La triste fine del sogno europeo

Il progetto europeo non è una novità, è vecchia storia, ma di certo non è come alcuni vini che invecchiando diventano più buoni, anzi esso, per come più avanti discetteremo, più invecchia e più va in malora. Vogliate credere, non si tratta di un’espressione pleonastica, ma di un’amara constatazione, una presa d’atto fenomenologica e asettica della realtà.

 

Julien Freund, filosofo e autore de “La fine dello spirito europeo“, edito nel 1980 ma pensato e concepito sin dagli anni ´50, ritiene che gli europei siano arrivati al capolinea e che il problema Europa non sia solo l’effetto di una lunga crisi, ma il disfacimento di un’età storica: la fine della prima civiltà di segno universale che il mondo abbia conosciuto. E per dare senso al pensiero di Freund bisogna ritornare molto indietro nel tempo, all’antica Roma.

In realtà fu Roma a creare il primo progetto europeo, la prima Europa, unita da un’unica lingua (latino), da un unico corpo di leggi (diritto romano), da un unico modello urbanistico e infrastrutturale e dalla stessa moneta (il denario rimase la moneta più importante dell’impero fino alla riforma monetaria di Caracalla). Fra il IV e il V secolo d.C., però, l’Impero Romano, come noto a tutti, visse la sua fase agonica.

Crisi sopra crisi: demografica, economica, identitaria, morale, sociale e, non ultima, immigrazionale fuori controllo. Queste furono le principali cause che minarono la struttura di uno Stato che da sei secoli reggeva, tenendo assieme, buona parte del mondo conosciuto.

La storia si ripete in chiave moderna?

Purtroppo, sotto certi aspetti, sì: le cause del collasso europeo sono, infatti, come per l’antica Roma, sia endogene che esogene. Dopo oltre 70 anni di pace e prosperità nel Vecchio Continente, un morboso razionalismo a sfondo teofilantropico e un malefico globalismo capitalistico hanno lentamente e inesorabilmente oppiato le menti dei popoli e dei governanti della rinnovellata Europa, quella nata come Comunità Economica Europea con il trattato di Roma del 25 marzo 1957.

La nuova Europa, in realtà, era stata concepita con buoni propositi e da grandi statisti, ma – strada facendo e per i motivi che tratteremo – si è purtroppo deteriorata fino a perdere l’anima; di essa è rimasto il solo corpo.

La crisi economica, ma soprattutto morale e valoriale, nonché il tarlo di un capitalismo egemonico hanno bandito gli originari valori di uguaglianza e di solidarietà, propri dell’Unione, producendo nell’ambito della stessa una nuova società, una società artificiale o, se vogliamo usare un concetto deleuziano, una società sotto controllo.

Ed è per questo che siamo al punto in cui ci troviamo: all’agonia europea, così come accadde all´Impero Romano a partire dall’anno 476 d.C. Un’agonia, tutto sommato, di cui siamo, chi più chi meno, tutti responsabili anche se, in una visione più ampia, essa non è solo europea, ma – a causa dei mali del nichilismo postmoderno – planetaria.

In altre parole, il male esterno che ha minato il futuro dell’Europa è rappresentato dall’uniformazione del nostro mondo e dal globalismo (definito crimine perfetto da parte dei sociologi del prestigioso Bennet Institute for Public Policy dell’Università di Cambridge), mentre il male interno dall’incapacità del governo europeo di mantenere saldi i valori fondanti dell’Unione e di armonizzare e sintonizzare il nazionalismo col globalismo.

Evitare detti mali non sarebbe stata impresa facile né alla portata di gente comune, ma non impossibile! Purtroppo i grandi leader, che a noi mancano, sono merce rara e ce lo rammenta anche Arthur Schopenhauer allorché afferma: “Si sappia che le menti mediocri sono la regola, le buone l’eccezione, le eminenti rarissime e il genio un miracolo”.

Persa quindi la possibilità di realizzare col progetto Europa, intendasi UE, un baluardo di difesa contro la barbara invasione del regresso socio-culturale e della massificazione psico-sociologica, saremo ridotti a vivere come dei numeri nella c.d. società del controllo in cui la vita dell’uomo è costantemente monitorata dal potere, così come preconizzato da Gilles Deleuze nel suo saggio intitolato “Poscritto sulle società di controllo”, pubblicato nel 1990.

Il potere assoluto di controllo, ovvero il “Panopticon”, inteso come tropo di un potere invisibile, che ha sempre affascinato pensatori e filosofi come Michel Foucault, Noam Chomsky, Zygmunt Bauman e lo scrittore britannico George Orwell nel noto romanzo 1984, oggi è onnipresente; già invade le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre azioni, i nostri modi di vivere come un Grande Fratello, che raccoglie i dati e li converte in algoritmi.

E ancor più grave è che l’essere controllati non ci preoccupa più di tanto: siamo stati “convinti” a rinunciare alla nostra riservatezza e ad accettare, con o senza la nostra autorizzazione, un processo di massificazione in cui gli individui sono diventati dei manipolabili campioni statistici di dati per i mercati.In altre parole, l’uomo dall’aristotelico animale politico è stato trasformato in anòdina pedina di profitto del mondo massificato.

È così che noi viviamo!

Esiste una via d’uscita? Nessuno ha una risposta in merito né tampoco i prodi responsabili del nostro benessere che guazzano nella loro insufficienza e mediocrità. A questo punto cosa resta della nostra Europa e del nostro mondo? Cosa ci riserva il futuro?

Purtroppo, ormai siamo tutti caduti nella “rete” del sistema massificato e, senza farci illusioni, ci aspetta un progressivo e pauroso processo che cancellerà il nostro passato, che adultererà il nostro presente e che renderà tragico il futuro; il nostro, dell’Europa e del mondo intero.

A meno di miracoli, vae nobis! (poveri noi!). E se è vero, per come asserisce lo scrittore Ernst Jünger, che in ogni caso la speranza conduce più lontano della paura, non possiamo che affidarci scaramanticamente a questo vecchio adagio: la cosa più incredibile dei miracoli è che essi accadono.

Che vi devo dire; speriamo bene…

Giuseppe Arnò

Direttore ed editore de La Gazzetta italo brasiliana

http://rivistalagazzettaonline.info/articolo/3123/editoriale-ottobre-2020

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