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L’effetto narcotico delle festività pasquali e dei lunghi ponti del 25 aprile e del primo maggio – 15 giorni di “sospensione” che nessun altro paese al mondo si permette – sta per svanire, e con esso l’idea che si possano codificare come semplici sceneggiate a fini elettorali le randellate che i due partiti di governo si assestano con sempre maggiore frequenza e violenza quanto più ci si avvicina alle elezioni europee del 26 maggio. I “casi” aperti, sull’uno come sull’altro fronte, sono così numerosi che è difficile, oltre che stucchevole, tenerne il conto. L’unica cosa che vale la pena di sottolineare, è che ancora una volta, a distanza di 27 anni dalla Tangentopoli del 1992, siano gli interventi della magistratura inquirente a determinare gli eventi politici e che dopo un quarto di secolo passato senza riuscire a sanare il vulnus del rapporto malato tra giustizia e politica, il Paese si ritrova il leader del partito di maggioranza relativa nonché vicepresidente del Consiglio che si attarda a dire di un suo collega di governo “finché non sarà giudicato innocente si metta in panchina”, confermando che la presunzione di innocenza è morta e sepolta e che con l’inversione dell’onere della prova è l’accusato a dover dimostrare di essere innocente e non l’accusatore a doverne dimostrare la colpevolezza.
Detto questo, è ormai evidente anche ai ciechi che tanto il rapporto politico tra 5stelle e Lega quanto quello personale tra Di Maio e Salvini si siano consumati per non dire disintegrati. E con essi si sia dissolto il governo, il cui compito era già terminato a fine 2018 con il compiersi della (pessima) manovra di bilancio, cui ha corrisposto l’esaurirsi dei contenuti e della funzione stessa del “contratto di governo”. In altri tempi (e altre epoche) qualche mese di galleggiamento non sarebbe stato difficile, in questo quadro e sulla base di un’alleanza politica così fragile, oltre che nel contesto di una recessione-stagnazione sfibrante, quattro mesi – ora destinati a diventare cinque – di “non governo” non potevano, e non potranno, non lasciare un segno profondo nel corpo del paese, e soprattutto della sua economia. Come già certificano molte istituzioni internazionali, dall’Fmi – che sottolinea a matita rossa il binomio letale “crescita zero e indebitamento sempre più elevato” – alla Bce, che ancora in queste ore, anche di fronte allo spread che è tornato tra i 260 e i 270 punti, ha reiterato il suo monito sul “rischio Italia” e il possibile contagio procurabile a tutta l’eurozona, visto che ci siamo mangiati i “margini” che ci potevano consentire di evitare “un inasprimento delle politiche di bilancio”.
Certo, chi si aspettava che il colpo finale al governo gialloverde lo assestasse il nuovo pronunciamento di Standard and Poor’s, è rimasto deluso. Per fortuna, aggiungiamo noi, perché se l’agenzia americana avesse tagliato il rating sul nostro debito sovrano, già ora (BBB con prospettive “negative”) a un passo dal baratro, avrebbe con ogni probabilità innescato non solo una nuova tempesta finanziaria italiana, ma anche europea e forse globale. Probabilmente è per questo che S&P, a un mese dal voto in Europa, non ha voluto prendersi la responsabilità di rischiare di provocare una crisi sistemica. Tuttavia, non c’è nulla di cui gioire: vale quel che l’agenzia Bloomberg, termometro rivelatore degli umori dei mercati finanziari mondiali, ha scritto nei giorni scorsi a proposito del fatto che tutti gli operatori sanno che è in arrivo una crisi finanziaria in Italia, non è più una questione di “se” ma di “quando”.
In tutti i casi, di certo non sarà né il brodino tiepido del “decreto crescita” che mette in campo risorse che non arrivano a mezzo miliardo – ammesso che in un clima così deteriorato, all’insegna di misure assunte “salvo intese”, lo si riesca a portare definitivamente a compimento – né il contraddittorio provvedimento cosiddetto “sblocca cantieri”, giudicato insufficiente dagli imprenditori dell’edilizia e delle infrastrutture, a dare la necessaria sferzata all’economia e a cambiare il verso al corso (verso l’abisso) della politica. Certo, di solito avviene che sia la forza delle opposizioni a buttare giù i governi, ma non sarà certo la prima volta che un esecutivo zompa per la forza centrifuga delle proprie contraddizioni e degli scontri al proprio interno. Renzi, tanto per citare l’ultimo suicidio politico in ordine di tempo, non si è forse fatto male da solo?
Ma c’è di più. Non è solo il “governo del cambiamento” ad essersi rivelato un “non governo” avviato alla fine dei suoi giorni, è questa legislatura che, nata già morta, è destinata ad esaurirsi in breve tempo. Si era detto con grande dispendio di fiato che il 4 marzo 2018, o se si vuole il primo giugno, aveva visto la luce la Terza Repubblica. Oggi si può dire che se nel 1994 è nata la Seconda Repubblica – ammesso e non concesso che fatti politici traumatici di origine giudiziaria e modifiche delle leggi elettorali, senza coerenti cambiamenti istituzionali derivanti dal mettere mano in modo significativo alla Costituzione, consentano alla storia repubblicana di fregiarsi di un nuovo titolo – e nel 2011 con il governo Monti si è aperta una fase di transizione che abbiamo chiamato Seconda Repubblica bis, nel 2018 è sorta la “Non Repubblica”, fase buia e senza sbocco. Per questo non solo ha un’importanza relativa se i reiterati strappi di questi giorni produrranno la crisi di governo subito e le conseguenti elezioni anticipate a giugno oppure dopo le europee per andare al voto a settembre-ottobre – proseguire oltre sarebbe un dramma per il Paese ma anche un suicidio per i due partiti e i loro leader – ma occorre aver bene a mente che non basterà un nuovo parlamento e (sperabilmente) un diverso governo ad aprire una nuova stagione repubblicana. Smaltire la sbornia populista e archiviare le sciagurate velleità nazional-sovraniste, sarà ovviamente necessario. Ma non sufficiente. Per il vero cambiamento, ci vorranno forze politiche nuove, possibilmente radicate nelle culture politiche europee, che diano vita ad un sistema politico più maturo e che, riprendendo il filo delle riforme costituzionali – il No a quella di Renzi, di cui noi personalmente non ci pentiamo neppure un po’, non preclude alla possibilità di un intervento serio teso a modernizzare il vecchio assetto istituzionale – offra al Paese la chance di una vera ripartenza attraverso il lavoro di ripensamento della Repubblica attraverso una nuova Assemblea Costituente. Un percorso complesso e non breve, ma che presto apparirà agli occhi della maggioranza degli italiani assolutamente indispensabile. Peccato che si tratterà di una consapevolezza tardiva, perché questo percorso l’Italia avrebbe dovuto iniziare a farlo già nel 1994. E che a costringerci a imboccare questa strada saranno circostanze pesanti, come la perdurante stasi dell’economia e un pericoloso isolamento in Europa. Ma meglio tardi che mai. |
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