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Una indecifrabile pratica politica

 

di Vincenzo Olita

Sul terreno politico sono innumerevoli le differenze che si avvertono tra i primi cinquant’anni della Repubblica e gli ultimi venticinque, ma sono l’incomprensibile pratica politica e il conseguente disorientamento, che rasenta l’anomia, a costituire il nocciolo duro della diffusa disaffezione popolare verso l’azione politica e i suoi attori.

Il 20 settembre ci esprimeremo sul referendum che prevede un consistente taglio dei parlamentari, il risultato è del tutto scontato, purtroppo prevarranno i sì, nel Paese non vi è spazio per ragionare sulle conseguenze, l’elettorato ha colto quest’occasione per umiliare una politica che, in un vuoto di credibilità, è quanto mai distante dalla realtà fattuale.

Fino agli anni ’90 la classe dirigente dei partiti, dal PCI al MSI, rappresentava per i propri elettori un riferimento culturale, ideologico, prima che politico e, con votanti non inferiori all’80% dell’elettorato, funzionalità del sistema e coesione sociale erano assicurate. Un’osservazione attenta del presente ci dice che così non è più, abbiamo presuntuosamente certificato la fine delle ideologie e quindi delle culture sottostanti, un insignificante nuovismo ci ha convinti del superamento della destra e della sinistra in favore di un’aideologica politica del fare, cioè dell’agire in assenza di un sistema di pensiero capace di dare coerenza alle scelte e all’azione politica. La sua non riconoscibilità porta a non comprendere compiutamente l’essenza della Destra dell’on. Meloni, della Sinistra del segretario Zingaretti, dell’evanescente Federalismo della Lega o del nullismo dei 5Stelle e, ancor più, delle scissioni e delle diaspore dalle case madri.

L’analisi di sistema per essere tale non può ridursi a considerare sfumature della complessità del reale come architravi di un pensiero sagace, oltretutto facilmente strumentabili e manipolabili, sarebbe un errore politicamente rovinoso, come il far credere che un valore etico quale l’onestà, elemento prepolitico o ancor meglio apolitico, debba e possa essere punto programmatico e riferimento per la competizione partitica. E’ vero, poiché la pratica politica è finalizzata alla costante ricerca del consenso, spesso si crede che l’utilizzo di ogni filone dialettico possa essere funzionale allo scopo, ma così non è. Elemento politologico da non sottovalutare nel confronto politico è anche l’individuazione di una dirigenza che esprima una leadership naturale, in grado di interpretare realtà e situazioni e capace di delineare, tratteggiandolo, il futuro prossimo.

L’inverso è rappresentato dal Segretario Zingaretti, da sempre contrario ad ogni accordo con i 5Stelle, ma, pur di non favorire elezioni anticipate, accetta le condizioni per la nascita del Conte2. Dopo 13 mesi fatica ancora ad accorgersi della confusa interpretazione della realtà; se fosse andato ad elezioni le avrebbe perse, ma avrebbe evitato la scissione di Renzi, divenuto così del tutto innocuo, ricompattato lo schieramento di sinistra, ridimensionato i 5Stelle, ridotta a nulla la stella di Conte e si sarebbe affermato come unico leader dell’opposizione. Oggi si ritrova a perdere le prossime regionali, ad avere Renzi che manovra per fargli lasciare la segreteria, a non aver ricomposto neppure il suo partito, ad essere intralciato continuamente dagli alleati di governo e ad aver alacremente lavorato per lo splendore contiano.

Il Presidente del Consiglio, alla luce del viale del tramonto dei 5Stelle e al suo non ritorno alla professione, si ritroverà leader di una formazione politica molto ben vista da ambienti ecclesiastici, dalla fu DC, dalla liquida Forza Italia, da contesti massonici. La nascente formazione potrà contare su una dirigenza affidabile e fedele, composta da decine e decine di esperti e consulenti chiamati a supportarlo nella stesura dei tanto amati DPCM e grazie ai quali Erasmo da Foggia potrà dispensare il suo tanto annunciato umanesimo. Zingaretti, forse da pensionato, avrà solo da meditare.

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