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PEPPINO MONTANARO E I SUOI ULIVI SECOLARI

di Franco Presicci

I rami degli ulivi formano una specie di galleria, nella masseria Accetta Grande, a Massafra. Tra un varco e l’altro il sole filtra trionfante, arabescando sul terreno lame di luce. Gli ulivi, dalle forme capricciose, che danno spettacolo a chiunque venga a visitare la Puglia, furono messi a dimora in tempi antichissimi come dimostrano alcuni documenti rispolverati da Vincenzo Antonio Greco e riproposti nel poderoso e informatissimo volume arieggiato da straordinarie immagini a colori: “I 4000 anni di Accetta, fra monaci, massari e galantuomini”, edito da Kikau.

Passeggiammo una domenica di luglio 2011 sotto queste fronde, conversando piacevolmente e osservando i tronchi monumentali, orgoglio del padrone di casa, Peppino Montanaro, che faceva da guida a me e al professor Francesco Lenoci, che memore della sacralità dell’ulivo – i luoghi di culto degli etruschi tra gli uliveti e il Monte degli Ulivi, dove Gesù passò l’ultima notte prima della cattura…- stimolò Peppino a raccontare la sua vita esemplare. Lui era un po’ imbarazzato a parlare di sé, e rispose che lo avrebbe fatto la prossima volta. Lo incalzai: “Tu sei un formicone di Puglia e io un ficcanaso di professione: devo insistere, facendomi perdonare. Non posso tornarmene a Martina Franca con il carniere vuoto, come un cacciatore che non sa prendere la mira”. Sorrise, forse pensando: “Ficcanaso e rompiballe”. Proprio così.

Sposato (oggi purtroppo vedovo) con la deliziosa, dinamica, ferratissima Maria Rosaria, tre figli, Ilaria, Donato, Filippo; titolare di questo immenso patrimonio, terra un tempo arida, selvaggia e oggi, grazie a lui, fertile, affascinante. A portarmi da Montanaro era stato proprio Francesco Lenoci, autore di 35 volumi di finanza aziendale, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, valorizzatore viaggiante delle imprese più rilevanti del nostro Paese. Giunti a Massafra, dove l’abitato è diviso dalla gravina di San Marco e vanta alcune delle cripte basiliane più importanti della regione, ritrovai un paese che non vedevo da una ventina d’anni, forse più: figurarsi la gioia.

Nei venti minuti di viaggio dal mio trullo su via Mottola a Martina, Francesco mi aveva abbozzato la personalità dell’uomo che stavo andando ad incontrare, dal quale fui accolto con grande cortesia fra palme e gelsomini subito dopo il cancello. All’interno della sua elegantissima e luminosa residenza, fui colpito da un cavallo di ferro nell’atto di spiccare un salto per superare un ostacolo. L’autore di questa efficacissima scultura era lui, l’anfitrione.

Dopo i convenevoli, Lenoci suggerì di mostrarmi le sue quattro masserie; e così c’imbarcò su un’auto e partimmo. Prima tappa, gli ulivi, in doppia fila per 600 metri, della Accetta Grande, che la famosa architetta Gae Aulenti aveva definito “La cosa più visibile del pianeta Terra dal satellite dopo la Muraglia Cinese”. Che soddisfazione per Montanaro, essendo stato lui a far spostare quei monumenti dall’Amastuola, altra sua architettura agricola, dove un archeologo olandese aveva scoperto un villaggio dell’antica Grecia, a Crispiano (la città delle cento masserie). Tutti e tre in silenzio ammirammo l’ambulacro vegetale, pensando ai millenni che questi testimoni senza parola hanno attraversato.

Poi, all’Amastuola, corpo di fabbrica signorile, lanciammo lo sguardo ad un altro fenomeno stupendo, la vigna a onde, anche questa voluta da Peppino, ricco di idee geniali e di multiformi esperienze, intelligente e generoso, su progetto realizzato da Fernando Caruncho, architetto di livello internazionale, filosofo e paesaggista, vero grande artista nel creare l’agricoltura come giardino.

Peppino sembra un parroco di campagna, saggio, benevolo e comprensivo. Tra l’altro delicato nei modi, voce bassa, parole ben dosate, nessuna enfasi. Già da ragazzo, scuola e lavoro. Non aveva ancora 13 anni e nelle vacanze pascolava le pecore del nonno massaro. Poi prese a fare il sarto. Poco tempo dopo dall’ago passò alla cazzuola; e aiutando a costruire muri realizzava, con esiti apprezzabili, sculture di tufo, materiale non “sordo all’intenzion dell’arte” e utilizzato per innalzare palazzi. Dalla cazzuola al maglio e all’incudine il passo fu breve.

A 14 anni e mezzo, agricoltore. L’Ente Riforma assegnò al padre una palazzina con tre ettari di terreno nella zona di Paternisco, e lui si mise anche a scavare buche per gli alberi dalle parti di Palagiano. Trentadue lire a buca, di un metro cubo ciascuna. E inventò un sistema per accrescere la produttività, modificando zappe, picconi, pale, servendosi di ciò che aveva appreso lavorando in precedenza da fabbro. Da solo faceva 60 fossi al giorno. E intanto poneva attenzione agli specialisti che installavano gli impianti d’irrigazione. Ci mise poco a imparare a farli per sé. E per gli altri: a cabina, con la vasca di sollevamento.

“In casa eravamo cinque figli, e dovevo darmi da fare. A 18 anni, nell’esercito, a Spoleto, paracadutista sabotatore. Fui allontanato perché non era arrivato il nullaosta dai miei genitori”. Da un commilitone geometra, pratico di serramenti metallici, apprese la teoria del mestiere e fu assunto in una officina di Massafra, diventando preciso e veloce. Costruì un capannone sulla via Appia per la fabbricazione di quegli elementi, e poi un altro nell’aerea industriale con impianti innovativi. Acquistò terreni e li trasformò, stabilendo contatti con professori universitari della California. Appassionato di sopravvivenze elleniche, avrebbe voluto averne tante da custodire in teche particolari nel suo Kikau-store dotato di una “scatola nera” per esposizioni. Nel giardino dell’edificio si svolgono attività culturali, tra cui conferenze. Ne aveva tenuta una Francesco Lenoci sui giovani e don Tonino Bello, figlio di un maresciallo dei carabinieri nominato vescovo nell’82 da Papa Giovanni Paolo II e in odore di beatificazione.

Il tempo purtroppo è avaro. Passammo davanti al modernissimo opificio di Peppino Montanaro, dove gli operai trasformano in vino il sangue delle sue viti (centinaia di migliaia di piante) e pensai ai tanti mestieri che questo signore aveva praticato e alle bellissime opere che aveva creato. Avrei voluto fermarmi ancora ad ascoltarlo, per approfondire la sua conoscenza. “E’ davvero un formicone di Puglia; un esempio della nostra regione che cammina. Un orgoglio, un vanto di questa nostra terra. Straordinario”, sussurrai a Lenoci. “Ti avevo detto che ti avrei fatto incontrare una persona importante, con una storia quasi singolare”. Pensai a Fernando Caruncho, che aveva collaborato a realizzare la vigna a onde; a Gae Aulenti e a quegli ulivi secolari, saraceni, imponenti, austeri: uno così possente che per cingerlo occorrono una decina di braccia.

Montanaro mi invitò a pranzo, ma dovevo tornare a Martina per un altro appuntamento. E volle regalarmi alcune bottiglie del suo vino. Io non bevo, ma le accettai promettendomi che un paio di centimetri di nettare li avrei ingoiati per un brindisi in suo onore. Ci salutammo con l’impegno di rivederci.

E ci siamo rivisti a Taranto, l’anno scorso, nella splendida galleria del Castello Aragonese, in occasione della mostra fotografica di Cataldo Albano sulle caratteristiche paesaggistiche della città dei due mari: il fiume Galeso, il Mar Piccolo con i pescherecci e le lampare, il ponte girevole, i tramonti fiammeggianti sul Mar Grande… Purtroppo lui fu una meteora: il suo calendario era strapieno e lo richiamò prima della conclusione della serata. A Taranto probabilmente sarà tornato mercoledì 15 luglio, giorno in cui Francesco Lenoci ha tenuto una “Lectio Magistralis” al molo Sant’Eligio su “La sostenibilità è armonia del pianeta”. Io spero d’incontrarlo al “Vinitaly” di Verona, dove ogni anno Montanaro espone i suoi vini, che esporta in tutto il mondo.

La sera della mostra al Castello raccolsi il pensiero di Michele Annese, direttore di “Minerva”, ex segretario generale della Comunità Montana di Mottola e già valentissimo direttore della Biblioteca “Carlo Natale” di Crispiano. “Peppino Montanaro? Persona di grandi capacità e disponibilità. Illuminata, di compagnia, dalla battuta di spirito garbata. Le cose le sempre fa bene, ad alto livello. Quando trapiantò i suoi ulivi si accesero numerose e accanite polemiche, convinte che quegli alberi non avrebbero resistito al ‘trasloco’. Invece, eccoli lì, belli e superbi, esaltati da quanti vanno a vedere la masseria, a suo tempo impreziosita da Montanaro. Una vittoria significativa sulle critiche, che non mancano mai e a volte sono pretestuose contro le persone che hanno stoffa da vendere”. E giacché c’ero, chiesi ad Annese notizie del suo libro “La Biblioteca di Crispiano”.  “L’ha pubblicato Schena. Nelle sue 600 pagine contiene anche l’intera relazione del professor Gert-Jan Burgers, docente presso la Libera Università di Amsterdam, autore della scoperta del villaggio dell’antica Grecia all’Amastuola e presentata anni fa ad un numerosissimo pubblico nella via principale di Crispiano”, che si snoda dalla piazzetta antistante la chiesa della Madonna delle Neve. Complimenti.

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