RIUSCIRCI DIPENDE ANCHE DA NOI
Siamo alla vigilia delle ferie di agosto, ed è il tempo dei primi consuntivi. Da inizio anno a giugno il Covid19 ci è costato 14,3 punti di pil, che tali resteranno per tutto il 2020 se nel secondo semestre l’economia rimarrà a zero, e 600 mila posti di lavoro persi, che sarebbero molti di più senza il soccorso della cassa integrazione per oltre 8 milioni di lavoratori (42% dei dipendenti) e senza il divieto di licenziamento. Un terzo delle imprese italiane è a rischio, e si calcola che solo nel 2025 avremo recuperato la ricchezza perduta, ma comunque ci resterà da recuperare ancora i tre punti di pil che alla fine del 2019 ci separavano dal 2007.
A fronte di questo disastro lo Stato ha già messo mano al portafoglio per 100 miliardi (compreso l’ultimo scostamento di bilancio di 25 miliardi appena approvato) – puntando esclusivamente sull’allargamento degli strumenti assistenziali, e senza avere la minima capacità di rimettere in moto motori spenti e tantomeno di attivarne di nuovi – il che porta il deficit di quest’anno al 12% del pil e il debito intorno al 160% del pil. Questi numeri, peraltro, fotografano solo le conseguenze immediate della sospensione delle attività per il lockdown, mentre nella seconda parte dell’anno sarà possibile stabilire quanto di questo crollo sarà diventato strutturale e quanto potrà archiviarsi come momentaneo. Al momento i segnali sono ancora troppo incerti e contraddittori per capirlo: da un lato ci sono settori destinati a scomparire o a ridimensionarsi in modo permanente, ed altri a soffrire per ancora molto tempo (per esempio il turismo), mentre viceversa – come nota Nomisma – non mancano comparti che stanno procedendo bene ed imprese che crescono anche in quei settori che in termini aggregati crollano. La selezione darwiniana del nostro capitalismo, iniziata (con grave ritardo) dopo la crisi del 2008 e nuovamente sollecitata, pre Covid, dall’accelerazione dei processi di innovazione impressa dalle tecnologie digitali, è nuovamente pronta ad esplodere, accentuando così le già forti differenze di performance in atto – connesse ai comparti, alle dimensioni delle imprese e al contesto di filiera nel quale operano – in una battaglia che se avrà il segno della sola ambizione della sopravvivenza lascerà nel nostro tessuto economico e produttivo ferite non rimarginabili e che se, invece, sarà all’insegna del cambiamento “senza se e senza ma” allora potrà consentire al paese di uscire dal declino e riedificare su basi nuove il proprio futuro.
La partita, come sempre, la giocano in due: il sistema politico-istituzionale, da una parte, e quello economico e finanziario, dall’altra. Lo schema di gioco, fondamentalmente non potrà che essere uno di questi tre, pur con mille sfumature diverse: prevalente intervento pubblico; mano libera alle imprese; bilanciamento di queste due tendenze. Dico subito che io, avendo sempre sostenuto che all’Italia serve “più Stato e più mercato”, tifo per la terza ipotesi. Prima di tutto perchè oggi se dovesse prevalere una delle altre due, a vincere sarebbe la prima, con tutto quello di negativo che la deriva statalista comporterebbe. Poi perchè la seconda, quella liberista, presupporrebbe la presenza nel paese di un sistema imprenditoriale ben diverso da quello che abbiamo, reso gracile dalla quasi totale scomparsa delle grandi imprese e fragile per un eccesso di piccole realtà non evolute tecnologicamente, ne in grado di diventarlo. In terzo luogo, la quantità di pil da recuperare e lo sforzo che occorre fare per tentare di mettersi al passo con l’evoluzione del capitalismo mondiale richiede necessariamente un intervento pubblico, senza il quale sarebbe impossibile non dico vincere, ma neppure cimentarsi con la sfida immane che abbiamo davanti. Come peraltro ovunque in Europa e nel mondo, la terza via, quella pubblico-privata e che io preferisco chiamare “liberal-keynesiana” senza temere di finire in contraddizione, è dunque la strada obbligata.
Il vero tema è dunque un altro: nel mix, qual è la parte riservata al pubblico e quale quella dei privati? Esiste lo spazio per un soggetto che abbia un mandato di natura strategica e sistemica e che nello stesso tempo agisca in una logica di mercato? E comunque, deve essere chiaro che tutte le attività economiche, comprese le aziende a partecipazione pubblica, devono essere liberate dall’oppressione burocratica e fiscale e svincolate dall’alea della cattiva giustizia, fattori che ne condizionano le capacità competitive e ne frenano lo sviluppo. Solo dopo aver chiarito i termini di questa scelta di fondo – possibilmente evitando, nel farlo, la solita bagarre ideologica da quattro soldi – sarà poi possibile decidere a chi spetta gestire le risorse che arriveranno dall’Europa e con quale finalità esse dovranno essere spese.
Peccato che noi arriviamo a questo decisivo crocevia della nostra storia nel peggiore dei modi. Dei limiti strutturali del nostro capitalismo ho già detto. Ma è sul versante pubblico che si concentrano le maggiori preoccupazioni. Abbiamo istituzioni logorate sia dalla perdita di credibilità sia dalla loro mancata evoluzione e modernizzazione, zavorrate da una architettura arcaica e bizantina, appesantite da un sistema binario, quello centrale e quello delle autonomie, spesso in contrasto e in sovrapposizione, che rende farraginosi i processi decisionali. Abbiamo un sistema politico indefinito, che dopo il fallimento a fine 2011 della Seconda Repubblica – della quale io ho detto e continuo a pensare tutto il male possibile, ma almeno aveva una sua connotazione precisa – non è mai più stato in grado di darsi una fisionomia precisa, intriso com’è di populismo primordiale. Abbiamo un ceto politico di infima qualità, intellettualmente povero, dove l’analisi è assente e la proposta è ridotta a pura propaganda mediatica, che vivono in contenitori che si fatica a definire partiti. Abbiamo un sistema giudiziario vessatorio e nello stesso tempo incapace di assicurare giustizia, animato da una magistratura che ha mostrato di avere non meno e non diversi difetti di quelli che per anni ha sommariamente imputato alla classe politica. Abbiamo una pubblica amministrazione elefantiaca, arretrata, impregnata di deresponsabilizzazione e dominata dalla cultura giuridico-amministrativa anziché da quella tecnico-economica, totalmente disabituata a lavorare per obiettivi. In questo contesto, lamentare le gravi lacune di questo governo è come abbaiare alla luna: questo, come quello degli ultimi anni, è un esecutivo che è il risultato di tutti i limiti, i ritardi e le mancanze fin qui descritte. Con una differenza, però: che si è trovato di fronte ad una crisi di natura straordinaria, alla quale ha ritenuto di dover rispondere mettendo mano a poteri straordinari. Guardate, a differenza di taluni che temono che l’obiettivo sia una messa in discussione della democrazia – chi con qualche ragione, chi del tutto strumentalmente – io credo che la forzatura delle regole sia soltanto la foglia di fico con cui tanto coloro che sono al governo quanto chi sta all’opposizione, cerca di coprire le proprie inadeguatezze. Come dimostra il fatto che dai poteri straordinari – stato di emergenza e uso dei dpcm – non sono emerse decisioni straordinarie, ma soltanto provvedimenti inconcludenti. D’altra parte, il fatto che di fronte all’epidemia si sia fatto ricorso a restrizioni che per modalità e tempo che sono rimaste in vigore non abbiano riscontri in nessun altro paese – il che soltanto il tempo che ci separa dal vaccino e quindi dalla fine di questo incubo, ci dirà se sia stato, sul piano sanitario, un male necessario ma utile – senza che ci fosse sia una preventiva analisi delle conseguenze che ciò avrebbe generato sull’economia e sulla società, sia un programma immediato non solo di interventi tampone (peraltro rimasti in certa misura e per lungo tempo sulla carta) ma anche di carattere più strutturale, la dice lunga su quanto siano l’impreparazione e l’inadeguatezza le cose che dobbiamo temere di più.
Impreparazione e inadeguatezza che sono alla base del fatto che a poco più di 70 giorni dalla data ultima per la presentazione dell’Action Plan, che il Governo dovrà inviare alla Commissione europea se vuole utilizzare i fondi del Next Generation Fund a partire da metà 2021, nulla sappiamo di come e da chi queste risorse verranno impiegate. Così come regna confusione – salvo il filo rosso dell’assistenzialismo e della parcellizzazione delle risorse, che lega tutto – intorno agli interventi di natura più immediata, di qui (anzi, da maggio) all’aprile del 2021, quando i fondi comunitari cominceranno ad arrivare. Neppure sul Mes è stata detta una parola definitiva, nonostante che il ministro Gualtieri abbia lanciato l’allarme di una possibile crisi di liquidità da parte dello Stato e che nella risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio sia stato esplicitato che in caso di necessità si potrà fare ricorso agli “strumenti già resi disponibili dall’Unione europea”, cioè Mes e Sure. Tutto è prima di tutto responsabilità del governo, ma certo l’opposizione non mostra di avere qualità migliori. Ha ragione Renato Brunetta a lamentarsi con i suoi per non aver votato il terzo provvedimento di bilancio, dopo averlo fatto con i primi due, mostrando così di non capire che seguire Salvini sulla strada del sovranismo è un crimine nei confronti del paese ma anche un suicidio politico ed elettorale per i moderati. Al contrario, occorre che questi ultimi in parlamento si muovano per far scoppiare le contraddizioni dentro la maggioranza sul Mes, ed aiutare il Pd a farlo passare piegando la volontà dei 5stelle.
Più in generale, occorre prendere atto una volta per tutte che dopo l’ultimo Consiglio europeo, che ha finalmente deciso di generare debito comune, è ormai in atto una nuova conventio ad excludendum che separa chi in Europa ci vuole convintamente stare da chi ne contesta l’esistenza (anche mascherato da “critico costruttivo”), e che il sistema politico italiano dovrà ridefinirsi sulla base di questa distinzione così come nel dopoguerra fu l’adesione atlantica a fare la linea di demarcazione. Tanto più in una fase come questa, dove la solidarietà atlantica è fortemente messa a rischio da un comportamento americano – vedi il ritiro di 12 mila soldati Usa dalla Germania, vero e proprio schiaffo di Trump alla Merkel ma anche a tutta l’Europa, che umilia il ruolo della Nato – che si spera venga meno a novembre, la solidarietà europea è un valore fondamentale e fondante.
Insomma, c’è da rivoltare il paese come un calzino, e abbiamo poco tempo per farlo. Una parte quantitativamente importante del paese è e si sente garantita: se ne facessi parte – e per fortuna della mia autostima e della mia libertà di pensiero, non è così – sarei seriamente preoccupato, perchè è evidente anche ai ciechi che lo Stato non ha più, e in prospettiva sempre meno avrà, la possibilità di assicurare a tutti le guarentigie fin qui concesse. E se lo facesse spendendo (meglio, provando a spendere) in quella direzione i soldi europei, finirebbe con lo spingere il paese fuori dall’Europa e con indurre tutti gli altri, i “non garantiti”, o ad andare altrove, impoverendo tutti, o fare la rivoluzione. Se invece ci si spingesse finalmente lungo la strada degli investimenti – per modernizzare le strutture avvizzite e le infrastrutture fatiscenti, e per mettere il sistema produttivo nella condizione di raccogliere la sfida della rivoluzione digitale e ambientale – ci sarebbe da fare i conti con le capacità prima di analisi e poi di esecuzione dei progetti. Insomma, un salto mortale difficilissimo e senza alcuna protezione. Ma che gli italiani di buona volontà devono saper compiere. Nel proprio privato così come protagonisti delle scelte pubbliche. Del “partito che non c’è” e che va assolutamente fatto nascere vi ho parlato più volte e non è il caso, alla vigilia delle vacanze agostane, che ve ne riparli. Ma fateci un pensiero, all’ombra di un ombrellone o di un albero. E poi ne riparliamo a settembre, se non si vuole che l’argomento dell’autunno sia il disastro annunciato. Buone vacanze, Terza Repubblica – salvo urgenze che non ci auguriamo – torna il 5 settembre.
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