivolta nazionale che continua ad avere ramificazioni fino ai giorni nostri. Sebbene la protesta iniziale fosse incentrata sulle crescenti ingiustizie economiche, la sua diffusione nelle regioni circostanti è coincisa con lo sviluppo di un messaggio antigovernativo più generale.

Come fu riportato, a metà gennaio del 2018 i manifestanti in più di 100 località gridavano slogan come “Morte al dittatore”. E – cosa forse ancora più significativa – la rivolta respinse anche le narrative occidentali su fazioni “intransigenti” e “riformiste”, chiamando ad alta voce entrambe le fazioni con gli stessi slogan e dicendo: “Il gioco è finito”. Gli stessi slogan sono apparsi ancora una volta su scala nazionale nel novembre 2019 e nella lettera di mercoledì è scritto che inequivocabilmente queste e altre proteste hanno espresso in modo “forte e chiaro” un desiderio popolare di cambio di regime.

Le autorità del regime iraniano probabilmente concordano con questa valutazione, come evidenziato dal peggioramento della gravità della loro risposta repressiva. Mentre la prima rivolta portò a diverse decine di morti nel corso di circa un mese, la rivolta del novembre 2019 è stata schiacciata nel giro di pochi giorni dopo che le forze guidate dal Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica hanno aperto il fuoco su folle di manifestanti, uccidendo circa 1.500 persone. Altri 12.000 attivisti sono stati arrestati in quel periodo, e Amnesty International in seguito ha riferito che molti di loro sono stati sottoposti a tortura per settimane.

La lettera di mercoledì è stata senza dubbio motivata in gran parte dal desiderio di un intervento politico occidentale per prevenire ulteriori atti di repressione dello stesso tipo. Ma i firmatari hanno anche evidenziato i modi in cui tale azione sarebbe nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dei loro alleati.

“Per reprimere la rivolta popolare, il regime ha unito l’intimidazione all’interno al terrore all’estero” – si legge nella lettera, che aggiunge che “negli ultimi anni, il regime clericale ha esteso le sue operazioni terroristiche in Europa e negli Stati Uniti”. Ciò è stato confermato a febbraio quando un tribunale federale belga ha emesso verdetti di colpevolezza per quattro partecipanti a un complotto per attaccare con esplosivi un raduno di attivisti iraniani espatriati e loro sostenitori politici occidentali appena fuori Parigi.

L’accusa, in quel caso, ha chiarito perfettamente che l’operazione, guidata da un diplomatico di rango dell’ambasciata iraniana a Vienna, era diretta da autorità di alto livello all’interno della dirigenza del regime. Il tentato attacco con esplosivi al raduno “Iran Libero” è stato solo uno dei numerosi incidenti che sono stati esposti nel solo 2018, e presumibilmente non è una coincidenza che quello e almeno un altro siano stati diretti contro gli attivisti dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (OMPI/MEK) – un gruppo al quale il leader supremo del regime iraniano Ali Khamenei ha attribuito la pianificazione e l’agevolazione della rivolta all’inizio di quell’anno.

Il sostegno organizzato al movimento di protesta potrebbe spiegare perché esso si riprese dalla repressione iniziale e riemerse in quasi il doppio delle località nel novembre 2019, nonché perché si riprese dalla repressione ancora più grave di quella rivolta e si riaccese nel gennaio 2020 dopo che le autorità del regime avevano tentato di coprire il loro attacco missilistico contro un aereo di linea commerciale vicino a Teheran.

In recenti dichiarazioni e conferenze, il MEK e il Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran hanno sostenuto che ulteriori rivolte sono ancora all’orizzonte, come dimostrano le proteste a livello nazionale di una popolazione di pensionati sempre più impoverita, gli scontri tra cittadini e autorità in luoghi come la provincia di Sistan e Belucistan, e crescenti appelli al boicottaggio delle imminenti elezioni presidenziali, il cui esito è in gran parte predeterminato.

In un discorso a politici tedeschi e agli attivisti iraniano-tedeschi giovedì, la presidente-eletta del CNRI, Maryam Rajavi, ha dichiarato che “la fiamma della resistenza sta sorgendo di nuovo in tutto l’Iran” e ha esortato i responsabili politici occidentali su entrambe le sponde dell’Atlantico a considerare da che parte staranno quando il popolo iraniano si scontrerà la prossima volta con il regime clericale. La lettera di mercoledì al presidente Biden è sembrata presentare una sfida molto simile, riferendosi nella sua conclusione a una “opportunità storica per sostenere il popolo dell’Iran”.

Tenendo conto dell’interesse di sfruttare questa opportunità, gli iraniano-americani hanno detto: “Chiediamo rispettosamente che la vostra Amministrazione sviluppi e attui politiche decisive e una tabella di marcia che si schieri con il popolo iraniano e il suo legittimo desiderio di un Iran libero, laico e democratico”.

In termini pratici – indicava la lettera –, ciò implicherebbe continuare a rifiutare l’esenzione dalle sanzioni. “Nessuna sospensione delle sanzioni o concessione dovrebbe essere fornita al regime iraniano, a meno che quel regime ponga fine in modo verificabile alle sue violazioni dei diritti umani in Iran e al terrorismo all’estero e abbandoni il suo sostegno distruttivo ai propri mandatari nella regione”, dichiarava la lettera.

Questa è, ovviamente, una dura sfida per un regime che finora ha insistito sul fatto che non tornerà a rispettare i termini preesistenti del PACG a meno che gli Stati Uniti non rimuovano prima tutte le sanzioni imposte o reimposte dal 2018, immediatamente e senza condizioni.

 

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