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LA CULTURA DEL PROCESSO CIVILE E LA VIRTÙ DELL’INTERESSE COLLETTIVO

di Domenico Bilotti

L’antropologia forense del post-moderno poggia sul primato emotivo del rito penale, quali che siano le sensibilità ermeneutiche che lo connotino in concreto: la riflessione sulle norme di protezione a beneficio delle vittime di reato, le tesi abolizioniste sulla pena detentiva, gli argomenti di paternalismo giuridico sull’inasprimento delle misure, le tecniche dell’interrogatorio, la suggestione per i profili psicologici o per quelli comparatistici.

Acquisisce oggi rinnovata autonomia, e non certo solo una nuova etichettatura, il rito amministrativo: se quel contenzioso tanta fatica ha fatto a emanciparsi dalla dogmatica civilistica, sul piano dei moduli decisionali e delle situazioni soggettive coinvolte non è né forse sarà il rito di una pariteticità sostanziale. Sin dal diritto amministrativo napoleonico, che più della stessa codificazione privatistica permea tutt’oggi le strutture dell’agire relazionale tra il cittadino e le PP. AA., il potere dello Stato – anche quando sempre più spesso approcci gli istituti negoziali dello scambio intersoggettivo privato – fonda un’interlocuzione processuale non sempre bilanciata.

In questo scenario, dove pure peso crescente, anche in termini di pratica forense, acquisisce il contatto qualificato col giudizio di legittimità da un lato e con le giurisdizioni internazionali dall’altro, il processo civile rischia di vedere la sua cultura fondativa eclissata da altre forme regolative. È certo in espansione il diritto commerciale processuale, per la sua tipicità formale e anche per la vitalità e non sempre l’organicità dei suoi strumenti di risoluzione antecedenti al giudizio propriamente detto. A cavallo tra interesse privato e azione d’autorità, sta il diritto tributario processuale, di caratteristica farraginosità tale che in fondo le reiterate petizioni di principio per un suo totale assorbimento nella sfera del penale ci sembrano a un tempo improvvide e a un altro eccessive.

Il punto è che il negletto contenzioso civile della quotidianità – quello che produce tutto sommato modesta movimentazione economica e scalfisce in misura normalmente incruenta le dimensioni esistenziali della persona – ha in realtà un lignaggio e un’istitutiva centralità che non pare giusto mettere in parentesi.

Nella rappresentazione sociale del fenomeno giuridico contenzioso, le controversie tra privati sono gli indici qualificanti di una cultura nazionale della legalità. Ed è forse per questo che il nostro ordinamento ha malvisto due transizioni pur importanti, ma che non rientravano a fondo nella nostra percezione del processo. L’introduzione di istituti di conciliazione è sembrata una tentata riforma a costo zero per l’immissione di nuova professionalità e possibilità occupazionale, eppure, viepiù così tipizzata, quella ormai datata novella è assai distante dalla tradizione italiana della res litigiosa e non ha la forza né l’attitudine a correggerne i pur chiari disvalori. La crescente digitalizzazione ha poi rinforzato l’uso processuale-formale dello strumento elettronico, per quanto parti non irrilevanti del mondo libero-professionale abbiano più o meno giustamente inteso il rito telematico come una semplice smaterializzazione e proliferazione degli adempimenti e degli oneri.

Una cultura positivistica della tecnologia avanzata (come nel diritto nipponico) o una propensione metodologica forte alla composizione ante-giudiziale (nel mondo anglosassone) o almeno arbitrale (nelle realtà nord-europee) o, ancora, l’ininterrotta devoluzione a giurisdizioni non statuali (come in parte del mondo arabo-islamico) intersecherebbero probabilmente queste dinamiche con minori apprensioni del diritto italiano.

Se ci si impone perciò un costante sforzo di traduzione interculturale dell’atto processuale al fine-scopo del suo darsi a presidio del diritto da esercitare, quel lavoro di attualizzazione non può prescindere dagli assi fondanti della nostra cultura della giurisprudenza e della legge. Dovrà semmai attutirne le problematicità, ma è sin troppo chiaro che un’efficace prasseologia del rito civile, non lenta nelle cautele e non avventurosa nelle decisioni e peggio nell’esperimento delle azioni, è per strano che sia la quintessenza di una società civile in salute, partecipe, libera, responsabile.

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