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L’origine dell’ “io sono” – The origin of “I am”

Vorrei  specificare che  alla base del discorso che segue pongo la mia esperienza personale, impiantata nella memoria, del momento in cui la coscienza stava illuminando la formazione di un corpo nel grembo di mia madre, essendo questa coscienza individuale denominata “anima”, in cui percepii chiaramente il decorso karmico che quella forma psicofisica (quel me stesso) era destinata a compiere. Vidi le sue propensioni, le sue radici geniche, le tendenze innate, le vicende destinate, le difficoltà, la gloria, il sacrificio, insomma tutto quel che doveva essere compiuto attraverso quello specifico individuo umano. Ebbene nel percepire tutto ciò chiaramente sentivo una certa riluttanza ad affrontare le prove, meglio dire a testimoniarle, o renderle possibili attraverso la presenza cosciente che io sono. Eppure, il delinearsi del destino incipiente nello specchio della mente, che lo registrava e quindi lo immagazzinava come una pellicola che poi sarebbe stata proiettata nel corso della vita, comportava una parvenza di libero arbitrio nell’accettare il fato o nel rifiutarlo. Certo questa sensazione di accettazione o rifiuto era totalmente soggettiva e non poteva in alcun modo modificare il corso degli eventi preordinati, ma avrebbe potuto lasciare una traccia sotto forma di insoddisfazione e rifiuto, con le conseguenze che  si possono immaginare nel dispiegamento della vita che stava per manifestarsi… (e magari anche in  ipotetiche future esistenze)…

Ci si pone una domanda, da dove sorge? Diamo una risposta da dove è venuta?

Ora, ad esempio, son qui che mi interrogo sulla realtà del manifestarsi della nostra vita. Essa è compiuta da un insieme di forze ed elementi congiunti che si combinano secondo loro leggi, o dettami del caso, oppure è il risultato di un agire volontario che cerca in tutti i modi di forgiarne forma e contenuti? Questo investigare è alla base di ogni concettualizzazione ed azione fisica o metafisica… Nel tentativo di capire la natura del nostro pensare ed agire si sono già interrogati gli uomini che ci hanno preceduto e sarà così per quelli a venire…. E la risposta?

Questo testo, ad esempio, che io sto scrivendo e che tu leggi (presupponendo che qualcuno lo legga..) da dove nasce? Le idee in esso contenute come hanno potuto affiorate nella mente, come sono condivise e comprese dall’ipotetico lettore? Il lettore comprende la tematica quindi significa che egualmente si è posto il dilemma… In ogni caso è codesto scritto il risultato di una libera scelta, un elaborato con un intento preciso, derivante da un processo volontario, da una decisione di mettere in atto l’azione del pensare e dello scrivere? O piuttosto è conseguenza di una serie di impulsi auto-generati che si uniscono sino a formulare quest’articolo?

Seguendo un ipotetico processo razionale, di primo acchito, sarei portato a rispondere che sì, questo scritto è frutto della mia decisione, è il risultato di un mio personale ingegno compositorio che prende questa forma descrittiva, impiegando le figure di un ragionamento filosofico…

No, non ne sono sicuro… Non ne sono sicuro perché “capisco” od intuisco che il mio ragionamento è definibile solo dopo che spontaneamente e senza alcuna intenzione da parte mia è apparso nella mia mente. E’ “apparso” e da dove? Il meccanismo della comparsa dei pensieri è un aspetto sconosciuto ed in conoscibile, essi sorgono da un non si sa dove…. Solo in seguito al loro presentarsi dinnanzi alla nostra coscienza possiamo affermare “ho pensato a questo…”. Insomma facciamo nostri i pensieri dopo che ci son venuti incontro dal nulla, li possediamo come qualsiasi altro oggetto che chiamiamo nostro (pur essendo in realtà della terra)… ed allora il senso del possesso è solo indicazione continuata d’uso, un uso comunque limitato nel tempo e nella qualità del suo godimento…

Ogni cosa che definiamo “nostra” o nella quale ci identifichiamo, come “il mio corpo” -ad esempio- o “la mia mente” è in verità nostra solo per una consuetudine di impiego e di presenza. Quando sogniamo siamo avvezzi ad identificarci con uno dei personaggi del sogno e percepiamo questo personaggio come un “me” che si rapporta con altri personaggi operanti in un mondo, tutto il sogno in realtà si presenta davanti alla nostra coscienza e su di esso non abbiamo alcun controllo operativo, anche se, come nello stato di veglia, riteniamo di agire con uno scopo, ottenendo risultati oppure fallendo nell’ottenerli.

Dico “come nella stato di veglia” per inserire una rapida analogia comparativa con la realtà del nostro operare da svegli…. Chiamiamo il nostro agire nel mondo il risultato di un libero arbitrio e ce ne facciamo, di fronte a noi stessi ed agli altri (esattamente come nel sogno), responsabili, accettiamo lo sforzo del tentativo di raggiungere uno scopo, ci sentiamo frustrati se falliamo nel conseguimento, consideriamo che le nostre azioni sono legate ad un processo di causa ed effetto, ci arabattiamo nel cercare di prefigurarci un fine, per poi eventualmente pentirci e cercare il suo contrario.

Le religioni hanno utilizzato questo processo del divenire e dell’instabilità della mente e del desiderio di un risultato (immaginato come stabile e definitivo ma vano) per ordinare la vita di ognuno in termini di “responsabilità diretta” con successivo premio finale in veste d’inferno o di paradiso.

Nel dualismo religioso, sociale, o ideologico, nella separazione dal Tutto, l’unica cosa che si può fare è cercare di ottenere buoni risultati utilizzando la propria volontà, da noi definita libera scelta, illudendoci così di pervenire a qualche esito che ingenuamente definiamo la “risposta” alla nostra ricerca materiale e spirituale. Premio e castigo sono nelle nostre mani… e con questo peso sul groppone “commerciamo” e “speculiamo” con e su Dio –se crediamo il lui- oppure con la Natura e le leggi della giungla –se siamo atei materialisti- oppure facciamo come i superstiziosi che dicono “non è vero … ma ci credo!” finendo un po’ di qua ed un po’ di là della barricata immaginaria, o magari, come spesso avviene alla maggioranza di noi, cercando tout court di dimenticare il problema immergendoci nella soddisfazione delle esigenze e necessità quotidiane.

Ma l’enigma ritorna…. È un qualcosa di sconosciuto ed in conoscibile che torna a perseguitarci… Alla fine diamo la colpa agli Dei ed alla forza del destino! Infatti noi osserviamo per esperienza diretta che alcune cose che abbiamo intenzione di raggiungere ci sfuggono, mentre altre che aborriamo accadono.

“Possiamo definire questa forza che fa accadere ogni cosa Dio oppure “swabava”, che significa l’inerente natura di ognuno – diceva Anasuya Devi quando mi trovavo a Jillellamudi – aggiungendo che “questa forza si manifesta non solo negli eventi naturali e ciclici ma anche nell’inaspettato e persino nel tentativo dell’uomo di controllare l’inaspettato, e persino nel senso di aver noi deciso di compiere un determinata azione o corso di azioni”.

Come dire che questa “forza” assume la forma di compulsione interiore e che noi, facendo nostra la formulazione, definiamo “libera scelta”… Insomma la libera scelta non è altro che lo svolgimento mentale consequenziale allo stimolo interiore ricevuto, il modo banale attraverso il quale quella “forza” o “swabava” ci fa compiere l’azione “volontariamente”.

Ciò non toglie che nel nostro io, almeno quel riflesso mentale della coscienza che definiamo “io”, siamo perfettamente convinti che l’azione compiuta è frutto di una nostra decisione, che il pensiero osservato è nostro proprio, che questo scritto è da me arbitrariamente redatto, che tu stai leggendo di tua propria opzione.
“Ma i frutti del nostro agire non sono permanenti – diceva Ramana Maharshi – ed il rincorrerne i risultati ci rende prigionieri dell’oceano del “karma” (il divenire attraverso l’azione), impedendo la comprensione della vera natura dell’Essere”

Ciò significa che le azioni da noi compiute con uno scopo, e con appropriazione identitaria del compimento, ci portano ad esperimentare piaceri e dolori. Essi sono in verità limitati nel tempo ma lasciano dei semi nella mente, causa di una successiva fatica nell’evitare o perseguire certe azioni. Questi semi (detti in sanscrito “vasana”) ci spingono in una serie apparentemente infinita di coinvolgimenti ed atti, legando la nostra attenzione al mondo esteriore ed impedendo la scoperta della nostra vera natura interiore. Perciò nell’intendimento dato all’azione non può esserci affrancamento dall’io (ego), che è limitato al corpo mente.

Si potrebbe obiettare che se non c’è intendimento nemmeno l’evoluzione è possibile, né il miglioramento della propria condizione… Eppure accettando la crescita spontanea alla quale la vita spontaneamente tende (come è nei fatti comprenderlo) saremo “liberi” di portare a termine tutte quelle azioni che naturalmente vanno nella direzione della crescita, ad adempimento dell’ispirazione interiore, senza assumercene l’onere….

Chiamarlo “arrendersi” alla propria inerente natura o svolgimento del proprio dovere karmico (dharma) a questo punto non importa, succede e basta!

Paolo D’Arpini

Comitato per la Spiritualità laica

Fonte: https://bioregionalismo.blogspot.com/2020/04/everything-is-present-in-everyones.html

Testo inglese

I would like to specify that at the base of the following discourse I place my personal experience, implanted in the memory, of the moment when the consciousness was illuminating the formation of a body in my mother’s womb, being this individual consciousness called “soul”, in which I perceived clearly the karmic course that that psychophysical form (that myself) was destined to perform. I saw his propensities, his genic roots, innate tendencies, destined events, difficulties, glory, sacrifice, in short all that had to be accomplished through that specific human individual. Well in perceiving all this clearly I felt a certain reluctance to face the tests, better to say to testify them, or to make them possible through the conscious presence that I am. Yet, the emergence of incipient fate in the mirror of the mind, which recorded it and then stored it as a film that would then be projected over the course of life, entailed a semblance of free will in accepting or rejecting fate. Of course this feeling of acceptance or rejection was totally subjective and could in no way change the course of the preordained events, but could have left a trace in the form of dissatisfaction and rejection, with the consequences that can be imagined in the unfolding of the life that was about to manifest… (and perhaps also in hypothetical future existences)…

A question arises, where does it arise? Let’s give an answer where did it come from? Now, for example, I am here that I ask myself about the reality of the manifestation of our life. Is it accomplished by a set of joint forces and elements that combine according to their laws, or dictates of the case, or is it the result of a voluntary action that tries in every way to forge its shape and content? This investigation is at the basis of any conceptualization and physical or metaphysical action …

In an attempt to understand the nature of our thinking and acting, the men who preceded us have already questioned themselves and it will be so for those to come … And the answer: this text, for example, that I am writing and that you read (assuming someone reads it ..) where does it come from? How did the ideas contained in it emerge in the mind, how are they shared and understood by the hypothetical reader? The reader understands the theme therefore it means that the dilemma has been posed equally … In any case, the result of a free choice is written, an elaborate with a precise intent, deriving from a voluntary process, from a decision to implement the action of thinking and writing?

Or rather is it the consequence of a series of self-generated impulses that come together to formulate this article? Following a hypothetical rational process, at first glance, I would be led to answer that yes, this writing is the result of my decision, it is the result of my personal compositional ingenuity that takes this descriptive form, using the figures of a philosophical reasoning … No, I’m not sure … I’m not sure because I “understand” or I sense that my reasoning can be defined only after spontaneously and without any intention on my part appeared in my mind.

Did he “appear” and from where? The mechanism of the appearance of thoughts is an unknown and unknowable aspect, they arise from an unknown where… Only after they appear before our conscience can we say “I thought about this…”. In short, we make our thoughts our own after they came to meet us out of nowhere, we possess them like any other object that we call our (even though it is actually of the earth) … and then the sense of possession is only a continuous indication of use, a limited use in any case over time and in the quality of its enjoyment…

Everything we define as “ours” or in which we identify ourselves as “my body” -for example- or “my mind” is in truth ours only for a custom of use and presence. When we dream we are accustomed to identify with one of the characters of the dream and we perceive this character as a “me” who relates to other characters operating in a world, the whole dream actually presents itself in front of our conscience and on it we have no operational control, even if, as in the waking state, we believe we are acting with a purpose, obtaining results or failing to obtain them. I say “as in the waking state” to insert a rapid comparative analogy with the reality of our work while awake…

We call our action in the world the result of a free will and we do it, in front of ourselves and others (exactly as in the dream), responsible, we accept the effort of the attempt to achieve a goal, we feel frustrated if we fail in achievement, we consider that our actions are related to a cause and effect process, in trying to prefigure us an end, then eventually repent and seek its opposite.

Religions have used this process of becoming and instability of the mind and the desire for a result (imagined as stable and definitive but vain) to order life of each in terms of “direct responsibility” with subsequent final prize in the guise of hell or heaven. In religious, social, or ideological dualism, in separation from the Whole, the only thing that can be done is to try to achieve good results using his own will, which we define as free choice, thus deluding ourselves that we will reach some outcome which we naively define as the “answer” to our material and spiritual research.

Reward and punishment are in our hands… and with this weight on the rump we “trade” and “speculate” with and on God -if we believe him- or with Nature and the laws of the jungle -if we are materialistic atheists- or do as superstitious people who say “it’s not true… but I believe it!” ending a little here and a little beyond the imaginary barricade, or perhaps, as often happens to most of us, trying tout court to forget the problem by immersing ourselves in the satisfaction of daily needs and needs. But the riddle returns … It is something unknown and unknowable that comes back to haunt us…

In the end we blame the Gods and the force of fate! In fact, we observe from direct experience that some things that we intend to achieve escape us, while others that we abhor happen. “We can define this force that makes everything happen God or” swabava “, which means the inherent nature of everyone – said Anasuya, when I was in Jillellamudi – adding that “this force manifests itself not only in natural and cyclical events but also in the unexpected and even in man’s attempt to control the unexpected, and even in the sense of having decided to make a determined action or course of actions “. How to say that this” force “takes the form of inner compulsion and that we, making our formulation, define” free choice “… In short, free choice is nothing other than the mental development consequential to the stimulus received interior, the banal way through which that “force” or “swabava” makes us perform the action “voluntarily”. it does not take away that in our ego, at least that mental reflection of the consciousness that we call “ego”, we are perfectly convinced that the action taken is the result of our decision, that the observed thought is our own, that this writing is arbitrarily edited by me , that you are reading of your own option.

“But the fruits of our actions are not permanent – said Ramana Maharshi – and chasing the results makes us prisoners of the ocean of” karma “(becoming through action), preventing understanding the true nature of Being ”This means that the actions we perform with a purpose, and with identity appropriation of fulfillment, lead us to experience pleasures and pains. They are actually limited in time but leave seeds in the mind, the cause of a subsequent effort in avoiding or pursuing certain actions. These seeds (called in Sanskrit “vasana”) push us into an apparently infinite series of engagements and acts, binding our attention to the external world and preventing the discovery of our true internal nature. Therefore in the understanding given to action there can be no release from the ego, which is limited to the mind body. One could object that if there is no understanding, neither evolution is possible, nor the improvement of one’s condition…

Yet accepting the spontaneous growth to which life spontaneously tends (as it is in fact understanding it) we will be “free” to carry out all those actions that naturally go in the direction of growth, to fulfill the inner inspiration, without assuming the burden … Calling it “surrender” to one’s inherent nature or performance of one’s karmic duty (dharma) at this point doesn’t matter, it just happens!

Paolo D’Arpini

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