SAL. Ovvero “stato avanzamento lavori”. È la parola chiave, mutuata dalla contrattualistica che regola negli appalti i rapporti economici tra chi svolge un certo lavoro e il committente che lo deve pagare, per interpretare in modo corretto l’esito del Consiglio europeo della settimana scorsa, senza cadere in ottuse ostilità preconcette ma nemmeno senza cedere alla tentazione delle acclamazioni da stadio. Ovvero dall’Europa arriveranno all’Italia oltre 200 miliardi tra prestiti e aiuti, ma il meccanismo sarà tale da rendere la disponibilità reale di quelle risorse subordinata sia alla preventiva valutazione dei progetti di spesa sia alla loro effettiva realizzazione, nei tempi e nei modi previsti. Una modalità sana, perché ci obbliga a far bene se vogliamo davvero tutti quei soldi (un decimo del pil del 2019), ma che non giustifica il trionfalismo cui stiamo assistendo, a sua volta figlio di una errata quanto stupida interpretazione della partita che si è svolta in Europa, secondo cui dei cattivi (prima i tedeschi, poi gli olandesi) volevano impedire a dei bisognosi come noi (resi tali per colpe altrui e per la disgrazia del Covid) di ricevere aiuti, ma per fortuna è intervenuto il nostro novello Robin Hood, alias Giuseppe Conte, che ha ingaggiato una dura battaglia e ha vinto.
Cerchiamo dunque di far scendere la polvere della propaganda e di analizzare quel che è accaduto, ma soprattutto di ragionare su quanto, di decisivo, deve ancora accadere. Partiamo dall’Europa. Certo si sarebbe potuto fare di più e meglio. Per esempio, come ho già scritto, scegliendo di centralizzare a Bruxelles gli investimenti, almeno quella parte che nel Recovery – o meglio nel piano ribattezzato “Next Generation EU”, che si basa su transizione energetica, transizione digitale e solidità delle finanze pubbliche – è prevista “grants”, per aiutare i capitalismi nazionali a diventare comunitari. Tuttavia, con buona pace dei sovranisti (a cominciare dai nostri), la svolta c’è stata, eccome se c’è stata, soprattutto se si pensa agli errori commessi nel corso delle crisi che si sono succedute dopo il 2008. E il merito è prima di tutto di Angela Merkel che, come ho scritto da tempo, si è rivelata l’unica statista di cui il Vecchio Continente dispone, la sola personalità politica capace di assumersi la responsabilità di affrontare le componenti populiste e nazionaliste delle opinioni pubbliche senza indulgere alla ricerca del consenso a tutti i costi.
Il suo obiettivo non era e non è stato quello di aiutare l’Italia, bensì quello duplice di impedire che una crisi della terza economia continentale possa avere ripercussioni sistemiche, e di mettere in moto un processo che obblighi i paesi a cedere quote crescenti di sovranità a favore di un’integrazione ferma all’euro e all’unione bancaria. Senza Merkel la svolta non ci sarebbe stata, ma un contributo importante l’hanno dato il presidente francese Macron e quello italiano Mattarella. Sì, il nostro Capo dello Stato ha tessuto, con determinazione pari alla discrezione, un reticolo di relazioni, riuscendo ad assorbire buona parte delle tossine create dai nostri sciagurati governanti – tanto quelli del Conte1 quanto del Conte2 – e sminando tante situazioni complicate. È dunque a lui, e non a Conte – che pure da buon avvocato è stato abile nelle trattative, favorito dal fatto di non dover difendere idee e principi che non ha – che andrebbe tributato dagli italiani il merito del buon esito per noi del vertice europeo, comprese quelle condizionalità contro cui Salvini e accoliti scioccamente puntano il dito accusatore, e che invece non solo sono state necessarie nella negoziazione per evitare che il Consiglio europeo si chiudesse con un nulla di fatto, ma che per noi rappresentano una garanzia di poter tentare di sbagliare di meno.
Già, per l’Italia il risultato del vertice Ue è stato importante ma “a condizione che”. E quella condizione dipende esclusivamente da noi. Dalla nostra capacità di predisporre un piano di investimenti e di riforme strutturali che siano nello stesso tempo utili a noi e convincenti agli occhi di chi, non senza argomenti, dubita che sia una buona idea finanziare così massicciamente un paese che porta gran parte della responsabilità delle condizioni critiche in cui versa (al netto del Covid). E che non ha avuto l’intelligenza e la lungimiranza di presentarsi ad un appuntamento così decisivo come il Consiglio Ue della settimana scorsa portando in dote la preventiva adesione al MES e la cancellazione di almeno uno dei provvedimenti assistenziali fin qui realizzati (per esempio “quota 100” o il reddito di cittadinanza). Della serie: chiediamo la fine delle politiche di austerità europee perché dalla nostra abbiamo la credibilità che ci deriva dal mettere fine all’assistenzialismo come strumento di ricerca del consenso.
Ma proprio perché ci siamo presentati a Bruxelles a mani vuote e con in più la prosopopea di chi accampa diritti in nome di un vittimismo piagnone che non ha nessuna ragione d’essere, neanche a fronte dei difetti altrui (che pure esistono), a maggior ragione adesso dobbiamo scegliere una modalità che assicuri a noi stessi e agli altri un percorso virtuoso nell’uso delle risorse comuni, non fosse altro perchè o con quelle l’Italia riesce nel contempo a fronteggiare la recessione in corso e a vincere le sue ataviche resistenze allo sviluppo e alla modernizzazione – due fattori che oggi più che mai, con la rivoluzione digitale in corso, sono inscindibili – oppure è destinata a sprofondare in una drammatica crisi epocale dalla quale non ci sarà Merkel o Bce che potrà salvarla.
Il nodo da affrontare è sostanzialmente uno: chi predispone i progetti di investimento e il piano delle riforme, gestisce le risorse ed è responsabile della progressione del programma dal cui avanzamento dipende l’erogazione delle medesime? Posta così la domanda, in un paese normale la risposta non potrebbe che essere una: il governo. Ma l’Italia non è un paese normale ormai da tanto tempo, il governo è palesemente incapace di affrontare l’emergenza economica, orientato com’è alla pura sopravvivenza a fronte di una maggioranza dilaniata dalla tensioni tra e dentro i partiti che la compongono, e per di più le circostanze che viviamo sono a dir poco straordinarie. Per questo è subito partita la discussione su quali mani debba stare il bastone del comando: palazzo Chigi, il Tesoro, una cabina di regia, una task force interministeriale, addirittura una commissione parlamentare bicamerale nella quale coinvolgere in qualche modo le opposizioni. Una deriva che la dice lunga su quanto sia alto la probabilità che si inneschi una guerra senza esclusione di colpi sulla gestione di questa enorme montagna di soldi, seppure sottoposta a procedure stringenti, e di conseguenza di quanto sia forte il rischio di buttare via l’occasione storica, irripetibile, di riavviare il motore dello sviluppo come fu nel dopoguerra.
E allora? Sempre seguendo la logica si potrebbe dire: si cambi governo. Ma come abbiamo visto, le carte elettorali distribuite nel 2018 impediscono una terza ipotesi dopo le due maggioranze già sperimentate. Ergo, o si fa un governo del presidente con un’amplissima maggioranza parlamentare, o si va alle elezioni. Ma entrambe le strade, per motivi che abbiamo più volte analizzato, sembrano precluse. Inoltre, non è affatto detto che un governo di centro-destra, ammesso (e non concesso) che trovasse i numeri in questo parlamento o nelle urne, avrebbe una maggiore solidità dell’attuale alleanza Pd-5stelle, a cominciare proprio dalle politiche europee, come si è visto dalla distanza siderale che separa Salvini da Berlusconi e persino dai distinguo, rispetto alla Lega, della Meloni.
Di fronte a questa impasse, trovo molto ragionevole la proposta lanciata da Giorgio La Malfa e Federico Carli: va creato un soggetto ad hoc, investito dei poteri da un decreto del presidente della Repubblica su indicazione del governo e il parere favorevole del parlamento, al cui vertice va nominata una figura di assoluto prestigio che possa dialogare in Europa con la credibilità necessaria. Ovviamente il primo (e unico) nome che viene alla mente è quello di Mario Draghi, al quale un incarico di questo genere potrebbe non dispiacere, contrariamente ad un suo insediamento a palazzo Chigi come presidente del Consiglio, anche perchè rappresenterebbe il miglior viatico per salire al Colle al termine del settennato di Mattarella senza correre il rischio prima di doversi inimicare questa o quella forza politica. Naturalmente, l’esecutivo non dovrebbe spogliarsi delle sue prerogative, ma avrebbe l’alto compito degli indirizzi di fondo lasciando ad un soggetto istituzionale terzo l’onere della gestione del denaro, che per un governo è sempre la cosa più pericolosa che ci possa essere.
Certo, questo presupporrebbe che Conte avesse lucidità politica e consapevolezza dei suoi limiti, doti di cui ho come l’impressione che l’avvocato del popolo scarseggi. Anche perchè il presidente del Consiglio, se possedesse queste doti, avrebbe fatto prima questa scelta, presentandosi al cospetto dei paesi europei a cui chiedeva lungimiranza con un nome che avrebbe chiuso loro la bocca. Ma qui potrebbe venirci incontro il presidente Mattarella, inducendo Conte, con la giusta moral suasion, a fare una scelta che sarebbe anche nel suo interesse (se la fa dura, se non la fa sarà travolto).
Insomma, il dibattito su quali investimenti fare e quali riforme strutturali attuare, visto che avrebbe dovuto svolgersi già a fine lockdown per presentarsi al Consiglio Ue con le idee chiare e un piano convincente e non solo con il cappello in mano, a questo punto diventa successivo alla scelta metodologica sullo strumento a cui affidare le sorti del neo piano Marshall. Il resto verrà, o no verrà, di conseguenza.
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